Garufi, Rocambole – “Agamennone, il Dovere antico del Potere”, Racconto

Agamennone, il dovere antico del potere

di Rocambole Garufi

I

Gli storici più scrupolosi finiscono per realizzare fumose architetture di fatti, selezionando fra i caotici avvenimenti del passato, così come l’abate Pella nel romanzo “Il Consiglio d’Egitto” di Leonardo Sciascia:

Inseguiva i fatti della vita, il passato e il presente, a cavarne sentimenti e significati come un tempo dai sogni degli altri estraeva i numeri al lotto.”1

Così, con un volo pindarco che non mi curo di spiegare, ritenendolo intuitivo, considero il canto primo dell’Iliade un raffinatissimo trattato di politica.

Più di Achille, però, mi è simpatico Agamennone. Questi è forse la figura più vera e tragica dell’epica greca: incompreso, disprezzato e sempre costretto a cedere nei suoi affetti per il bene comune. Sua figlia Ifigenia è già morta, perché la pretesa degli dei è che il capo non deve avere sentimenti privati. Il capo, come Il Padrino del romanzo di Mario Puzo, è l’uomo meno libero e più solo del mondo.

Infatti, per il buon fine della guerra di Troia, Agamennone, nell’interesse di tutti e contro il suo interesse, non può che chinare la testa. A guerra finita e vinta, il suo premio è la morte per mano della moglie Clitennestra.

L’Iliade, quindi, prende l’avvio dalla sua personale tragedia (altro che ira di Achille!)…

La bella Criseide, finalmente, è riuscita a donargli qualche attimo di umanità: la gioia dei rapporti sessuali e un po’ di tenerezza nel vederla intenta nei lavori donneschi…

E’ vero. La fanciulla è una schiava, una preda di guerra, qualcosa insomma che ripugna alla coscienza moderna. Questo, però, è il costume di allora. Agamennone non pensa di essere cattivo. O meglio, non pensa che essere cattivo sia un male.

Eppoi, Achille non è più buono di lui.

Anzi, è molto più rozzo; perciò – come un Marco Travaglio qualsiasi – ha bisogno di additare dei colpevoli per i mali che funestano gli achei. La peste gli dà una fifa invincibile, perché contro di essa s’infrange la sua forza e la sua invulnerabilità. In un’altra peste, quando l’aedo non si chiamerà più Omero, ma Alessandro Manzoni, i moderni Achille processeranno gli untori.

Ora, tutti prendono per scusa il fatto che Agamennone ha respinto in malo modo le suppliche del vecchio Crise per riavere la figlia. E’ il modo più facile per spiegarsi il diffondersi della peste.

Achille ha il coraggio di dire chiaramente quello che tutti pensano. Magari, per giorni ci sarà stato un Beppe Grillo dell’epoca – probabilmente, l’orribile Tersite – che lo ha sobillato. Si sarà detto che Agamennone si comporta come tutti i politici… I più inquadrati in coro avranno gridato:

Onestà! Onestà!”

Quale ingiustizia peggiore poteva farsi ad un uomo che per il bene comune aveva sacrificato la figlia?

Soren Kierkegaard ha scritto qualcosa sulla religione come scandalo: Mosè sta per uccidere Isacco perché così ha ordinato Dio. Ma, Dio all’ultimo momento ha fermato la mano omicida. La politica è una padrona più esigente e non ferma mai il dolore. Anzi, pare nutrirsi di dolore.

Il tutto perché, per superare il conflitto degli interessi individuali, è stato inventato il concetto di interesse collettivo.

Soltanto a quest’ultima, astratta logica debbono render conto le istituzioni politiche.

II

Con gli achei a tavola, quella sera Omero – un vecchio cencioso, cieco, deformato dai reumatismi e con una voce ormai ridotta ad un lieve sussurro – era ascoltato con grande ed universale attenzione.

Il suo pubblico diceva che una dea gli parlava dentro. Ecco perché egli non mancava di invocarla solennemente, la dea, all’inizio di ogni racconto su quel terribile nono anno della guerra troiana. Proprio per dar ragione al pubblico, com’è normale fra la gente di spettacolo.

“Quando per volere (o per capriccio?) di Zeus negli accampamenti achei scoppiò la rabbia di Achille…” prese a narrare Omero.

Ne seguì una dolorosissima strage di eroi, alcuni dei quali lasciarono i loro corpi a far da pasto ai cani ed agli uccelli. Tutto per la “durezza del cuore di Agamennone”, re di Micene e capo della spedizione.

Infatti, qualche tempo prima costui aveva rapito Criseide, figlia di Crise, vetusto e venerabile sacerdote del tempio di Febo a Crisa. Perciò, il povero genitore era venuto negli accampamenti achei, a chiedere indietro la fanciulla.

Dopo aver mostrato le bende e lo scettro che attestavano la sua condizione sacerdotale, egli si rivolse ad Agamennone, al cui fianco stava il fratello Menelao.

“Voi due” disse, “siete i figli del grande Atreo ed avete per compagni i nomi più famosi nell’arte delle armi. Che gli dei vi diano, dunque, la forza di vincere i troiani e di tornarvene salvi in patria!… Vi supplico, però, di ridarmi mia figlia. Vi offro un giusto riscatto; ma non offendete il dio Febo, oltraggiando il suo sacerdote.”

In tutti i presenti si alzò una mormorio di simpatia per l’uomo ed anche l’invito ad Agamennone ad accettare la proposta. Ma, il re non si lasciò intenerire.

“Vattene” intimò al vecchio, “e non farti vedere più! Altrimenti, non ti serviranno a nulla le insegne del tuo dio. Nessuno toglierà tua figlia dalla mia casa e dal mio letto.”

Sul momento a Crise non restò che obbedire. Però, incamminatosi lungo la riva del mare, appena fu fuori dalla vista degli uomini, si rivolse al dio Febo:

“Ascoltami, tu che proteggi la bellezza e distruggi i topi che attaccano i campi” pregò. “Io che ho sempre adornato il tuo simulacro con festoni di ghirlande e che per te ho fatto sacrifici di Giovenche e di capretti, ti chiedo di venirmi in aiuto. Vendica l’offesa fattami dagli achei.”

Forse il dio non restò insensibile a questa preghiera, o forse il caso volle che il suo sacerdote avesse l’impressione di essere accontentato. Fatto sta che Omero, da poeta, se la cavò immaginando che Febo scendesse sdegnato dall’Olimpo, sede degli dei, con in mano l’arco d’argento e sulle spalle la faretra:

“… Mettean le frecce orrendo

su gli omeri all’irato un tintinnìo

al mutar de’ gran passi…”2

Arrivò, quindi, fra gli uomini e scese come una notte fosca sul campo acheo, portando la morte con le sue frecce argentee. Oggi, in termini più prosaici si potrebbe parlare di peste, tanto più che il contagio partì dalle carogne dei muli e dei cani. Anche se, subito dopo, probabilmente favorito dal violento caldo e dalle esalazioni infette, si estese agli uomini.

Per nove giorni i guerrieri non fecero altro che bruciare cadaveri. Al decimo Achille riunì tutti in assemblea. Pure in questa occasione Omero parlò di un intervento dall’Olimpo, questa volta da parte di Era. Pare, infatti, che la dea dalle bianche braccia si fosse impietosita per tanti lutti ed avesse posto nella mente del suo protetto la decisione di convocare i compagni.

Così, alzatosi dal seggio, nel silenzio mesto degli altri, l’eroe si rivolse ad Agamennone e disse:

“Credo che, continuando così, dovremo tornarcene a casa, sempre se riusciremo a scampare la morte che si aggira fra noi. Consiglio, quindi, di interrogare, o un indovino, o un sacerdote, o un interprete di sogni, che ci dica il perché di un male che io sospetto ci venga da Febo.”

Detto ciò, sedette.

Allora, si alzò l’indovino Calcante, figlio di Testore. Egli era venuto a Troia, al seguito degli eserciti, poiché, di tutti, era considerato il più saggio.

“E’ difficile il compito che mi affidi, Achille” esordì. “Voglio, perciò, che tu ti faccia garante della mia sicurezza, se davvero debbo rivelare il motivo dello sdegno di Febo. Infatti, chi ci guida in questa guerra sarà molto contrariato per le mie parole. Purtroppo, l’esperienza insegna che se un potente si arrabbia con un suo sottoposto, magari sul momento sa nascondere i suoi propositi di vendetta: ma, prima o poi, trova l’occasione di farla pagare al malcapitato.”

“Parla senza paura” lo rassicurò Achille. “Io giuro davanti a Febo ed a Zeus che, finché sarò vivo, nessuno…”

E qui calcò la voce, guardando in faccia Agamennone.

“Nemmeno Agamennone potrà alzare la mano su di te.”

Tranquillizato da quel giuramento, Calcante diede il suo verdetto:

“Il dio non si lagna, né dei nostri sacrifici, né delle nostre preghiere. E’ l’oltraggio che Agamennone ha recato al sacerdote Crise che lo ha fatto infuriare. Le morti non cesseranno, se la fanciulla non sarà restituita al padre, accompagnata dall’offerta di cento animali, da sacrificarsi davanti al suo tempio.”

E sedette.

Com’era immaginabile, la reazione di Agamennone fu pronta.

“Profeta di sventure!” ringhiò, guardando torvo l’indovino. “Pare che la tua sola gioia sia annunciare disastri!”

Tanta animosità da parte del re di Micene era davvero il minimo che Calcante doveva aspettarsi. Per quegli, infatti, più della sua, era migliore la bocca di una vipera. All’inizio della guerra, quando la flotta era bloccata da una tempesta nel porto di Aulide, l’indovino coi suoi vaticinii lo aveva costretto al sacrificio di sua figlia Ifigenia. Pare che quella volta, ad essere offesa, fosse la dea della caccia, Artemide. Tanto per cambiare, Agamennone aveva combinato un guaio, uccidendo una cerva sacra. Fortunatamente, alla fine la dea si era impietosita per il tragico destino della fanciulla ed all’ultimo momento l’aveva sostituita con una cerva. Ironia della sorte, anche allora c’era in mezzo pure Achille: le evevano detto che andava all’altare, non per essere ammazzata, ma per sposare lui.

“Quella fanciulla mi è più cara di mia moglie Clitennestra…” continuò Agamennone.

Guardò i suoi guerrieri. Ma, non trovò occhi solidali con lui. Allora, come in quell’altra occasione, si ricordò che era pur sempre un capo ed il fatto comportava dei doveri, imponeva dei dolori…

Quindi, riprese con voce sorda:

“Ma, se il mio strazio è necessario al bene del mio popolo, sia fatta la tua volontà di gufo iettatore! Lascio libera la ragazza…”

A questo punto, guardò Achille con rabbiosa sfida e concluse:

“A patto che mi si dia un’adeguata ricompensa!”

Com’era prevedibile, Achille saltò su dal seggio.

“Parli come un mercante e non come un re!” esclamò. “Che ricompensa dovrebbero darti gli achei? Non mi pare che sia rimasto granché da spartire ed il bottino già diviso non può essere rimesso in discussione… Rimanda indietro la fanciulla e vorrà dire che riceverai per tre, o per quattro, il giorno in cui Zeus ci concederà di saccheggiare Troia.”

“Le promesse non sono un gran guadagno” disse Agamennone, con voce determinata. “Ed io non sono il tipo che ci conta troppo. Tu hai detto belle parole; ma, le tue parole a che portano? Che a te resta la tua parte di bottino ed a me non resta nulla.”

Ebbe un sorriso che avrebbe reso inquieta una montagna e riprese a parlare:

“Facciamo così, invece: datemi un’altra femmina che compensi la perdita a cui mi costringete…”

Poi, tornatogli l’espressione furiosa, urlò:

“E, se non me la date, me la prendo lo stesso! La rapirò ad Aiace, o ad Odisseo, o proprio a te!”

Si ricompose e, senza dar tempo a nessuno di manifestare la propria reazione, finì il suo discorso:

“Ma, forse è meglio che, di questo, parliamo dopo. Per ora, pensiamo subito a caricare su una nave i cento animali e la figlia del vecchio e mandarli a Crisa, per placare l’arrabbiato Febo. Capo della spedizione sia uno dei nostri uomini migliori: o Aiace, o Idomenèo, o Odisseo, o tu stesso, Achille.”

Forse, con queste ultime, riconcilianti parole sperava di uscire dalla penosa situazione di scontro in cui s’era cacciato. Già il dover restituire Criseide al padre era una doppia perdita: per il suo piacere e per la sua autorità di capo. Ma, purtroppo, quel giorno le cose non erano destinate a finir lì.

Infatti, già le occhiate di Achille sarebbero state sufficienti ad uccidere uno meno coriaceo del re di Micene. In più, quello lì non era tipo da fermarsi alle occhiate. Le parole non tardarono ad arrivare e promettevano di essere seguite dalla spada:

“Anima avara e senza vergogna! E chi sarà il vile che continuerà ad obbedire agli ordini di un tipo come te? A me i troiani non hanno fatto nulla. Essi non hanno toccato le mie mandrie, non si sono presi il mio cavallo, non hanno saccheggiato la mia patria… C’è troppo mare tra Ftia e Troia per esserci pure la guerra. Se sono qui è per difendere l’onore di tuo fratello… eppure, nei saccheggi sei sempre tu il primo a pretendere la parte ed io l’ultimo… e, per ringraziamento, sai offrirmi soltanto minacce.”

A questo punto fermò gli occhi proprio sugli occhi di Agamennone, prima di annunciare:

“Perciò, penso ch’è meglio lasciar perdere e tornarmene a casa. Preferisco coltivare i campi, anzicché star qui, a farmi insultare da te!”

“Vattene pure, scappa!” sbottò Agamennone. “A combattere con me restano Zeus in persona ed un gruppo di eroi che non ti faranno rimpiangere. Non sarò certamente io a pregarti di restare. Di tutti i re di questo mondo, tu sei quello che disprezzo di più. Hai come unico piacere il sangue che sporca la tua spada! La forza che un dio ti ha regalato tu la usi soltanto per sfogare istinti di belva! Tornatene, perciò, coi tuoi mirmidoni a coltivare i campi! Io nemmeno mi ricorderò di te!”

Poggiò, quindi, la mano sull’elsa della spada e per la seconda volta in quel giorno si pose di fronte ad Achille, scandendo:

“Anzi, prima che tu parta… Verrò personalmente alla tua tenda a prendermi la tua schiava Briseide.”

Fece, poi, una smorfia che voleva essere un sorriso sarcastico e feroce:

“Io perdo la mia cara Criseide; ma tu, almeno, mi sarai compagno in una perdita!”

Ed, infine, volse lo sguardo a tutti gli altri guerrieri, ergendosi in tutta la sua regale altezza:

“Questo perché sia chiaro che non conviene a nessuno mettere in discussione l’autorità di un capo… Se tua alleata è una forza senza controllo, sarà da essa, prima che dal nemico, che verrà la rovina!”

Il primo istinto di Achille fu di tirar fuori la spada, per riporla nella pancia di Agamennone. Il secondo fu quello di controllarsi, per poi operare a mente fredda. E’ questo l’eterno conflitto tra sentimenti e ragione. Su di esso, non a caso, sono stati costruiti tanti i trattati di politica.

Omero, invece, la spiegò così: egli mise subito mano alla spada; ma, venne Atena dalle luci azzurre, dea della ragione, e lo trattenne, prendendolo per la rossiccia chioma (fra l’altro, mandata da Era, regina degli dei molto di parte e protettrice di ambedue i contendenti). Ad Achille (come a Garibaldi, qualche secolo dopo) non restò che obbedire, perché:

“…Ai numi è caro

chi de’ numi al voler piega la fronte.”3

L’immagine risulta di straordinaria efficacia poetica. Ma, disgraziatamente, la spiegazione omerica ha avuto la controindicazione di dar la stura a reiterati accostamenti tra carattere guerriero e razza nordica, visto il colore biondo di quei capelli e il colore azzurro di quegli occhi divini.

In compenso, il nostro eroe non risparmiò sulle parole, né dal punto di vista qualitativo, né da quello quantitativo:

“Delirante ubriacone! Cane negli occhi e cervo nel cuore! Non ti ho mai visto combattere nella mischia, bravo come sei soltanto a salvare la pelle! Tu non puoi comandare se non gente vile e spregevole! Un popolo degno di questo nome ti avrebbe già ucciso! Perciò, io ti giuro: tu rimpiangerai Achille! Tu e gli achei lo invocherete inutilmente, quando resterete indifesi, in balia della spada di Ettore! Allora ti pentirai dell’offesa fatta al guerriero più forte che avevi!”

Ciò detto, con disprezzo gettò il suo scettro a terra e sedette.

Agamennone stava per riprendere la parola con rinnovato furore, quando Nestore, re di Pilo, si alzò prontantamente. Questi era famoso per l’eloquenza. E di certo le sue capacità diplomatiche, data l’età avanzata, erano le maggiori che vi potessero essere in quegli accampamenti.

“Eterni dei!” esclamò. “Quanto lutto per gli achei e quanta gioia per i troiani verrà da questa lite di eroi! Ascoltatemi, vi prego, rispettate la mia vecchiaia… Ho avuta la fortuna di combattere al fianco di valorosi, anche più di voi. Mi hanno stimato uomini che si chiamavano Driante, Piritòo, Cèneo, Essadio, Polifemo… e Teseo, che più che un uomo sembrava un dio! Insieme abbiamo dominato i mari ed abbiamo fatto stragi di nemici, compresi i leggendari centauri! Tutti ascoltavano i miei consigli, quei consigli che erano il miglior contributo nelle battaglie, al di là delle deboli forze fisiche. Dunque, per il bene comune, potete pure ascoltarmi voi… Tu, Agamennone, sii degno del gran cuore di Atreo, tuo padre. Non disgustare Achille, togliendogli la schiava… E tu, Achille, non usare con un re parole buone per la plebaglia vile. Quando si vuole essere forti, si deve pretendere rispetto ed obbedienza alle istituzioni della patria. Ed Agamennone, che è stato scelto come capo, è la prima delle nostre istituzioni… Non può stare, quindi, alla pari con gli altri… Achille, anche se sei figlio di una dea e lo vinci per forza, devi accettare la maggiore potenza della sua Micene… E degno di tanta potenza devi mostrarti anche tu, Agamennone… Lascia stare l’ira ed anche Achille si calmerà… Perché perdere il nostro più valoroso braccio?”

“Dici bene, vecchio” rispose Agamennone, con tono rispettoso. “Costui pretende che la sua forza possa comandare anche sulla legge. Io non posso permetterlo. Me lo impedisce il mio dovere di re.”

“Ed io sarei un vile” ribattè Achille, “se stessi pronto e ligio ai tuoi ordini. Puoi comandare sugli altri; non su di me. Io resto sciolto dal dovere di obbedirti. So dirti soltanto questo: né per te né per altri io combatterò, dopo l’ingiuria che ho dovuto subire. Prenditi la schiava e non pretendere altro da me, se non vuoi che ti uccida.”

E se ne andò via, con l’amico Patroclo ed i suoi mirmidoni, sciogliendo di fatto l’assemblea.

Agamennone fece preparare una nave a venti remi, dove caricò l’ecatombe (così veniva chiamato il sacrificio di cento animali) e la bella Criseide. Egli stesso la condusse sulla mave, col cuore agitato e nero come una notte d’inverno.

Alla fine, a capo della spedizione nominò lo scaltro Odisseo. Era il più adatto a trovare le parole giuste, per riavere l’amicizia del sacerdote Crise e di Febo. Dopo, tutto solo, se ne stette a contemplare la nave che si allontanava all’orizzonte. Senza neppure una parola di dolore, senza nessuna voglia né di vedere nessuno, né di farsi vedere da qualcuno.

Quando lo scafo scomparve dalla sua vista, tornò al campo ed ordinò che tutti si purificassero, bagnandosi nel mare. Ordinò pure che fosse gettata via ogni sporcizia e che fosse offerto agli dei un ricco sacrificio di capri e di tori. Probabilmente, fu la lavata generale, più della restituzione di Criseide, a determinare la fine del contagio. E, forse, anche Omero lo sospettava, se ritenne utile parlarne.

Però, non si dimenticò di Achille. Quindi, chiamò gli araldi Euribate e Taltibio e, alzando il braccio, ad indicare la direzione da seguire, ordinò:

“Andate alla tenda di Achille e fatevi consegnare la schiava Briseide. Se si rifiuta, tornate a riferirmelo, che ci andrò io personalmente.”

I due partirono piuttosto malvolentieri, primo perché non è bello dare un dispiacere ad un compagno d’armi e secondo perché non si sa mai come reagisce la gente come Achille.

Trovarono l’eroe seduto, insieme al suo amico Patroclo, presso una tenda posta davanti alle navi e non si può dire che mostrasse gioia nel vederli. Non c’è meraviglia, perciò, se davanti a lui gli araldi se ne stettero per un bel po’ silenziosi, fermi e a capo chino.

“Non temete” disse infine Achille. “Siete dei messaggieri e non avete colpa nei miei confronti. Zeus stesso garantisce per la vostra incolumità. Qui c’è un solo colpevole: Agamennone!”

Si volse poi a Patroclo:

“Consegna a loro la ragazza.”

Patroclo fu pronto ad ubbidire. Entrò nella tenda e tornò con Briseide guance rosate, che consegnò agli inviati del re di Micene.

Quando la donna, che mostrava d’esser contraria alla sua nuova destinazione, fu andata via, Achille pianse di rabbia. Egli era più estroverso di Agamennone e, per sua fortuna, aveva i doveri di un guerriero e non quelli di un capo. Dentro di lui gli istinti potevano averla vinta sulla ragione. Per aiutarlo a superare il momentaccio, i suoi lo accompagnarono fin sulla riva del grigio mare, dove rispettosamente lo lasciarono solo. Qui, sedutosi, guardando l’orizzonte, invocò sua madre Tetide.

“Madre mia” chiamò, “quando Zeus mi fece scegliere tra il morire giovane e nella gloria e una lunga vecchiaia senza nome, io non pensavo che aver preferito la vita degli eroi, la sola che ci qualifica come uomini, significasse farmi umiliare in modo tanto atroce!”

Ora, mi si permetta una breve digressione per capire l’invocazione di Achille. Secondo il mito greco, di tutti gli eroi achei venuti a Troia, egli era quello che vantava la maggiore familiarità con il capo dell’Olimpo, Zeus adunator di nembi. E non è che gli mancassero altri agganci importanti. Suo padre era Peleo, i cui genitori erano Eaco, re degli Eginti, ed Endeide, figlia del centauro Chirone (che sarà nonno affettuoso e maestro del nostro Achille). Sua madre era Tetide, una delle nereidi, le ninfe protettrici dei naviganti e dei porti. Purtroppo, un giorno Peleo ed il fratello Telamòne avevano ucciso il fratellastro Foco, per cui erano stati costretti all’esilio. Peleo aveva poi sposato la figlia di Euritione, re di Ftia, nella Tessaglia. Dopo, durante una battuta di caccia (per disgrazia, egli disse) Peleo aveva ucciso il suocero ed era fuggito presso Acaste, re di Iolco. Pare che la moglie di quest’ultimo, poi, si fosse innamorata di lui e, come può succedere anche oggi, non sentendosi corrisposta, aveva finito per accusarlo al marito. Irato (e un po’ minchione, come sa essere spesso un marito), Acaste lo aveva abbandonato sul monte Pelio, per farlo sbranare dalle belve. Qui era entrato in gioco Zeus che gli aveva mandato il figlio Efesto a fornirlo di nuove armi. Così, Peleo aveva potuto uccidere Acaste e la perfida moglie e sposare in seconde nozze Tetide, di cui era invaghito lo stesso Zeus.

“Tu che puoi” implorò dunque Achille alla madre, nel frattempo accorsa (almeno, questo gli diceva l’animo), “chiedi a Zeus che mi venga in aiuto nella vendetta. Te lo deve, se è vero che quando Era, Poseidone ed Atena pensarono di incatenarlo e di rovesciarne il potere, tu chiamasti in suo aiuto il fortissimo Briareo, che solo con la sua possente figura fece spaventare tutti, convincendoli a desistere… Ricordagli tutto questo e, se è il caso, siedigli accanto, abbraccialo… Convincilo a dare una mano ai troiani! Fa’ che la flotta achea venga distrutta! Che se lo godano fino in fondo, il loro capo!”

Lasciamo perdere la disquisizione su un figlio che vuol convincere la madre ad abbracciare un maschio diverso dal padre. Ma, uno che opera per la vittoria dei nemici quasi sempre è stato considerato un traditore. Bisognerà aspettare le guerre ideologiche nell’Italietta del XX° secolo per sentirlo chiamare patriota. Ma, ovviamente, questa considerazione non sfiorò neppure la testa di Tetide. Ella era soltanto una mamma, ansiosa nei confronti del figlio ed ingiusta nei confronti degli altri, come tutte le mamme mediterranee.

“Non ti ho partorito per vederti tanto triste, figlio mio” gli sussurrò Tetide nel cuore. “Ora potresti restartene tranquillo in questa riva… senza pensare più alla guerra e senza il pericolo di una morte prematura. Invece, vedo che il tempo che ti resta, non soltanto è poco, ma pure pieno di infelicità! Che brutta stella illuminava il mio letto quando sei nato!… Però, che può fare una madre, se non accontentare il figlio? Andrò sull’Olimpo e parlerò a Zeus. Ho saputo che ieri è sceso nelle terre degli etiopi. Dovrebbe tornare fra dodici giorni. Nel frattempo, stattene tranquillo sulle tue navi. Che gli achei sentano la tua mancanza!”

E se ne andò, lasciandolo solo, a piangere per la fanciulla perduta.

1Il Consiglio d’Egitto, Einaudi, Torino, 1977, p.164.

2 Canto I, vv. 58/60. Questa e le altre citazioni sono prese da Vincenzo Monti, Iliade di Omero, Milano, Fabbri Editore, 1997, pp. 129/139.

3 Canto I, vv. 289/290, p. 141.

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