Garufi, Rocambole: “Giovanni Verga, Benedetto Radice e i fatti di Bronte del 1860” – Il Quarto Stato nella tenaglia della brutalità reazionaria e dello sciacallaggio rivoluzionario

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Alla fine perdono tutti: Giovanni Verga, Benedetto Radice ed i fatti di Bronte del 1860

I

Verrebbe da chiedersi se raccontare alcune vicende di dimenticati intellettuali e di eroi fuori-corso non faccia parte della patologia del disagio contemporaneo. Ma, bisogna pure avere qualche opinione politica storicamente motivata, se non altro per tirare la paga per il lesso.

Da qui sono nati i miei racconti-lezioni, anche a proposito del gran parlare che si fa di sovranismo, patriottismo, comunismo, indipendentismo, autonomismo per superare quella specie di Impero globale che le potenze anglofone vincitrici su Napoleone hanno costruito a partire dal Congresso di Vienna.

In ogni caso, mi sembra che i protagonisti delle mie pagine abbiano avuto idee ottime e comportamenti pessimi. Perciò rivolgo un pensiero alla memoria di Giovanni Garufi, mio padre, che ebbe invece idee pessime e comportamenti ottimi e mi ha insegnato l’orgoglio di restare fedeli a noi stessi.

Pur nello sfracelo etiopico del 1943, egli sognava che un giorno la bandiera italiana potesse tornare a garrire nel cielo di quei posti.

Prima di essere fatto prigioniero dagli inglesi, per non lasciarla in mano loro, l’aveva seppellita nella campagna di Dire Dawa. Lì era stato un emigrante travestito da colonialista, semplicemente felice di guadagnarsi le giornate lavorando nella sua modesta Trattoria Italia.

II

La lotta contro i privilegi feudali nel Regno delle Due Sicilie si concluse sotto il caldo agostano del 1860, quando nella piazza di Bronte irruppe una rivoluzione senza pietà del prossimo e senza timor di Dio.

Era la mattina del due, giovedì, e quel giorno i benestanti capirono che ci si può fare davvero male, se si cade dai piani alti della società. La folla si muoveva come un elefante impazzito, invincibile e completamente sorda ai richiami del suo padrone, che da qualche anno era il mazziniano avvocato Nicolò Lombardo.

“Costui” testimoniò Benedetto Radice, coevo scrittore brontese, “era a capo di quel partito definito comunista, che nell’impazienza degli oppressi aveva sperato di cogliere la palla al balzo, per recare nelle sue mani il potere.”

Il comunismo, ovvero la spartizione della terra, era un ideale che la vecchia setta dei carbonari aveva posto come ultima, segretissima meta. Ora, per arrivarci, in ogni città ed in ogni villaggio della Sicilia venivano agitati gli argomenti più adatti a suscitare la rivolta popolare.

E, dove ci sono rivoluzioni, ci sono pure i personaggi come l’avvocato Lombardo. Essi, in genere, sono uomini in perfetta buonafede, che vogliono un mondo migliore. Ma, peccano di impazienza. C’è troppa adrenalina in loro, per applicarsi con le armi pacifiche della costanza alla realizzazione delle giuste migliorìe politiche. Pretendono da subito la liscia perfezione dei sogni. Molti disastri, per questo, sono nati dalla buonafede.

A Bronte, poi, non mancavano davvero i motivi del malcontento. Pesava su quella comunità di contadini e di pastori il feudo dei Nelson, grande quanto tutto il territorio della frazione di Maniace. Così, mentre il freddo invernale e le male annate falcidiavano i figli dei poveri, troppa terra restava sterile di cibo; terra, per di più, nella quale era severamente punito persino il furto di una fascina di legna, che tenesse vivo il braciere. Oggi, quindi, è facile dedurre che in quel 1860, se c’era spazio per la rabbia e le illusioni, non ce n’era per i ragionamenti. Era l’epoca dei capipopolo alla Lombardo, quella!

Entro certi limiti, naturalmente, poiché altre istanze bussavano per entrare nei libri di storia.

Infatti, il 22 maggio dell’anno prima, nel bel mezzo della guerra tra i franco-piemontesi e l’Austria, era morto Ferdinando II di Borbone. Purtroppo, suo figlio Francesco II, salito al trono, aveva commesso l’errore di non accettare subito la proposta del Cavour di partecipare al conflitto come terzo alleato. L’avesse fatto, forse, anziché un Regno d’Italia, sarebbero nati due regni, uno al nord ed uno al sud, lasciando disoccupato Bossi.

Ma, non lo aveva fatto. Perciò, quando il 25 giugno 1860 si era deciso a proclamare lo statuto (cioè, la Costituzione) e ad aderire all’offerta piemontese, era ormai troppo tardi. Quella vecchia volpe di Camillo Benso conte di Cavour aveva tergiversato, quanto bastava per permettere a Giuseppe Garibaldi di finire il suo lavoro.

Gli storici raccontano che a quel punto iniziarono le trame per un’insurrezione in Sicilia.“Un primo movimento avvenne il 4 aprile a Palermo, nel convento della Gancia, e un altro seguì due giorni dopo a Messina; ma vennero facilmente repressi. Si formarono tuttavia delle bande armate riunitesi poi intorno a Rosolino Pilo. A sostenere e diffondere la rivolta una spedizione fu preparata a Genova per opera di esuli siciliani, principale Francesco Crispi, e coll’aiuto della Società nazionale: prima e dietro di questa era pur sempre l’azione instancabile del Mazzini.

Mazzini, appunto. E con lui tutta la galassia di società segrete che fiorirono nell’Ottocento. La diplomazia era stata efficace per annettere la Lombardia al Piemonte. Ma, l’alleanza tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II non c’era più, se si portava la conquista alle terre meridionali. Era stato, infatti, proprio l’imperatore francese a convincere il re Borbone a tentare di salvare il regno dall’espansionismo dei piemontesi intavolando trattative con loro.

“Un’Italia spezzata in due” aveva pensato Napoleone III, “è forte al punto giusto per dar fastidio all’Austria, senza essere ingombrante per la Francia.”

Da Cavour, al contrario, non era malvista un’azione di forza al Sud e l’unico che potesse realizzarla era Garibaldi.

A patto che fosse ben preparata.

III

“Onore a Garibaldi!” aveva esclamato l’avvocato Lombardo in casa di don Nunzio Caputo, fidato liberale, nella riunione che aveva preceduto l’insurrezione contadina. “Egli, già a gennaio, ha asserito che, se il Sud è pronto ad insorgere, possiamo contare sul suo aiuto.”

Le notizie sul successo dello sbarco dei Mille avevano elettrizzato gli animi. La setta mazziniana brontese, perciò, si era attivata in tutta fretta. Doveva farsi trovare pronta all’arrivo in paese delle camicie rosse.

“Pretende, però” aveva continuato Lombardo, “che ci siano chiare prove della nostra disposizione all’azione. Troppi patrioti sono morti per aver intrapreso, nell’indifferenza dei meridionali, la liberazione di Napoli e della Sicilia … Bentivegna, Pisacane, i due Bandiera…”

A questo punto, aveva fatto un cenno con la testa verso un bottiglione di vino, che stava pronto sopra il credenzone.

La stanza era in una profonda penombra, dato che la riunione avveniva alla luce di una sola candela e dei pallidi raggi lunari, che filtravano dalle grate dell’alta finestrella.

Nunzio aveva capito al volo ed aveva portato in tavola sei bicchieri, tanti erano i presenti. Poi, finalmente, era arrivato il bottiglione.

“Bisogna preparare il terreno” aveva ripreso Lombardo, senza allungare le mani sul vino. “Questo compito in tutta la Sicilia lo sta già svolgendo Crispi. E’ stato mandato qui in avanscoperta.”

Dopo qualche secondo di pensieroso silenzio, quindi, si era versato un bicchiere di vino e gli altri avevano fatto altrettanto. Il liquido era scuro, denso e di diciassette gradi. Una bella colata di lava nello stomaco. Tutti avevano bevuto d’un colpo, buttandosi alle spalle ogni incertezza.

“Ora” aveva concluso Lombardo, “in molti villaggi la gente si unisce alle camicie rosse, come mai si era visto neppure al Nord. Diciamolo ai nostri villani… Garibaldi vuole abolire le tasse sul sale e sulla pasta e promette di dividere i latifondi e distribuire la terra!”

Così, dal giorno dopo, i contadini avevano sentito i discorsi incendiari di Lombardo, per disgrazia dandogli credito. Alla fine si erano convinti che la parola Italia significava togliere le terre ai cappelli (cioè, ai possidenti), per darle ai berretti (cioè, a loro stessi).

Com’era naturale, però, anche i ricchi avevano preso sul serio quel concetto di Italia, per cui quel giorno avevano paura, una paura paralizzante, che li bloccava a Bronte, a difendere la robba, senza pensare che la vita viene prima e che forse era il caso di scappare.

IV

Paura e rabbia accecavano da tempo soprattutto il notaio Ignazio Cannata. Per questo non ce l’aveva fatta, a tenersi dentro la bile, quando, un mese e mezzo prima di quel 2 agosto 1860, era stato inalberato il tricolore al balcone del Casino dei Civili.

Di contro agli applausi ed agli entusiasmi dei paesani, livido e provocatorio, s’era lasciato uscir di bocca:

“Perché non si leva ‘sta pezza lorda?”

Ora, addirittura, Cannata si presentava con una doppietta, netto nel suo rifiuto delle storiche novità che aveva davanti. I larghi baffi, irti sulle gote arrossate dall’ira, fronteggiavano i villani; i quali, sciolti i lacci del timore, cominciavano a ringhiargli intorno, a chiedergli conto e ragione delle sue ricchezze, a rinfacciargli prepotenze e malefatte…

Era troppa, però, la sua abitudine al comando (e troppo insufficiente la sua intelligenza), per mantenere la prudenza. La duttilità mentale non appartiene a chi ha avuto dalla sorte una condizione di privilegio.

“Sono i tempi di Frajunco, questi” disse al rispettato barone Meli, venuto sopra una sedia, perché sofferente di podagra, con l’incarico di placare gli animi. “Guardatelo, il nuovo caporione di Bronte!”

Il contadino Nunzio Ciraldo, detto Frajunco, era lo scemo del paese e scendeva in piazza con la testa coronata da pezzuole tricolori ed una fèrula come scettro. Già dalla notte, andava in giro, annunciando:

“Attenti, cappelli, che l’ora del giudizio si avvicina!”

Attorno a lui c’era tutto un serpeggiare di movimenti, di risa sguaiate, di minacce; c’era, ancora, un continuo chiamarsi a vicenda, il manifestarsi di rancori vecchi e nuovi, un battere ai portoni serrati.

“Popolo, non mancare all’appello!” urlava Frajunco al popolo, che per risposta gli marciava accanto.

“Volete farci linciare tutti?” sibilò il barone Meli, impressionato dallo spettacolo.

“Me ne porto dietro qualcuno, all’inferno!” rispose Cannata.

V

L’inferno il notaio non lo vide subito, dato che, un po’ dandogli ragione e un po’ minacciandolo loro per primi, gli altri galantuomini riuscirono a convincerlo a ritirarsi a casa. Lo vide, l’inferno, verso le tre pomeridiane, quando la folla ruppe ogni indugio ed andò a cercarlo dove moglie e figli lo obbligavano a starsene rintanato. Si cominciò da lui, perché era lui che aveva il vizio di dirlo chiaro ed in faccia a tutti, cosa pensava di Garibaldi.

“Scendi, notaio, che prima delle tue terre ci prendiamo la tua carne di porco!” uno sghignazzò alla porta.

“Affàcciati con la doppietta, cornuto!” inveì un altro. “Che forse non t’è bastato tutto il sangue che ti sei succhiato!”

Cominciarono a tirare pietre alle finestre ed il frantumarsi dei vetri fu il sinistro avvio dell’Apocalisse. Mani che impugnavano falci, zappe, asce e martelli si levarono e presero a picchiare sui muri e sulla porta. Di minuto in minuto, la folla s’ingrossava e le intenzioni si facevano più truci. Una fervida impazienza di far male s’impadronì degli assedianti e ne centuplicò le forze. Fu portato un tronco d’albero da una vicina falegnameria e si buttò giù il portone.

Il notaio fu trovato nella stalla, non più tanto sicuro dei fatti suoi. Stava accovacciato in uno sportone di letame, col corpo che la paura aveva reso una tremolante massa gelatinosa.

“Sta in mezzo alla merda!” esclamò chi lo trovò.

“Ora laveremo la pezza lorda di Garibaldi nel tuo sangue di ladro!” latrò rauco un altro, brandendogli un’ascia davanti agli occhi dilatati per il terrore.

Allora, gli strapparono i vestiti e lo legarono per i piedi. Uno, con un secco colpo di roncone, lo evirò.

“Tanto dove vai non ti serve” sentenziò sarcastico, mostrando il pene staccato.

Poi, lo strascinarono sanguinante per le scoscese vie di Bronte, punzecchiandolo coi coltelli, affondando nella carne viva e dolorante calci e bastonate, facendogli “assaporare a centellini gli spasimi della morte (come, poi, raccontò Radice).

Ci fu uno, di Maletto, che, dopo avergli vibrato una coltellata nella pancia, portò alla bocca la lama insanguinata. “Lui s’è succhiato il mio sangue ed io mi lecco il suo!”

Quindi, un certo Bonina, detto Caino, gli aprì il fianco e gli strappò il fegato. “Sentiamo che sapore ha…” gridò e affondò un morso.

Dopodiché, le stragi diventarono come le ciliegie: l’una chiamava l’altra. I cappelli furono tutti cercati, senza sconti, né pietà. Di quelli che trovarono, nessuno venne risparmiato. Il padre di Benedetto Radice, sentendosi chiamare, si affacciò sulla soglia di casa e ingenuamente ebbe fede nella forza della sua coscienza pulita.

“Eccomi” disse. “Se ho fatto mai del male, uccidetemi.”

Vicino a lui, ginocchioni, il figlio del notaio Cannata, aveva soltanto la forza di guaire: “Grazia, vi prego, grazia…”

Gli era accanto la moglie, tutta discinta, che invasata, con l’energia della disperazione, urlava: “Ricordatevi che è padre di due figli!”

Ma, gli insorti non smisero di schiamazzare, chiedendo altro sangue. Partirono i lampi di due schioppettate ed il giovane Cannata stramazzò, mentre il Radice si salvò poiché, svenuto, fu creduto morto.

In tanto scatenarsi di ferocia, apparvero tardivi gli sforzi dell’avvocato Lombardo per placare la belva. A Bronte il sabba della rivoluzione infuriò senza alcun argine per tutta la giornata, guidato soltanto dall’unico sentimento di giustizia sociale che si ha in tali momenti: volere nella polvere chi sta sopra.

E in quel carnevale furibondo, scrisse con impareggiabile poesia Giovanni Verga, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.

Non era la rivoluzione sociale, però, ciò che Garibaldi e i suoi volevano. Almeno, non ancora. Per loro, prima della prosa dei rancori di classe, c’era la poesia del riscatto della patria. I contadini, con quegli ammazzamenti, non coincidevano mica con gli eroi dell’estetica romantica! Eppoi, borghesi e massari accettavano sì l’Italia unita, ma senza alcuna intenzione di dare in cambio la pelle.

Ecco perché, quando arrivarono a Bronte le camicie rosse, su ordine del generale Nino Bixio, l’avvocato Lombardo e quelli che erano stati più in vista vennero arrestati, processati e condannati alla fucilazione.

VI

L’esecuzione avvenne nel piazzale dello Scialandro. Lì, un momento prima di ricevere la pallottola fatale, Lombardo, seppur innocente riguardo alle uccisioni, anzi attivamente impegnato nel cercare di evitarle, pensò al suo antico maestro Vincenzo Natale e sentì di pagare un giusto prezzo.

“Chi lotta per cambiare il mondo” gli aveva detto Natale, “ha l’obbligo di non perdere il controllo della situazione. Dare speranze per le quali non ci sono le condizioni storiche produce due stragi: quella dei reazionari uccisi dalla rivoluzione e quella dei rivoluzionari uccisi dalla reazione.”

Oggi, si può aggiungere che, a proposito delle tasse che s’era promesso di abolire: fatta l’Unità, il ministro Quintino Sella pagò i costi del Risorgimento con la tassa sul macinato, cioè sul pane e sulla pasta. E, di dare la terra ai contadini, non se ne discusse proprio.

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