Garufi, Rocambole – Un viaggio di Antonello da Messina nella Sicilia reale – Racconto

Un viaggio di Antonello da Messina nella Sicilia reale

di Rocambole Garufi

Sul finire del secolo quindicesimo fu dipinto probabilmente il San Pietro e storie (ora nella Stanza del tesoro in Santa Maria della Stella, a Militello in Val di Catania).

Infatti, nel catalogo su Antonello da Messina, pubblicato nel 1953, la data di esecuzione di questo autentico capolavoro è collegata all’attività di un Maestro della Croce di Piazza Armerina, operante tra il 1460 ed il 14801.

E’ un retablo, particolare tipo di polittico, con al centro la figura del Santo ed ai lati otto riquadri raffiguranti episodi significativi della sua vita.

Eccone la successione:

  1. Vocazione del Santo;
  2. Resurrezione di Tabita (?);
  3. Liberazione di un’indemoniata;
  4. Punizione di Anania e Saffira, o Guarigione dei malati con l’ombra(?);
  5. Caduta di Simon Mago (?);
  6. Quo vadis, domine?”;
  7. San Pietro e San Paolo davanti al proconsole;
  8. Crocifissione del Santo.

E’ stata attribuita a diversi autori. Si è parlato di Antonello De Saliba, di Pietro Ruzzolone (Maganuco e Bottari) e anche, in tempi recentissimi, di Antonello da Messina.

Su quest’ultima ipotesi val la pena di soffermarsi un po’, se non altro per l’enormità del nome messo in campo. Essa sembra già suggerita dal Mandel, perché “nell’impianto il complesso si presenta analogo alla distrutta pala di San Nicola a Messina.”2

Un altro supporto a questa attribuzione, inoltre, si trova in due libri, uno del Minacciato3 ed un altro di Caio Domenico Gallo4, dove si accenna ad una pala di Antonello con dipinte “storie” di San Pietro.

In verità, in ambedue i libri non mancano gli errori e le deformazioni storiche5. Ma, soprattutto nel primo, vengono da un maldestro tentativo di glorificare la città di Messina (cioè, di dimostrare la discendenza di Antonello da un’antica famiglia messinese e perciò non si vede quali motivi avesse di inventarsi un’opera inesistente). Il secondo libro, poi, si avvale delle indicazioni di Borghini, Vasari, Ridolfi, Boschini, Sansovino, Collier e don Francesco Susino (autore di un libro sulla vita degli artisti messinesi).

Probabilmente, Antonello dipinse davvero un San Pietro e storie. Se non è il nostro, si tratta di un’opera andata perduta.

Che l’opera di Militello sia di mano antonelliana ce lo farebbe sospettare, inoltre, un documento del 13 marzo 1473, nel quale si attesta un pagamento al maestro per una “magnam yconam intaglatam”, ordinata dalla chiesa di San Giacomo di Caltagirone6.

Sul fatto, il Di Marzo svolse un ragionamento tendente a dimostrare che Antonello fece “altre gite e soggiorni… per quelle parti dell’isola.7

Lo Scalia, inoltre, suppone un lungo viaggio dell’artista per tutta la Sicilia nel periodo che va dal 1465 al 14738. In teoria, il San Pietro potrebbe essere stato dipinto in questa occasione.

C’è, ancora, il volumetto Rettifiche ed acquisizioni per Antonello di Giuseppe Consoli, che assegna ad Antonello, oltre al nostro dipinto, il Trionfo della morte nel portico Sclafani di Palermo e la Croce di Piazza Armerina.

Consoli parte dal “fatto che nessuna attenzione la critica rivolse allora (né ha rivolto successivamente) alla lettura che il Vigni aveva proposto di quella sorta di spina dorsale della pittura9 siciliana quattrocentesca rappresentata dal Trionfo della Morte nel portico Sclafani (da lì, fra l’altro, aggiungiamo noi, Picasso prenderà spunti per il suo Guernica), dalla Croce di Piazza Armerina e dal San Pietro di Militello.

In questi tre lavori, secondo il Vigni, si trovava la radice degli apporti culturali europei che furono presenti in Antonello.

Così, il Vigni era arrivato ad identificare due maestri: uno francese (autore del Trionfo della morte) e uno attivo nell’entroterra (autore della Croce e del San Pietro).

In entrambi i casi, era comunque evidente la cultura del Sud della Francia.

L’analisi stilistica delle tre opere ha, però, portato il Consoli a ritenerle di una mano sola (e qui sta il punto debole del suo ragionamento; o, comunque, il punto che attende di essere meglio articolato).

Appare, perciò, decisivo il fatto che egli scoprì nel Trionfo della morte, vicino alla data del 1462 ed alla firma di Guillaume Spicre (un insigne peintre-verrier, cioè decoratore di vetri), la seguente scritta:

“A(…)TO(…)LUS (…)SSA(…)ES(…)S.”

Riempiendo i vuoti prodotti dal tempo, è facile leggervi la firma di Antonello, forse all’epoca collaboratore dello Spicre.

In ogni caso, nell’opera militellana si sente il sapore di una cultura provenzale, con echi veneto-adriatici e liguri-emiliani, che ritroviamo in Antonello, per cui, se non di identità con lui, si può certamente parlare di similarità di radici, come recentissimamente ci ha confermato un passo di Teresa Pugliatti:

“…Successivamente vi saranno viste anche influenze antonelliane, confermate peraltro dal confronto tra una delle storiette del San Pietro e un disegno del Louvre dello stesso Antonello; sarà anche ripresa l’ipotesi, già avanzata da Zeri e da Vigni, di un pittore influenzato dalla cultura provenzale e, pur non escludendo del tutto la paternità del Ruzzolone, si riproporrà quella di un non meglio definito Maestro della Croce di Piazza Armerina.”10

E comunque, al di là dei problemi di attribuzione, l’opera merita grande attenzione per la posizione chiave che occupa nella storia della pittura siciliana.

Il San Pietro, infatti è un felice ibrido in cui vecchio e nuovo convivono, senza sguaiati contrasti e nello stesso tempo senza mai fondersi.

Così, nel pannello centrale del retablo il Santo siede nella gloria della cattedra in una positura arcaicamente frontale, secondo canoni antichi.

Tutto in lui ed in ciò che lo circonda esprime dignità ed ieraticità regali: il gesto benedicente, lo sguardo dolce (ancor più ammorbidito dal capo leggermente inclinato), il ricco ricamo delle vesti e del tappeto, i due angeli ai suoi fianchi.

Di fronte, testimone di tanta gloria, sta un frate domenicano in preghiera e meditazione.

Forse è lo stesso frate dei quadri del Beato Angelico, forse anch’egli si trova lì “per dire che quella è la visione dei vari misteri secondo la religione domenicana, le regole ascetiche dell’ordine. Non c’è natura né storia perché la regola pone i monaci in comunicazione diretta, senza bisogno di quei tramiti, con le verità della fede: dunque la fede è ancora un processo o un modo dell’intelletto, il più alto.”11

E’ il trionfo della visione politica della Chiesa cattolica (o della sua egemonia culturale?), con la quale saprà gestire per secoli la complessità di un capitalismo in perenne eversione consumistica.

Così, se si può fare a meno della natura e della storia per intendere San Pietro nella perfezione divina, la natura e la storia sono presenti nella sua azione terrena.

Perciò, negli otto pannelli le regole della prospettiva costruiscono matematicamente lo spazio. La realtà, il teatro delle gesta del Santo, per essere realtà-realtà, è dipinta come realtà misurabile.

Guardate, per esempio, il riquadro che ci fa vedere La resurrezione di Tabita, il secondo verso il basso a sinistra di chi guarda. Lì, il Santo occupa uno spazio preciso, dato dal digradare delle colonne e dalle linee del pavimento che corrono verso il punto di fuga. Ogni figura vive ed acquista credibilità per un rapporto di dimensioni, che la mette in un rapporto spaziale.

E’ la grande conquista dei quattrocentisti, la visione scientifica e laica del mondo, la terza dimensione che cattura la realtà così com’è (in pittura e contemporaneamente nella trattatistica politica del grande Machiavelli, quando indicò la necessità di guardare la verità effettuale).

Fino ad un certo punto, però.

Nel dipinto non trova posto il disordine, anche se nella realtà esiste pur esso. Ecco perché, in un certo senso, proprio la realtà è ridotta a misura della capacità umana di perfezionare l’opera di Dio.

Cominciò allora, forse, la bestemmia del totalitarismo scientista, fino alle sue più inquietanti declinazioni: l’ingegneria genetica dei nazisti e il neo-paleolitico della finanza globale.

Conclusi gli anni di vigilia, i fervidi anni di preparazione in ambito meridionale, le esperienze di tipo pierfrancescano si focalizzano sul tema dello scandaglio spaziale dei volumi prospetticamente impostati e ruotanti nella sicura coscienza di una solare prospezione luminosa.12

Sono parole che Raffaello Causa scrisse per Antonello, parole che trovano echi e fratellanze nello stile del San Pietro e storie di Militello.

1G. Vigni e G. Carandente, Antonello da Messina e la pittura del ‘4oo in Sicilia, Venezia, Alfieri, 1953, pp. 60-61;

2Gabriele Mandel, L’opera completa di Antonello da Messina, Milano, Rizzoli, 1967, p. 90;

3Minacciato (Giovanni di Napoli Ruffo d’Alifia?), Storia dell’illustrissima arciconfraternita di nostra Signora del Rosario…, Napoli, I. Russo, 1755;

4Caio Domenico Gallo, Annali della città di Messina, Messina, 1756;

5Cfr. Gioacchino Di Marzo, Antonello da Messina ed i suoi congiunti, Palermo, Edizioni Librarie Siciliane, 1983, pp. 3-5;

6Gioacchino Di Marzo, Nuovi studi e appunti su Antonello da Messina, doc. XI, Messina, 1905, pp. 107-108; oppure, Salvatore Tramontana, Antonello e la sua città, Palermo, Sellerio, 1981, p. 105;

7Gioacchino Di Marzo, Antonello da Messina e i suoi congiunti, cit., p. 40;

8Natale Scalia, Antonello da Messina e la pittura in Sicilia, Palermo, Edizioni Librarie Siciliane, 1981, p. 21;

9Giuseppe Consoli, Rettifiche e acquisizioni per Antonello, Messina, Poligrafica della Sicilia, 1978, p. 26;

10Teresa Pugliatti, Pittura del Cinquecento in Sicilia, Electa, Napoli, 1998, p. 74;

11Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte italiana, vol. II, Sansoni, Firenze, 1969, p. 150;

12Raffaello Causa, Antonello, Milano, Fratelli Fabbri, 1977.

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