FENOGLIO, Beppe – La Resistenza senza retorica (di Elvio Guagnini)

Dispense di letteratura contemporanea

Elvio Guagnini

Su Fenoglio scrittore e la Resistenza

La fortuna di Fenoglio, se può ascrivere al suo attivo testimonianze critiche precise — polemiche e problematiche — già negli anni in cui apparivano le prime prove narrative dello scrittore, ha potuto registrare un autentico revival critico e di attenzione alla personalità del narratore soprattutto dopo la pubblicazione di un romanzo discusso sul piano della legittimità testuale, II partigiano Johnny. Un particolare merito non solo nella storia della critica ma anche in quello della fortuna di Fenoglio negli anni sessanta in Italia va attribuito perciò (accanto alla ricchezza che l’opera di Fenoglio possiede in sé, alla capacità di stimoli ad analisi di diverso genere, non solo dei critici letterari, alle numerose valenze di ricerca e di studio offerte dagli scritti editi e dai manoscritti dello scrittore albese) alle discussioni e alle indagini che, sull’onda delle questioni aperte dalla pubblicazione del Partigiano Johnny, si sono sviluppate con risultati spesso polemici, sempre però stimolanti a scoperte di indubbia e suggestiva problematicità. La scrittura complessa e risentita, disincantata e critica in cui Fenoglio elabora le sue storie partigiane e langhigiane, pone questioni che non riguardano solo lo scrittore come tale, ma lo scrittore « civile », perché i due dati che risultano, ad apertura di pagina, dalla lettura di Fenoglio sono anzitutto che Fenoglio intende essere scrittore con tutti i crismi di una sapiente complessità stilistica faticosamente conquistata ma densa e ricca, e — quindi — che al fondo di questa complessità si pone continuamente il problema delle cose dette e da dire. Che sembrano limitate, se ci si soffermi a considerare l’estensione tematica di superficie, ma sono, in realtà, impegnative (e difficili da esprimere), quando lo scrittore voglia — come Fenoglio — evitare i luoghi comuni e retorici e le difficoltà e le secche in cui erano incorsi altri scrittori che all’inizio del secondo dopoguerra avevano affrontato gli stessi temi e problemi. Tra i diversi punti di vista da cui ci si può porre per valutare la sua opera, può rientrare anche la considerazione dell’atteggiamento che Fenoglio assume di fronte alla storia, alle sue leggi, ai rapporti politici che vi si manifestano, in particolare di fronte alla Resistenza. Valutare Fenoglio come « scrittore della Resistenza », giudicandolo alla stregua di tanti cronisti e diaristi che scrissero le loro memorie « sullo zaino » o sull’onda immediata del ricordo sarebbe, in qualche modo, porgli una limitazione, sotutto se teniamo presente l’incessante lavoro di scavo e ridimensionamento, il tentativo continuo da parte dello scrittore di mettere a fuoco gli avvenimenti e la propria posizione di fronte ad essi.

Scrittore della Resistenza sì, quindi, a patto di non intendere questa etichetta come limitativa, in primo luogo perché Fenoglio non è un cronista né un memorialista, in secondo luogo perché la sua rappresentazione della Resistenza non si esaurisce nella descrizione di fatti militari, rapporti politici, relazioni interindividuali e pubbliche sviluppatesi in quel clima e in quel momento storico, ma tende a dare una risposta a una problematica che riguarda soprattutto il proprio atteggiamento — e le modificazioni di esso — di fronte al rapporto individuo-storia. Oltre a ciò, Fenoglio è un autore che alla scrittura — a una scrittura personalissima, piena di umori, di scatti e di scarti notevoli rispetto non solo alla media della memorialistica del secondo dopoguerra ma in genere rispetto all’impianto delle diverse tradizioni originarie della narrativa e della prosa contemporanee — ha affidato un ruolo di commento critico della realtà. Porsi il problema della rappresentatività, della capacità di uno scrittore di riflettere una determinata situazione storico-politica non deve significare una riduzione dell’attenzione ai contenuti, stabilendo così una linea di separazione tra esperienza civile ed esperienza letteraria. Anche perché lo scrittore autentico riassume la propria fisionomia politica e ideologica non solo e non tanto in definizioni formalizzate, in proposizioni esprimenti direttamente prese di posizione e principi, bensì anche nel linguaggio (inteso nell’accezione più larga) in cui si organizza e definisce la realtà che può essere anche considerata attraverso prospettive e ottiche di forte individualizzazione. Problemi di questo genere sollevava, nel 1949, in un periodo relativamente vicino alla guerra di liberazione, Italo Calvino 1 che, mentre riconosceva l’innegabile contributo di arricchimento che la Resistenza aveva offerto alla letteratura e ai letterati, si poneva il problema se la letteratura avesse « dato qualche opera in cui si potesse riconoscere ‘ tutta la Resistenza ’ » (« ‘ tutta ’ — aggiungeva — anche parlando d’un solo villaggio, d’un solo gruppo, ‘ tutta ’ come spirito »). Alla domanda, Calvino rispondeva negativamente, lamentando l’assenza di una letteratura « epica e corale », individuando i risultati migliori in « opere di piccola mole, poesie e racconti » cui avevano dato « vita e linfa » la « canzone partigiana e la storia partigiana raccontata », e anche auspicando implicitamente testi che potessero collocarsi, oltre che « nella storia d’una pur necessarissima diaristica e saggistica storico-politica », anche nella « storia della poesia », e, da un altro lato, testi di scrittori che non si risolvessero nel solo documento della loro posizione di intellettuali singoli di fronte alla lotta. Queste antitesi chiariscono sufficientemente il senso della « rappresentatività » richiesta da Calvino. Il riferimento a Calvino non è casuale né è frutto di un collegamento meccanico con uno scrittore con cui Fenoglio ebbe contatti epistolari in occasione del rap1 I t a l o C a l v i n o , La letteratura italiana della Resistenza, in « I l movimento di liberazione in Italia», 1949, n. 1, pp. 40-41. Su Fenoglio scrittore e la Resistenza 61 porto con la casa editrice Einaudi (Vittorini) che portò alla pubblicazione, nei « Gettoni » dei Ventitré giorni della città di Alba e della Malora. È un riferimento che si pone quasi istintivamente e che nasce, più che da affinità di poetica, da affinità di problemi, da una consustanzialità di fondo tra la problematica della « rappresentatività » posta da Calvino e l ’accanimento di Fenoglio nel definire e « giustificare » se stesso, nel continuare un rapporto con la Resistenza oltre i termini del documento e del diario, ma neppure nei termini di una scrittura meramente privata. La questione dei manoscritti e la ricerca sul fondo Fenoglio sono state provvidenziali poiché hanno indicato con quale varietà di strumenti, in momenti diversi della sua attività, lo scrittore abbia riorganizzato, con lavoro ininterrotto, anche la materia partigiana. È un fatto che s’impone con particolare evidenza l’accanimento, esercitato anche nei confronti dei dettagli, dei particolari minimi della propria narrazione, con cui lo scrittore di cose partigiane rifà incessantemente i suoi testi per giustificare se stesso al presente e per cercare di definire il se stesso del passato, attraverso un lavoro di scrittura esercitato « with a deep distrust and a deeper faith ». Senza dubbio, tutta l’esperienza narrativa di Fenoglio è legata a esperienze che lo avevano toccato da vicino, vissute in prima persona o conosciute attraverso racconti familiari o appresi dalla gente che incontrava nelle sue continue visite a paesi delle Langhe. Le recenti indagini sui manoscritti — inoltre — hanno messo in rilievo un elemento fondamentale per capire il senso della scrittura fenogliana: come cioè le singole prove e componenti fossero concepite in rapporto a un sistema, strettamente concatenate nella prospettiva di entrare a far parte di un complesso narrativo unitario di larga estensione, la cui unità è da ricercarsi nell’« unità della visione del mondo partigiano e langhigiano », una « invariante »2 all’interno della quale è dato cogliere un’evoluzione. L’« istinto monotematico » di cui ha parlato Maria Corti è strettamente correlato a una precisa realtà socio-politica e insieme radicato in tensioni individuali, psicologiche e affettive: non è mai tendenza riduttiva del reale, disposizione all’astrazione, attitudine a una condizione di isolamento nel mito, come ad esempio la Langa pavesiana. La rappresentazione di una realtà apparentemente limitata e circoscritta non dà luogo mai, in Fenoglio, né all’isolamento degli avvenimenti nei loro puri margini di contingenza, né a quella condizione di dicotomia, alternanza, talvolta complementarità, mai però di fusione, in cui viene spesso prospettato il rapporto tra evento, mozioni sentimentali e affettive, tesi e posizioni politiche e ideologia (è la ragione per cui parte della narrativa e memorialistica della vita partigiana e antifascista appare attraente e interessa più per l’enunciato che per l’enunciazione): nello scrittore piemontese non solo la circoscrizione della realtà non è mai fatto limitativo di una conoscenza più vasta, ma la ricerca stilistica e l’assestamento 2 M a r i a C o r t i , Realtà e progetto dello scrittore nel Fondo Fenoglio, in « Strumenti critici », a. IV , 1970, n. 11, p. 49. o delle strutture della narrazione agiscono da elementi di unificazione e di omogeneizzazione delle diverse tensioni e componenti. L’identificazione tra « unità del sistema narrativo » e « unità della visione del mondo » — che si opera all’atto stesso di uno scrivere che non sia testimonianza occasionale, mero sfogo e trasmissione di un messaggio contingente, ma sia ricerca di testimonianza completa ed esauriente in cui effettuare una ricomposizione di quell’unità della realtà che nel fluire dell’esperienza quotidiana può apparire frammentaria, occasionale, parcellizzata — avrebbe dovuto trovare, in Fenoglio, campo di esperienza in un ciclo unico e continuo composto da vari nuclei narrativi. Dalle vicende dei Fenoglio al tempo della Grande Guerra, alle storie paesane ambientate tra le due guerre, all’esperienza dei Johnny-Milton e dei vari personaggi delle storie partigiane (con il ricchissimo tessuto delle situazioni e personaggi della Langa), il mondo di Fenoglio si compone, almeno in superficie, intorno ai temi della guerra e della vita langhigiana, dominata dalla necessità economica, senza peraltro esaurirvisi e anche senza sradicamenti rispetto alle condizioni concrete di svolgimento dei fatti. Si pensi, per un confronto contrastivo (si tratta di esempi dissimili, paradossalmente lontani) a come una vicenda individualizzata e insieme corale come quella di Maria e i soldati di Nello Sàito riveli un esiguo legame con la situazione storica concreta risolvendo la sua carica drammatica in in un’atmosfera che rasenta momenti di forte astrazione; o ancora a Uomini e no di Vittorini e alla difficile ricerca dello scrittore siciliano di una composizione del rapporto tra storia e mito, realtà e allegoria. « Sapevo che il mio compagno Jerry scriveva della guerra. Troppe volte l’avevo adocchiato intento a scrivere, freneticamente, seduto ai piedi d’un albero o appoggiato a un muricciolo: talvolta scriveva fino a buio, orientandosi verso l’ultima luce solare. Scriveva, alternando una quantità di matite ogni cinque minuti, su dei quadernetti scolastici. Calcolai che doveva averne riempiti almeno una mezza dozzina, naturalmente a far tempo da quando era passato nel mio reparto [ … ] Lo vedevo scrivere e non dubitavo che scriveva della guerra. Ricordo che quando me ne convinsi mi venne subito in mente una frase di Lawrence (quello buono, il colonnello): “ [ … ] to pick come flowers [ … ] ” ma conclusi che non potevo, proprio non potevo, ascriverglielo a frivolezza [ … ] Un po’ m’inteneriva, e un po’ insieme m’irritava, questo ragazzo [ … ] che scriveva così solo, così frenetico e absorbed nel vortice dei suoi compagni, avventanti, estroversi e comunitari anche nell’ozio [ … ] » 3. In questo ritratto, che fa parte di due capitoli ancora inediti sulle vicende partigiane del 1944-45 e che è stato anticipato in un servizio di Gian Carlo Ferretti sulle vicende testuali del Partigiano Johnny, Fenoglio trasferisce autobiograficamente qualche propria caratteristica. Il desiderio di fissare un’immagine degli avvenimenti e delle esperienze di quegli anni cruciali per la storia italiana non era raro nel periodo della guerra partigiana. 3 B e p p e F e n o g l i o , Una pagina inedita, in « Rinascita », a.XXX, 30 marzo 1973, p p . 33-34, affiancato da un articolo di G i a n C a r l o F e r r e t t i , Scoperto un « Partigiano Johnny » tutto in inglese. Su Fenoglio scrittore e la Resistenza 63 Viene a mente una delle pagine introduttive che Nuto Revelli ha premesso alla recente edizione della testimonianza sulla Guerra partigiana nel Cuneese di Dante Livio Bianco: « Il diario era per Livio un obbligo, un dovere. Lo vedo ancora Livio, nelle baite, nei momenti di tregua, nelle pause dei rastrellamenti, magari mentre gli uomini cantano o imprecano, che si isola, e annota fatti, riflessioni, stati d’animo. Livio non voleva dimenticare niente »4. In molti, questo desiderio testimoniale fu limitato a quegli anni. In Fenoglio scrittore si protrasse fino alla scomparsa e divenne uno sforzo continuo di ristrutturazione della materia e dello stile, di ricerca sui fatti che costituivano la sostanza della sua opera; l’urgenza di una scrittura immediata si tradusse in necessità sentita di progressivo e sempre più articolato possesso degli avvenimenti, di conoscenza e critica dell’ideologia che aveva sostenuto la partecipazione ad essi e che sosteneva la loro più recente interpretazione. Nel desiderio di un affresco più vasto e di forte struttura si rivelava, inoltre, un programma di conoscenza a più vasto raggio, di rappresentazione, « da scrittore » s’intende, di una linea che collegasse i tanti episodi di cui Fenoglio era stato partecipe, e di cui aveva avuto conoscenza, e ne chiarisse cause e moventi. Tornando al proposito iniziale, e in collegamento con i progetti fenogliani quali risultano dalle indagini sinora effettuate sui testi e sul complesso degli inediti, penso pertanto che non sia illegittima un’operazione di primo approccio, di saggio, per verificare il grado di « rappresentatività » (quella invocata da Calvino) e anche la portata « storiografica » di queste scritture, in riferimento a quel vecchio e comune, e « tuttavia così oscuro e inesplorato », punto di vista della letteratura come storiografia, vero « labirinto di concetto e di metodo », di cui ha discusso Hans Magnus Enzensberger in un penetrante saggio introduttivo a una serie di esemplificazioni di modi in cui scrittori tedeschi del secondo dopoguerra hanno affrontato il problema della rappresentazione del loro passato e presente5. La questione, s’intende, non può prescindere da una problematica più ampia che riguarda il concetto stesso di letteratura, la necessità di individuare in esso strati e livelli di discorso nelle diverse epoche, funzionalità e rispondenze, propositi e poetiche, dimensioni e spazio di progettazione e di espressione; i tentativi di rappresentazione della realtà, della storia, di avvenimenti che hanno coinvolto direttamente Io scrittore, possono avere esiti molto diversi, che comunque trovano spiegazione e chiarimento solo se si tenga conto della diversità genetica delle scritture, della differenza di formazione, educazione, cultura degli autori, intenti e funzioni del testo, destinazione di pubblico. Da tutti questi punti di vista, il discorso su Fenoglio appare nella sua problematicità. Da testimonianze precise di ricerca testuale, come quella di Maria Corti, lo 4 N u t o R e v e l l i , Introduzione a D a n t e L i v i o B i a n c o , Guerra partigiana, Torino, 1973, p. XIV. 5 H a n s M a g n u s E n z e n s b e r g e r , Letteratura come storiografia, in « Il Menabò », n. 9, Torino, 1966. 64 Elvio Guagnini scrittore albese appare nella luce di una molteplicità di esiti e direzioni problematiche per il critico, immerso in una rete complessa di elaborazioni di scrittura che denunciano percorsi di non facile individuazione. Passaggi dall’inglese all’italiano, da scritture ricche di anglismi a scritture che qualche critico ha giudicato « neoveristiche »; cronache « a caldo » di straordinaria ricchezza autobiografica e racconti lucidi, oggettivi, anche se è implicita sempre una forte carica di partecipazione. Le pagine di Fenoglio, stratigrafate, si rivelano, negli esempi prodotti dall’analisi dei testi, delle reti con maglie che si aprono e si rinchiudono, esplodono e vengono suturate secondo leggi che non seguono i processi usuali, spesso lineari e definibili, delle scritture letterarie del secondo dopoguerra. Al di là di alcune possibili ragioni (psicologiche, di cultura, di gusto; indicazioni editoriali, suggerimenti di consulenti, come Vittorini; indicazioni della critica, ecc.) di questa molteplicità di scritture e di piani su cui si innestano, potrebbe essere di qualche interesse scoprire se ad esse abbia corrisposto qualche modificazione di prospettiva ideologica sopravvenuta nel corso dell’elaborazione degli scritti, un tentativo di rappresentazione dei fatti e del rapporto con essi diverso da quello iniziale. In ogni caso, l’elaborazione del racconto, quell’autentica furia e tormento che lo contraddistingue, non ha un senso meramente stilistico e letterario, dal momento che il lavoro di stile e di lingua, l’organizzazione della struttura narrativa mostrano sempre una risentita carica di emozioni umane, di giudizio critico e autocritico, di pungente analisi. Un fatto che caratterizza il tipo di presenza di Fenoglio nella cultura letteraria italiana del secondo dopoguerra è — tra gli altri — la fedeltà costante ad alcuni temi cardinali (l’antifascismo e la Resistenza, accanto al mondo langhigiano) e una ricerca non occasionale intorno ad essi. Non solo, ma Fenoglio, sulla distanza, è riuscito anche a mantenersi fedele alla necessità di una rappresentazione che non perdesse in ricchezza e problematicità, tra l’altro senza ricorrere a elementi di confronto e di supporto estranei ai fatti, come la contrapposizione di miti, senza cadere nel ripiegamento in facili psicologismi e intimismi, realizzando un racconto in cui la tensione epica, per restare tale e non cadere nel luogo retorico, viene di continuo controbilanciata da un’apparenza di autocritico distacco, in cui l’ironia sottintende simpatia e commozione, talvolta pietà. Come nella notissima pagina del racconto I ventitré giorni della città di Alba in cui Fenoglio descrive l’ingresso dei partigiani in Alba liberata: una pagina dove nessun moto emozionale è giustapposto o calato dall’esterno, ma è vissuto tutto in una tensione interna, sotto l’apparenza dell’ironia e del distacco. L’arco tematico dell’esplorazione che Fenoglio effettua dell’antifascismo e della Resistenza è ampio e concentrato al tempo stesso. Esiste un nucleo compatto che presenta uno spessore omogeneo nel corso di tutta l’opera: nella prospettiva dell’esperienza individuale (limitazione relativa se si pensi al valore simbolico all’interno della potenziale carica di realtà dei fatti e personaggi presentati), i suoi libri sulla guerra e sulla vita partigiana presentano — in genere — esperienze di un giovane intellettuale nella formazione scolastica negli ultimi anni dell’anteguerra, nel vortice dei primi anni della guerra; le reazioni allo sfacelo del paese dopo l’8 settembre; la presa di coscienza della necessità di lotta contro il fascismo e i suoi alleati; la guerriglia nelle Langhe; i rapporti tra i gruppi partigiani; le alterne vicende delle occupazioni partigiane; il disorientamento dei giovani usciti dall’esperienza della guerra. In questo nucleo tematico, che peso hanno avuto — di modificazione interna, di sviluppo — il mutamento della situazione italiana del dopoguerra e quello personale dello scrittore? L’assenza di una documentazione biografica meno scarna di quella di cui disponiamo oggi — risultante da poche dichiarazioni di amici e dalle rapide e fin troppo essenziali dichiarazioni dello stesso scrittore — riduce per il momento la possibilità di prove testimoniali « esterne ». Tra i rari e precisi documenti biografico-politici che si hanno su Fenoglio, utili in questo senso, è quello contenuto nello splendido saggio (mosso da ragioni affettive ma di rara lucidità e obiettività intellettuale) del filosofo Pietro Chiodi, insegnante di liceo dello scrittore e quindi suo amico, testimone della sua formazione ed evoluzione politica, oltre che personaggio memorabile delle sue cronache partigiane sotto il nome di Monti: « Fenoglio aveva fatto il partigiano nelle Langhe del sud nelle formazioni azzurre [ … ] Io combattevo nelle Langhe del nord con Cocito, ma non lo incontrai mai. Allora sua maestà il Re, la missione inglese e “ il maggiore ” (Mauri), erano i tre baluardi del suo spirito puritano e i “ rossi ” un incomprensibile sottoprodotto della guerriglia. Così, quando ci ritrovammo nel 1945, i nostri discorsi erano sempre imbarazzati, anzi, a un certo punto si interruppero. Ma tutto questo doveva durare poco. Man mano che il vecchio mondo riemergeva e la Resistenza veniva compressa e svilita, Fenoglio imparò da coloro stessi che continuava a detestare come non vi fosse gran differenza tra partigiani azzurri e rossi [ … ] In una impresa vinicola di Alba dove un centinaio di donne, con mani paonazze, lavava bottiglie da mattina a sera per un salario inferiore al necessario per vivere, Fenoglio incominciò a vedere “ i rossi ” in una nuova prospettiva. Proprio per questo — e me lo disse egli stesso — una mattina di domenica del giugno del 1946, mi venne incontro in piazza Savona ad Alba. Fu così che insieme ci incamminammo per gli amari sentieri della sinistra non comunista » 6 La testimonianza è illuminante di un processo di scardinamento di valori in cui Fenoglio aveva creduto e di affermazione di valori nuovi e diversi che ne prendevano il posto. Se esaminiamo il blocco degli scritti di Fenoglio — quelli editi in vita e quelli postumi — l’ideologia (questo termine è usato qui nel senso più elementare) che ritroviamo alla base di testi e passi collegati all’esperienza antifascista e partigiana presenta caratteri di omogeneità. In progresso di tempo, si potrà assistere, se mai, a un diverso dimensionamento o angolazione delle prospettive politiche e ideologiche. Alcune inequivoche invarianti sono l’autocritica costante come correttivo vigile della dimensione epica in cui vengono prospettati personaggi e azioni, anche miSu Fenoglio scrittore e la Resistenza 65 6 P i e t r o C h i o d i , Fenoglio, scrittore civile, in «La Cultura», a.III, 1965, n. 1; il testo è riprodotto in A A .W ., Fenoglio inedito, « I Quaderni dell’Istituto Nuovi Incontri », Asti, 1968, n. 4, p. 42, da cui riprendo la citazione. 3 66 Elvio Guagnini nori; un rigorismo sofferto; un’intensa carica di moralità che si concretizza — di fronte a se stesso e agli altri — in atteggiamenti ascetici e rigidi, che rivelano da un lato il senso di un’etica « civile » impegnata, da un altro lato il senso di un’etica individuale fondata su un’intensa carica di moralità interna. Rigore e ascetismo, sempre temperati dalla necessità di apertura umana e civile, lontani da qualsiasi grettezza o chiusura, ma pure severi, con quel senso di necessità che, in fin dei conti, risulta sconfitto nella pratica storico-politica concreta. Fenoglio, che rimane sempre — come personaggio dei suoi libri e come figura di scrittore — un « altro uccello » in ogni stormo, ricorda — per certi versi —- aspirazioni utopistiche e ideologie ricche di contrasti morali frequenti negli illuministi piemontesi, o — su un altro piano — l’intransigenza e i diffìcili equilibri di sintesi di un Gobetti. Si capisce che si tratta di confronti tra situazioni storico-politiche e personalità diverse. Del resto, per un altro verso, anche la linea « piemontese » che un critico ha individuato nel rapporto con « certi scapigliati piemontesi », in particolare con Roberto Sacchetti7, mi sembra che sia da considerarsi con le debite cautele con cui debbono essere considerate tutte le possibili « linee » e tradizioni regionali. Si tratta di consonanze, di affinità, più che di derivazioni dirette. La riprova dell’entità di questo moralismo intenso e difficile, risolto in continue antinomie, è nel fatto che sempre, nell’opera di Fenoglio, si discute e sentenzia sul presente, raramente sul futuro, e — comunque — quando ciò accade, nella forma di un pudore limitativo, senza enfasi. Fenoglio muove dalla contestazione — verghiana, come è stato ricordato a proposito degli scritti « langaroli » — di una sostanziale condizione di immobilità sociale non toccata dalla rivoluzione agraria e industriale che, già in secoli precedenti, era stata occasione di mutamenti profondi per altre zone e paesi europei. La Malora e i racconti che trattano di argomenti legati alla vita delle Langhe testimoniano questa visione « barbarica » della situazione del Piemonte contadino, il cui rimedio è solo nella morte o nella violenza contro gli altri o contro lo stato (si pensi, come esempio, a racconti come II signor Podestà e Ferragosto o Un giorno di fuoco e La novella dell’apprendista esattore e al senso di chiuso dramma che incombe su tutte le pagine del romanzo breve La Malora). Per contrasto, a Fenoglio si offre l’esempio storico-sociale e il modello culturale inglese, quale gli è rivelato sia dalla coscienza della letteratura inglese e soprattutto e americana —- per limitarci alle sue esperienze di lettore e di traduttore — attraverso testi caratterizzati da profonde tensioni e fratture esistenziali, talvolta misticheggianti (Flopkins, Coleridge, Browning, Eliot, Donne, De Quincey, Lee 7 M a r c o F o r t i , La « linea » piemontese di Fenoglio, in « Aut Aut », 1960, n. 55, « […] certi scapigliati piemontesi, come Roberto Sacchetti devono avergli insegnato qualcosa nella osservazione precisa esatta e colorita, nella compenetrazione tutta risolta in arte narrativa, fra le figure, gli ambienti e il vivo del paesaggio ». Su Fenoglio scrittore e ja Resistenza 67 Masters, E. Brontë)8 o di genere diaristico-avventuroso, con un fondo di tormentata sofferenza morale (Th. E. Lawrence: Laurence d’Arabia), sia attraverso l’osservazione di un esempio di civiltà positiva operativamente, modello — per lo scrittore — di « stile », di puritanesimo politico, di costituzionalismo. Quello dell’anglofilia di Fenoglio è un problema di fondo nella valutazione dell’ideologia dello scrittore: l’ammirazione — di natura varia (culturale, politica, di « stile », di gusto, ecc.) — per la civiltà anglosassone è dovuta, evidentemente, a una motivazione contrappositiva: non tanto, e non solo, a una situazione provinciale-contadina, ma soprattutto alla situazione civile generale di un’Italia arretrata (quella fascista) e anacronistica nel funzionamento, nell’organizzazione civile, culturale, economica, istituzionale, di costume. In questo senso, sono significative le sue scelte di lettore e di traduttore, scelte non solo letterarie e di gusto, ma determinate anche da ragioni ideologico-politiche. Si consideri, ad esempio, in tale direzione, la sua ammirazione per Cromwell sia come oggetto di attenzione civile (documentata, ad esempio, da P. Chiodi: « Più volte mi disse che da adolescente aveva spesso sognato di essere un soldato dell’esercito di Cromwell, “ con la Bibbia nello zaino e il fucile a tracolla” »)9 sia come oggetto di interesse storico e di traduttore da Ch. Firth (Oliver Cromwell and the Rule of the Puritans in England) e da prose sulla politica dello statista inglese. L’attenzione rivolta a Cromwell, capo politico e condottiero, difensore dei diritti civili contro i soprusi monarchici, difensore dei diritti nazionali e religiosi, e a una setta religiosa con un programma rigido, acquista un valore emblematico in uno scrittore, come Fenoglio, che se ne fa un programma in un periodo di forti conflitti e opposizioni politiche, di dibattito tra dogmatismi e spinte libertarie di vario genere e in diversi campi. Per questo aspetto, Fenoglio appare — tra gli scrittori della guerra e della vita partigiana — come un utopista alla ricerca di un’autentica rigorosa dimensione civile in un mondo di difficili equilibri dove possa essere instaurato il predominio di uno stile inteso non solo come aristocrazia e armonia morale di modi, di comportamenti, di atteggiamenti esterni — ché anche questi possono avere un loro valore, secondo Fenoglio, quando si uniscano a qualità interiori — ma come equilibrio e rispetto umano, coraggio, sicurezza, rigore, anche durezza quando sia necessaria, temperati da generosità e da spirito di solidarietà. La storia, in cui si affermano, a volte, questi valori, lastricata peraltro da tante debolezze e sbandamenti che egli annota scrupolosamente — talvolta generosamente ironizzando, altre volte stroncando con l’arma del grottesco — è per lui dramma, azione, svolgimento agonistico e antagonistico nel presente. Sul piano dell’azione e della necessità, destini individuali e destini generali ‘ Su questi interessi di lettore e di traduttore, si veda il saggio di M. C o r t i , Realtà e progetto, cit., in cui è anche descritto dettagliatamente il contenuto delle cartelle del Fondo Fenoglio. A questo proposito, si possono leggere utilmente la traduzione di S. T. C o l e r i d g e , La ballata del vecchio marinaio, prefazione di Claudio Gorlier, Torino, 1964; e il giovanile adattamento teatrale di Cime tempestose di E. Brontë recentemente pubblicato (B. F e n o g l i o , La voce nella tempesta, a cura di F. De Nicola, Torino, 1974). 5 P. C h i o d i , a r t . c i t . , p . 4 0 . 68 Elvio Guagnini s’intrecciano, questioni private e questioni civili collidono e coincidono; la storia si fissa in momenti di dolorosa tensione dialettica morte-vita, umanitàviolenza, che trovano il loro punto di sbocco nella risentita coscienza dell’individuo che li vive: un grande dramma cui tutti partecipano ma che, per avere i connotati della credibilità e per perdere i contorni del monumentale retorico, deve essere costantemente ridimensionato e considerato nei risvolti meno sovrumani che gli danno però un’autentica dimensione eroica. La scelta « inglese », in parte, coopera in Fenoglio, come cultura e anche come lingua (per l’uso particolare che ne fa Fenoglio), a costituire questa immagine della storia vissuta cóme realtà’ insieme eroica e diseroicizzata, oltre a rappresentare, come si è detto, quella che Fenoglio considerava un’alternativa di civiltà alla degradazione dei valori che si era avuta nell’Italia fascista. Sul piano stesso dell’efficienza e dello stile militare, l’Inghilterra costituisce, per lo scrittore, un mito, anche se guardato da Johnny-Fenoglio con una carica di ironia autocritica. Come nella descrizione degli effetti pratici e propagandistici prodottisi nelle formazioni azzurre dopo l’arrivo di un maggiore inglese, ufficiale di collegamento: « Esso (‘un autocarro nuovo di trinca zeppo di uomini armati e indivisati dopo lancio’) swept le basse colline come un affascinante carrozzone pubblicitario, coi suoi- uomini rigidi e alteri, inevitabilmente mannequineschi, chiusi in ultraregolari divise inglesi e, poiché piovve d’uri trattò … corne a comando indossarono gli impermeabili mimetici, mettendo in debito risalto la gobbetta posteriore per alloggiarvi il tascapane. Erano tutti armati di sten o di Enfield, un paio esibivano un Thompson, l’aristocratica arma del sogno partigiano. A quella vista i partigiani impazzirono di gioia e di suspense… I mannequins dall’alto del camion lanciarono, alla maniera pubblicitaria, manciate di sigarette inglesi col bocchino di sughero e pacchetti di razioni K che i partigiani buttarono dopo averle sospettosamente addentate e tastate » (PJ pp. 127-128) 10 1. La polemica antifascista e l’anglofilia, in genere, sono due termini connessi di uno stesso consorzio di obiettivi. Si considerino, come esempi, i due capitoli flashback in Primavera di bellezza dedicati rispettivamente a memorie del tempo scolastico (9°) e ai « premilitari » (3°): Il fascismo è il grottesco, il ridicolo incarnato in sistema politico, l’assenza di stile, il provincialistico senso di prestigio dei maestri elementari, l’investitura in gradi militari degli esclusi dalla leva, l’assurdo elevato a sistema; è una farsa, ma una farsa tragica che avrà il potere di trasformare in poco tempo le dispute scolastiche tra Johnny anglofilo, il « dream-boy » del liceo, e Arduino, il suo condiscepolo filonazista, nella tragedia di una guerra. Il grottesco, in varie misure e sfumature, dalla corrosività assoluta alla rappresentazione autocritica delle forme di maturazione della propria generazione, è 10 I riferimenti a passi delle opere di Fenoglio vengono fatti direttamente nel testo, secondo le seguenti edizioni e ristampe; I ventitré giorni della città d i Alba-La malora, Torino, 1963; 11 partigiano Johnny, Torino, 1968; Vrimavera d i bellezza, Milano, 1969; Una questione p rivata. Un giorno d i fuoco e a ltri racconti, Milano, 1965 (della stessa opera erano state pubblicate precedentemente due edizioni con il titolo Un giorno d i fuoco). Si adottano, per le citazioni, le seguenti sigle: V G A (I ventitré giorni della città di Alba)-, PDB (Primavera d i bellezza)-, QP (Una questione privata)-, PJ ( I l partigiano Johnny). Su Fenoglio scrittore e la Resistenza 69 strumento di analisi per Fenoglio e di penetrazione delle ragioni delle proprie scelte e atteggiamenti. Questo è stato il motivo, forse, per cui, a proposito del suo antifascismo, vi è stato qualche richiamo all’esperienza di Gadda. Il furore antifascista di Fenoglio è anch’esso, sovente, reazione moralistica e di costume; ma appare meno come reazione fisica e umorale e, più, come opposizione di valori. Comune è il senso di sconfitta dei valori dell’ordine, del buon senso; diverse sono le risposte: nevrotica quella gaddiana, esplosiva, proliferante sia sul piano psicologico sia sul piano verbale; più secca, ironica, contenuta apparentemente nella descrittività, quella fenogliana, corrosivo-distruttiva ma anche continuamente ricondotta a valori contrapposti precisi risultanti sia dall ’interno dei singoli contesti (come il richiamo alle « democrazie » in Primavera di bellezza, p. 91) sia dal significato generale della narrazione (Primavera di bellezza rappresenta, nell’insieme, il processo di educazione della coscienza civile dello scrittore). L’opposizione al fascismo, che culmina nel movimento di liberazione, si incarna, nelle pagine di Fenoglio, in un partigiano-tipo di taglio autobiografico. Il protagonista-eroe delle storie di Fenoglio è l’intellettuale, il giovane studente che approda alla scelta partigiana in seguito all’emergere di una nuova coscienza di fronte alla situazione creatasi dopo gli eventi dell’8 settembre, della necessità di affermare la propria dignità, o anche del desiderio di affermare la propria maturità e di partecipare responsabilmente a esperienze collettive. Qualche esempio. Raoul, studente delle magistrali, il protagonista di uno dei più incisivi racconti dei Ventitré giorni della città di Alba (1952) — « monarchico, ma a modo suo, amava la monarchia come si ama una donna » {VGA, 66) — raggiunge i partigiani perché è convinto che è « una cosa giusta », che quella è la « parte buona », perché non vuole — un giorno — sentirsi dare del vigliacco, perché vuole sentirsi capace di decisioni. La sua scelta coincide con il distacco dalla madre (« […] camminava a cuor leggero; a dispetto del fatto che al paese aveva lasciata sola sua madre vedova, si sentiva figlio di nessuno, e questa è la condizione ideale per fare le due cose veramente gravi e dure per un individuo: andare in guerra ed emigrare »; VGA, 55). In Primavera di bellezza (1959), Johnny, costretto ad interrompere gli « studi per diventare professore di lingua e letteratura inglese » dal richiamo alle armi, incontra i primi partigiani (un gruppo di sbandati, reduci dalla Francia, che hanno dichiarato guerra ai tedeschi) in Piemonte, mentre cerca di rientrare a casa, dopo l’8 settembre. L’incontro con questi militari e la decisione di continuare con essi la guerra coincidono. Gli si offre un’occasione di riscatto e di ritrovamento della propria dignità. Prima dell’incontro con i primi resistenti, Johnny aveva pensato di poter superare il trauma di quei giorni con un semplice ritorno a casa e alle sue occupazioni preferite, la letteratura e l’amore (« Literature and love-making will make me forget the whole affair »; PDB, 169). Incontrati i militari, Johnny aderisce, però, subito al loro programma di resistenza armata (« […] la guerra ai tedeschi. Noi siamo ribelli, noi abbiamo sputato la pillola dell’otto settembre. Noi non andiamo a casa, restiamo a combattere i tedeschi fin che ce ne sarà uno in Italia » […] « Ti unisci a noi per purgarti dello schifo generale che è stato in Italia? » « Io ho visto Roma e laggiù è stato uno schifo », ammise Johnny. « Scommetto che di tedeschi ne abbiamo uccisi più noi a B…bourg che non tutta la guarnigione di Roma ». « Bastava ci dessero l’ordine, eravamo talmente pronti a farci ammazzare ». « Già », disse il tenente Geo, « ma bisognava farsi ammazzare anche senza l’ordine ». « È per questo che salgo sul suo camion, tenente »; PDB, 171-172). Molto più complessa nelle sue caratteristiche e più definita nelle ragioni delle scelte, è la figura del protagonista del Partigiano ]ohnny quale emerge dai primi capitoli della contestata edizione a stampa del romanzo (secondo la tesi cortiana, la redazione di questi primi capitoli costituirebbe già una seconda versione della narrazione — la prima sarebbe stata una redazione in inglese — comunque « una …stesura a caldo, di poco posteriore alle vicende della guerra partigiana » e quindi precedente le altre opere)11. Imboscato dopo l’8 settembre, in una villetta collinare che la famiglia gli ha affittato dopo il rientro da Roma (« imprevisto, insperato » per la « vaga, gratuita, ma peased and pleasing reputazione di impraticità, di testa fra le nubi, di letteratura in vita… ») il Johnny dell’edizione postuma dapprima si dedica nervosamente a letture inglesi (dal Pilgrim’s progress di Bunyan alle tragedie di Marlowe alle poesie di Browning), ma è presto afferrato da un senso di solitudine e dal desiderio di fare qualcosa, di opporsi con le armi alle scelte repubblichine di chi aveva « rinnegato il giuramento al re per tener fede alla foederis arca germanica » (PJ, 9): « Si vedeva benissimo come giustiziere di quei suoi connazionali, no compaesani, ecco che li giustiziava in quelle loro ribalde divise di parte. Non erano andati a indivisarsi e armarsi per gli inglesi, l’avevano deciso e l’avrebbero fatto per loro, gli italiani, gli altri. Ebbene gli italiani li avrebbero tutti ammazzati; grazie ad una mano italiana essi non sarebbero stati carne per piombo inglese… » (PJ, 10). Il pensiero che un tempo, durante il servizio militare, aveva smaniato per godere di quella solitudine di cui ora disponeva per poter anche tradurre classici inglesi, diventa per Johnny un’altra ragione di tormento. L’incontro con i suoi ex insegnanti antifascisti Monti e Corradi (Chiodi e Cocito); la paura di essere catturato dai fascisti in circostanze banali; la partecipazione — con altri cittadini « alla ricerca del riacquisto della […] misura d’uomo » — alla liberazione dal carcere di familiari di renitenti al bando di Graziani: sono tutti fatti che lo spingono a salire su una collina più alta, nell’ « arcangelico regno dei partigiani », e ad arruolarsi nei partigiani delle Langhe (« la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana »; PJ, 39-40), staccandosi nascostamente e dolorosa11 M. C o r t i , I l partigiano capovolto, in « Strumenti critici », a. II, 1 9 6 8 , n. 7 , p. 4 2 0 , ripubblicato in M etodi e fantasmi, Milano, 1 9 6 9 , in cui si possono leggere anche altri importanti contributi fenogliani. Una discussione polemica con le tesi di M. Corti si trova in E u g e n i o C o r s i n i , Ricerche sul Fondo Fenoglio, in « Sigma », a.VI, 1 9 7 0 , n. 2 6 . Si vedano, ancora, la risposta della stessa Corti, Basteranno dieci anni?, in « Strumenti critici », a. V, 1 9 7 1 , n. 1 4 ; gli studi su questioni testuali fenogliane di M. C o r t i , B i a n c a d e M a r i a , R o s e l l a C u z – z o n i , pubblicati negli A tti del convegno nazionale di studi fenogliani in « Nuovi Argomenti », 1 9 7 3 , nn. 3 5 – 3 6 e la posizione del curatore del Partigiano Johnny, L o r e n z o M o n d o , nella voce Fenoglio, in Dizionario Critico della letteratura Italiana, vol. II, Torino, 1 9 7 3 (con bibliografia). 70 Elvio Guagnini Su Fenoglio scrittore e la Resistenza 71 mente, ma con decisione, dall’ambiente familiare, riprendendo coscienza della sua funzione civile e anche avvertendo come quello rappresentasse il momento della sua maturità: «E nel momento in cui partì, si senti investito […] in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare e ad eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra » (PJ, 40). Come Raoul, «monarchico […] a modo suo», come Johnny di Primavera di bellezza che vuole riparare — con la guerra ai tedeschi — allo « schifo » dell’8 settembre, anche Johnny del romanzo omonimo entra nelle file partigiane senza un « preciso sustrato ideologico », per un mandato generale di difesa e di riscatto morale e civile. L’incontro con la vita partigiana, in particolare il momento del primo incontro — dell’impatto — è choccante, traumatico. Solo la consuetudine, le azioni e la vita pericolosa in comune, renderanno possibile un nuovo senso di fratellanza anche tra elementi di formazione e di classe sociale diversa. Negli Inizi del partigiano Raoul (in Ventitré giorni della città di Alba) solo la prima notte di guardia, la sensazione della fiducia riposta nella sua vigilanza, e il primo sonno nella stalla accanto agli altri compagni, hanno il potere di immunizzare il protagonista del racconto da tutte le diffidenze accumulate nel primo giorno di vita partigiana: verso Sgancia che gli ha imposto uno svantaggioso cambio di pistole; o verso il « comunista » Kim che sta con i badogliani solo perché è capitato tra loro ma detesta la monarchia e il re; o ancora verso la volgarità dei compagni che parlano sporco («A cosa mi serve aver studiato? Qui per resistere bisogna diventare una bestia! E io non me la sento, io sono buono » urla Raoul, meditando un rientro a casa). Dopo le prime esperienze, Raoul si dispone a una maggiore comprensione verso atteggiamenti che gli sembrano giustificati dalla durezza della vita partigiana. Anche il Milton di Una questione privata appartiene alla razza dei Johnny e dei Raoul, ma il romanzo breve ci immette direttamente nella psicologia e nella storia attuale del personaggio, senza raccontarne l’iniziazione. La storia precedente del futuro partigiano Milton viene recuperata attraverso l’uso del flashback e del dialogo con riprese retrospettive. La tecnica narrativa di Una questione privata (uscito postumo nel ’63, anno della morte dello scrittore) rivela una maggiore scaltrezza di costruzione rispetto ad altri scritti fenogliani; d’altra parte, l’impianto e il senso stesso della vicenda sono tali da convogliare l’interesse dello scrittore in altre direzioni. Il problema del protagonista è come e quando, scoperta finalmente la vera natura dei rapporti dell’amico Giorgio Clerici con Fulvia, la ragazza amata, e quindi risolta la sua « questione privata » e cessata la sua indisponibilità alla guerra comune, potrà ridiventare nuovamente capace di operare « per i suoi compagni, contro i fascisti, per la libertà » (QP, 33). D’altra parte, l’accertamento della sua « verità » viene effettuato attraverso l’azione, sia pure individuale, con cui 72 Elvio Guagnini cerca di liberare l’amico-rivale, catturato dai repubblichini, per avere da lui il chiarimento su Fulvia. In Una questione privata, il problema del rapporto tra le formazioni, la dialettica « rossi »-« azzurri » (Milton è un « azzurro ») è tutta assorbita nel tessuto del racconto (come del resto nei Ventitré giorni) e non dà luogo, come nella prima parte del l ’artigiano ]ohnny, a trattazioni analitiche particolari. Se il protagonista-tipo delle diverse storie partigiane di Fenoglio presenta caratteri comuni e risente di indubbi stimoli autobiografici, se la rappresentazione dell’incontro con la vita partigiana, nelle diverse opere, presenta somiglianze notevoli, si ha però via via una diversa prospettazione e formulazione del rapporto tra protagonisti delle singole narrazioni e mondo partigiano e tra le diverse forze che agiscono nella Resistenza. E non solo per la differente funzione che questi elementi assumono volta per volta e per il diverso genere di struttura in cui sono inseriti, ma anche, probabilmente, per il diverso rapporto con la storia che Fenoglio andava prospettando a se stesso come scrittore e come testimoneattore. La massima analiticità si ritrova nei capitoli del Partigiano Johnny a stampa. Una certa ricchezza di particolari caratterizza anche il partigiano Raoul del racconto dei Ventitré giorni. In Primavera di bellezza, il romanzo tutto è una definizione del protagonista; l’incontro con i primi partigiani, però, non dà luogo — in Johnny — a traumi e lacerazioni, né è occasione — per lo scrittore — per un chiarimento delle motivazioni politiche e ideologiche della scelta partigiana. Primavera di bellezza fa cioè il punto più dei risultati che delle cause, tende alla sintesi più che alla analisi, soprattutto negli ultimi capitoli. Ci si può chiedere se queste differenze siano in qualche modo da mettere in relazione con i mutamenti di atteggiamento di Fenoglio di fronte agli avvenimenti del suo tempo e alla politica, o — comunque — quali ragioni lo spingessero a una rappresentazione dell’incontro tra un giovane e la vita partigiana meno connotata sul piano politico e ideologico. La visione « politica » che Fenoglio ha della vita partigiana appare — nella generalità — piuttosto semplice, schematica, fondamentalmente dualistica, articolata nella dialettica « rossi »-« azzurri »/Stella rossa, garibaldini-formazioni badogliane. Ora, la prima elaborazione degli scritti fenogliani avviene in un arco di tempo in cui (secondo la testimonianza di Pietro Chiodi) lo scrittore andava maturando una posizione diversa da quella — monarchica e badogliana — che aveva caratterizzato il periodo della partecipazione alla Resistenza per arrivare a un giudizio diverso sulle due forze antifasciste, anzi a una considerazione più benevola nei confronti dei « rossi ». Questa visione semplificata e riduttiva della guerra partigiana come dualismo « rossi »-« azzurri » (dei « gielle » e delle formazioni Matteotti si trovano solo cenni rapidi e comunque poco significativi) è spiegabile — forse — anche in rapporto a due ragioni oggettive: nella zona in cui Fenoglio partigiano aveva operato, il Partito d’azione, attivissimo peraltro in tutta la regione piemontese, aveva formato la prima banda nella primavera del ’44, estendendo e organizzando su più vasta scala la propria attività nelle Langhe solo tra la fine del ’44 e l’inizio Su Fenoglio scrittore e la Resistenza 73 del ’45; anche il Partito socialista vi aveva costituito una brigata Matteotti partendo da un nucleo ex-autonomo solo all’inizio del gennaio 1945 12; in secondo luogo (ed è una ragione in parte collegabile alla precedente), le formazioni all’interno delle quali Fenoglio aveva militato, quelle « autonome », ebbero continui problemi di rapporto, talora anche difficili, nei confronti delle formazioni garibaldine. « Mauri era la monarchia, la restaurazione », ha scritto Nuto Revelli13 14 di Enrico Martini (Mauri), il comandante delle Formazioni Autonome del Monregalese e delle Langhe. Mauri guardava non solo con grande diffidenza ai partiti, ma faceva dell’apoliticità « la condizione necessaria per il proseguimento della lotta contro il nemico, unico scopo della Resistenza » H. Indipendente nei confronti del CLN, le sue formazioni avevano assunto, nel corso del 1944, atteggiamenti contrari, ostili ai garibaldini, giudicati degH « irregolari ». Se accanto a Mauri operavano comandanti di divisione e di brigata che avevano assunto, nei confronti delle altre formazioni, atteggiamenti meno polemici, l’indirizzo e la configurazione delle formazioni « azzurre » erano ancora strutturati, però, sul modello dell’esercito regolare e gran parte dei comandanti aderivano all’idea di una guerra antitedesca che fosse tutta militare, aliena da « contenuti sociali ». La difficoltà di rapporto tra formazioni garibaldine e formazioni autonome ebbe modo di manifestarsi, in diverse occasioni, per acutizzarsi soprattutto in occasione e nel periodo della liberazione di Alba 15. Nelle file degli « azzurri » di Mauri, in cui entrò dopo il ritorno da Roma dove aveva frequentato un corso per allievi ufficiali fino all’8 settembre, Fenogfio compì la sua esperienza partigiana. Sarebbe stato impossibile per Fenoglio, scrittore strettamente aderente a una realtà conosciuta di persona o attraverso testimonianze annotate e controllate, evadere da una dialettica in cui si era trovato personalmente coinvolto nella propria esperienza, ignorando problemi e ragioni con cui si era trovato a stretto contatto in tutti quei mesi. Ma se Fenoglio partigiano aveva aderito — almeno inizialmente — al programma di Mauri, ne avrebbe in seguito avvertito i limiti. In diverse riprese, nella sua opera, Fenoglio avrebbe sottolineato la propria divergenza non solo da posizioni monarchiche e legittimiste, ma anche rispetto al modo di strutturare e condurre le formazioni partigiane con gli schemi e la mentalità dell’esercito regio. Si vedano, come esempi, una presentazione di capi badogliani (PJ, 116-117, e, in particolare 117: « Quanto all’etichetta politica, i capi badogliani erano vagamente liberali e decisamente conservatori, ma la loro professione politica, bisogna riconoscere, era nulla, sfiorava pericolosamente il limbo agnostico, in taluni di essi si risolveva nel puro e semplice esprit de bataille. L’antifascismo però,… era integrale, assoluto, indubitabile… Erano brillanti, attraenti, ma superficialmente. Ed in tutti regnava una lancinante nostalgia ed inclinazione alla regolarità, una dolorosa accettazione di quell’irrimediabile irregolarità per la quale non era possibile schierarsi e combattere nei vecchi cari ed onorati schemi ») o il breve profilo del comandante badogliano Edo 12 D i a n a M a s e r a , Lunga partigiana ’43-45, con prefazione di G. Q u a z z a , Parma, 1971, pp. 148 sgg. 13 N. R e v e l l i , Introduzione a D. Livio B i a n c o , Guerra partigiana, cit., p . LI. 14 D. M a s e r a , op. cit., p . 4 2 . 13 Ibid., p. 109; e sezione V I dell ‘Appendice. 74 Elvio Guagnini (QP, 75), dove però, rispetto al Partigiano Johnny, le connotazioni sono molto più rapide, meno analitiche, assorbite nel racconto. Non condividendo la mentalità del « regio », tipica di molti ufficiali effettivi entrati nelle file partigiane, Fenoglio ritiene che la trasformazione del soldato debba essere radicale sia dal punto di vista della mentalità, sia da quello operativo, sia anche come capacità di rapporti umani. Tra i militari, tra i badogliani, non tutti rientrano nella linea e nello stile non condivisi da Fenoglio; vi sono « azzurri », come Pierre, che riescono a mantenere uno stile militare, mostrandosi tuttavia duttili alle nuove esigenze di quella particolare guerra. Nei rapporti con Pierre, il tenente di aeronautica comandante del presidio di Mango di cui Johnny comandante in seconda dopo l ’ingresso negli « azzurri », personaggio ammirato per il prestigio e l’autorità, il coraggio e il rigore (PJ, 129-130 e 365), e anche nelle discussioni con Tito, il giovane partigiano della Stella Rossa che non è comunista e con cui Johnny stringe amicizia durante la sua permanenza nelle file dei « rossi », {PJ, 51) emerge non solo una critica al sistema badogliano (adottato però anche dai « rossi », dei presidi e delle guarnigioni, ma anche una teoria della guerriglia fondata su una strategia diversa da quella degli eserciti regolari (« Qui si formano le guarnigioni come nell’esercito regolare, qui si tiene conto dello spazio occupato, come nella guerra del T5… I partigiani sono l’opposto diametrale dei reparti regolari, lo capirebbe anche un bambino. Dobbiamo inapparire, agire e risparire, mai fermi, sempre ubiquitous, e pochi e mai in divisa […] »; PJ, 51). Isolato come Tito, nella critica alla condotta militare delle diverse formazioni in cui milita, Johnny si sente disadattato anche di fronte ai rapporti di vita interna, agli atteggiamenti politici, o agnostici e troppo dogmatici, alla struttura umana, talvolta, di alcuni loro esponenti. Quanto ai « garibaldini », dopo il primo contatto con essi, Johnny ripete a se stesso: « I ’m in the wrong sector of the right side », e la sua immaginazione lo porta a desiderare formazioni diverse, « nelle quali egli non potesse così dolorosamente avvertire lo stacco qualitativo, non aver più motivo a quella superiore diversità che al momento lo angosciava, lo torturava » {PJ, 48), quegli « azzurri » tra cui si trovano elementi della sua classe, del « medio ceto » {PJ, 81). Una schedatura analitica dell’opera di Fenoglio, volta a catalogare i passi in cui si definiscono le posizioni dello scrittore verso i « rossi », darebbe risultati interessanti a capire non solo lo svolgimento del suo atteggiamento verso la politica e la storia di quegli anni di guerra e degli anni in cui elaborava i suoi scritti partigiani, ma anche, forse, il diverso ruolo e direzione della sua scrittura, il diverso configurarsi del rapporto tra autobiografia e scrittura letteraria. Come sempre, la miniera più ricca di pagine e di passi — in questa direzione — è la prima parte del Partigiano Johnny, quei capitoli dalla scrittura suggestiva, complessa e tormentata in cui si riflette un’ansia di fissare e analizzare, a fondo, criticamente e conclusivamente, i termini di un’esperienza personale, individuale, un desiderio di dar corpo e vita — quasi bruciandolo in una scrittura che lo rappresenti integralmente — a quel nodo di reazioni e umori, esperienze e idee, Su Fenoglio scrittore e la Resistenza 75 contraddizioni e aspirazioni, rifiuti e progressivi riconoscimenti, in cui gli si configurava la partecipazione alla Resistenza: una scrittura privata che era qualcosa di più di un semplice diario, per la ricchezza di prospettive di giudizio e angolature di visuale, ma anche la premessa e il fondo per altre scritture in cui la dimensione privata sarebbe stata convogliata e messa a frutto in una dimensione narrativa più rigorosa e in cui anche la rappresentazione dell’individuale si sarebbe configurata in una ricerca più serrata ma anche più ampia, dove il dettaglio, il particolare, la reazione singola sarebbero stati organizzati intorno a saldi nuclei problematici, storici ed esistenziali, di più vasto respiro. Le pagine del Partigiano Johnny (prima parte) in cui è riferito il colloquio del protagonista con l’ex insegnante Corradi, che si sta preparando alla resistenza armata, sono un’illuminante testimonianza sulla generazione di giovani cresciuta negli anni del fascismo, la generazione che, di fronte agli avvenimenti di quegli anni di guerra, avrebbe scoperto nuove realtà, anche politiche, e sarebbe stata costretta a uscire dagli schemi e dai pregiudizi politici e di classe cui era stata iniziata nel conformismo degli anni del regime. La prima reazione di Johnny di fronte al comuniSmo di Corradi è di stupore e di curiosità, quindi di allibi? mento (quando scopre che il suo insegnante, alla compagnia dei propri allievi e colleghi, preferisce quella di quattro compagni comunisti), quindi ancora di irrigidimento di fronte ai casi estremi che Corradi gli sottopone per dimostrargli come il rigore della lotta comporti necessariamente la capacità di sacrificarle tutto, anche gli affetti più cari. Il primo incontro del Johnny del romanzo omonimo con i garibaldini sarà choccante. Sognatore di un nuovo puritanesimo militare (« tutto aveva da essere così nordico, così protestante »; PJ, 42), Johnny si imbatte in una realtà per lui sconcertante, al cui contatto la sua visione « arcangelica » della vita partigiana è destinata a sfaldarsi. Di fronte a questa realtà, il giovane partigiano reagisce certo con un senso di distinzione, diffidenza, delusione, fastidio verso la politicizzazione dei « rossi », ma rimane in lui la scoperta, effettuata nelle loro file, di una realtà sociale e di secolari separazioni (nord-sud) che finora gli era sfuggita o che la propria educazione gli aveva impedito di conoscere. Sicché, se talvolta viene ripreso dalla nostalgia della vita cittadina e del mondo borghese, si ritrova anche, però, a discutere di politica con un commissario comunista, magari in polemica con le tesi di quest’ultimo e a sostegno di un programma minimo, parlamentare (PJ, 83), e, quando gli accade di incontrare, successivamente, dei borghesi di Alba sfollati in collina, è in grado di intendere il solco che quella esperienza aveva scavato in lui: « …non c’era più nessun possibile rapporto, tra quella gente e se stesso, il suo breve ed enorme passato… ». Più tardi, ancora, Fenoglio indugia, nello stesso testo, in una descrizione di partigiani « rossi » e « azzurri » nella piazza di S. Stefano, significativa di una considerazione dei due settori della « parte buona » in termini distaccati ma critici, quasi in un rapporto di complementarità: « Gli azzurri erano più eleganti e flessuosi, stupendamente atti al bel gesto ed al lungo, autocritico riposo. I comunisti avevano nella toughness la loro principale caratteristica fisica, apparivano più tagliati per una lunga grigia campagna, per lo sforzo pianificato e prolungato, soprattutto avevano un’impressionante aspetto di saper andare oltre 76 Elvio Guagnini quando per gli azzurri era già finito da un pezzo » (PJ, 142). Il Partigiano ]ohnny si configura così come una straordinaria autobiografia in chiave critica e autocritica, un tentativo di bilancio disincantato delle forze allora in campo, delle proprie posizioni di fronte ad esse e della propria maturazione, un bilancio talora venato da una sorta di nostalgia per l’assenza, tra i suoi, di scelte precise, di punti di riferimento stabili (Si veda, come esempio, a questo proposito, la pagina su Fischia il vento, la canzone dei « rossi », in PJ 144: « Essi hanno una canzone, e basta. Noi ne abbiamo troppe e nessuna. Quella loro canzone è tremenda. È una vera e propria arma contro i fascisti che noi, dobbiamo ammettere, non abbiamo nella nostra armeria. Fa impazzire i fascisti, mi dicono, a solo sentirla »). Poco numerose e contenute saranno invece le indicazioni e connotazioni « politiche » nel secondo troncone del Partigiano Johnny, più asciutto, tendente piuttosto alla rappresentazione della vita partigiana, dell’azione. Anche i Ventitré giorni e, con essi il romanzo Una questione privata, e i racconti pubblicati assieme a quest’ultimo, risentono di questo problematico dualismo. A proporre il tema del confronto « rossi »-« azzurri », nei Ventitré giorni, è, in particolare, il racconto Un altro muro, in cui dei due prigionieri, un badogliano e un garibaldino, che attendono nella stessa cella la morte, solo Lancia, il garibaldino, sarà ucciso, e morirà con quella dignità, serenità e rassegnazione di fronte alla morte che aveva contrassegnato la sua detenzione, mentre Max subirà una finta fucilazione e verrà usato per uno scambio di prigionieri. La crudezza di questo racconto è notevole; il discorso è essenziale, senza sbavature e aggiunte commentane. Al di là del rilievo particolare acquistato dal fatto che a impersonare lo stoicismo, la saldezza dei principi Fenoglio abbia scelto un « rosso », direi che ciò che interessa lo scrittore, in particolare, è sempre più il desiderio di definire condizioni e atteggiamenti umani, reazioni dell’uomo di fronte ad avvenimenti che soli permettono di scorgere la sua vera natura e struttura: e questa verifica non cade mai in discorso meramente esistenziale, non resta mai questione astratta, proprio perché i suoi problemi e le sue verifiche, anche quando oltrepassano i confini del racconto autobiografico, Fenoglio li cala in un tessuto che reca impressi i connotati della realtà. Resta comunque il fatto che la distinzione contrappositiva « rossi »-« azzurri » andrà attenuandosi, e si prospetterà — in Una questione privata (attraverso l’incontro tra Paco e Milton) — una proposta di tolleranza e di comprensione e la possibilità di un superamento (Paco, garibaldino, sostiene che « l’importante non è essere rossi o azzurri, l’importante è scorciare tanti neri quanti ce n’è »; OP, 65). Una variante del colloquio tra Corradi e Johnny sull’essenza della lotta partigiana si ritrova, trattata con sviluppi interessanti, in II padrone paga male (pubblicato nel « Caffè », luglio-agosto 1959, quindi ristampato in Questione privata). Nel Partigiano Johnny, il colloquio si concludeva con la profezia che Johnny sarebbe stato, con le sue idee, un ottimo partigiano solitario (un « Robin Hood » privo di « sustrato ideologico ») comunque meno utile di qualunque partigiano comunista, e con il distacco di Johnny da Corradi. La presentazione dei casi estremi per verificare la saldezza di principi della recluta partigiana si conclude invece, nel racconto, sì con una sfuriata del commissario garibaldino ma anche con la proposta al giovane, nonostante le sue risposte, di rimanere poiché « avrebbero Su Fenoglio scrittore e la Resistenza 77 finito col capirsi », e con l’integrazione, non politica ma umana e militare, dello stesso giovane nel reparto. Sotto il profilo politico-ideologico, al di là di tutte le prospettive e contrapposizioni polemiche, di tutti i rilievi critici e autocritici, « rossi » e « azzurri » gli appaiono sempre più due aspetti complementari del mondo partigiano; la schematizzazione dualistica resta sì, ma integrata in una realtà che è più complessa e richiede risposte meno schematiche. La visione che Fenoglio ha della vita partigiana non si esaurisce in questi aspetti, si capisce; è anche una visione, più mossa e sfumata all’interno delle articolazioni di superficie, di una realtà che è semplice e complessa al tempo stesso proprio perché dominata da forze elementari come la necessità (« Questa guerra — afferma Milton — non la si può fare che così. E poi non siamo noi che comandiamo a lei, ma è lei che comanda a noi »;QP, 72), dall’imposizione di crudeltà che deformano il corso e gli impulsi naturali-della vita (« Questo mondo è fatto per viverci in pace », afferma il partigiano Negus in L’andata, VGA, 34). La rottura dell’ordine esterno, la sconfessione che istituzioni tradizionali hanno ricevuto dalla storia, la scoperta della vacuità, dell’inerzia, della paura del medio ceto, provocano, tra l’altro, non solo un ridimensionamento delle prospettive di giudizio — rispetto agli anni della guerra — sugli avvenimenti, sulla politica e sulle distinzioni di allora, ma anche una rottura di ordine interno, psicologico ed esistenziale, difficile da risolvere in chi rifiuta inquadramenti, sistemazioni diverse: e da ciò la ricerca, le riscritture delle sue pagine, il tentativo di spiegarsi e di spiegare, di raggiungere alla radice le cose vissute. Il problema che si pone, e cui si è già accennato, non è solo la prospettiva civile e politica in cui Fenoglio, nel dopoguerra, vede il proprio passato, la propria esperienza, ma anche se in questa prospettiva e nella sua rappresentazione siano intervenuti dei mutamenti: è ovvio — come si è detto — che solo la pubblicazione di altri inediti o un’edizione critica dell’opera di questo scrittore ci metterà in grado di dare delle risposte precise. Ma anche una prima presa di contatto con gli scritti di Fenoglio — quelli editi — ci indica la presenza di mutamenti di cui è necessario tener conto, accanto a tutti gli altri elementi, di stile, di struttura narrativa ecc., per una valutazione complessiva dello scrittore. Ad alcuni di questi mutamenti si è già accennato. Un episodio che può costituire un punto di confronto utile e definire questo processo è il racconto della presa, occupazione e abbandono di Alba nel L’artigiano ]ohnny e nelle pagine scarne e sintetiche del racconto che intitola il volume einaudiano. Il racconto, rispetto ai capitoli del romanzo, appare privo di notazioni autobiografiche, politiche, di rilievi sul carattere delle formazioni. Certo, la veste di cronaca e il distacco che sembrerebbero caratterizzare il racconto sono solo fatti apparenti; non vi è — quanto a stile, giudizi, prospettive — alcun elemento comune alle cronache e alle prove narrative consuete negli anni in cui il racconto fenogliano era stato concepito. Il tono ironico, disincantato, distaccato, critico, apparenta queste pagine a quelle del L’artigiano Johnny, le rivela dello stesso autore (anche se così diverse da altri punti di vista) per la co- 78 Elvio Guagnini mune tendenza all’epica come derivazione dall’antieroico, dall’antiretorico, più suggerita che enunciata. Né si può dire che Fenoglio si indirizzi, nei Ventitré giorni, verso una rappresentazione agnostica della Resistenza. Del resto il racconto, già citato, Un altro muro, sta a testimoniare abbondantemente l’assenza di qualsiasi operazione di deideologizzazione. La tendenza che si afferma, dunque, è a un racconto meno autobiografico, meno riferito a tensioni e reazioni personali. Il confronto tra le due versioni dei fatti di Alba o quello tra il colloquio CorradiJohnny nel Partigiano ]ohnny e il racconto, sullo stesso tema, Il padrone paga male, costituiscono degli indici interessanti di una elaborazione che poteva muovere, dal punto di vista quantitativo, indifferentemente verso riduzioni o ampliamenti, ma sempre verso uno stesso risultato di superamento del diaristico, di ricerca di una dimensione superindividuale, di formulazione del discorso nei termini di una narrativa più complessa non solo ma anche di una rappresentazione più distaccata dai fatti (dove distaccata non significa non partecipata). Che significato può essere attribuito a tal genere di operazione? Uno spunto indiretto per una risposta ci può Venire, forse, da una delle testimonianze più incisive sulla generazione di Fenoglio e sulla cultura del secondo dopoguerra, la prefazione che Italo Calvino ha premesso alla ristampa del Sentiero dei nidi di ragno: « Al tempo in cui l’ho scritto, creare una ’’letteratura della Resistenza” era ancora un problema aperto, scrivere il ’’romanzo della Resistenza” si poneva come un imperativo; […] credo che ogni volta che si è stati testimoni o attori d’un’epoca storica ci si sente presi da una responsabilità speciale… » 16. Il confronto tra i capitoli 15°-17° di Primavera di bellezza e i capitoli più o meno corrispondenti, come materia, del Partigiano Johnny (l’ingresso del giovane protagonista nelle file partigiane) è di estremo interesse, ancora una volta, non solo per questioni di stile ma anche per la rappresentazione che viene data della Resistenza. Nel Partigiano Johnny, l’incontro del protagonista con la vita partigiana avviene, come si è detto, attraverso vari gradi di iniziazione politica. In Primavera di bellezza, la nascita della lotta partigiana è rappresentata in un reparto in cui esperienze diverse sono fuse, in cui il capitano Solari, monarchico, combatte a fianco di Tito, il quale è convinto, invece, che la Resistenza « non sarà un fatto di militari »: un reparto in cui sono i resti di un esercito in rotta, in cui varietà regionali e differenze di classe dovranno dar luogo a una fusione di forze, per creare un esercito nuovo per combattere, se necessario fino al sacrificio, contro i nuovi nemici. Ma forse — più degli altri libri — è Una questione privata a raggiungere, da molti punti di vista, la maggiore complessità e ricchezza rappresentativa nella presentazione del protagonista partigiano con le sue ragioni e prospettive individuali innestate e rapportate alle esigenze comuni, nella fusione di una ricerca anche autobiografica, psicologica ed esistenziale, con il quadro di un evento collettivo, di una storia più vasta. In questo senso, Calvino ha colto nel segno, 16 I . C a l v i n o , prefazione a II sentiero dei nidi di ragno, Torino, 1947, p. 12. Su Fenoglio scrittore e la Resistenza 79 quando -—■ nella citata prefazione 17 — ha affermato che Fenoglio è riuscito a scrivere il romanzo che molti giovani scrittori avevano sognato di fare e che in Una questione privata « c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione e la furia ». Per fare questo romanzo, per operare questa trasferta dello scrittore su un piano « oggettivo », era necessario un parallelo processo di trasformazione dello stile e delle strutture narrative (è una questione che apre un altro capitolo di analisi e che mi limito ad accennare): dal diario, dalla scrittura quasi privata, umorale, esplosiva, linguisticamente aperta a un complesso di apporti, culturali e affettivi, italiani, dialettali e inglesi, ricca di reazioni e notazioni private e soggettive, al racconto e al romanzo breve, tutto pieno, anch’esso di questi apporti (all’interno) ma tendente comunque a organizzarsi in una linea meno episodica, centralizzata, disposta intorno a nuclei. Negare — come qualcuno ha tentato di fare — l’apporto dello scrittore piemontese alla rappresentazione della Resistenza, il valore « storiografico » (nel senso detto all’inizio) delle sue scritture, la sua ricerca per definire cos’era stata la guerra partigiana, per fare di Fenoglio uno scrittore di elementari conflitti esistenziali o per vederlo del tutto indifferente alla Resistenza anche come confronto, scontro e dialettica di ideologie, significherebbe, perciò, far torto ai testi di Fenoglio, alla ricchezza della sua ricerca e della sua scrittura che, se non si esauriscono nel dibattito ideologico e politico, certo ne hanno tratto spunti e stimoli. La necessità di capire e di analizzare a fondo — retrospettivamente — i diversi settori della « parte buona » (« the right side »), della Resistenza; il suo isolamento ma anche la sua attenzione allo sviluppo della società del dopoguerra; l’interesse costante per i problemi del progresso civile: erano tutte condizioni e problemi di Fenoglio uomo che non potevano non tormentare e stimolare Fenoglio scrittore, la cui ricerca di stile, di lingua e di strutture narrative rifletteva anch’essa una ricchezza di tensioni interne e storiche, insieme al desiderio di comporre un’opera che le rappresentasse pienamente.

E l v i o G u a g n i n i

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