Garufi, Rocambole S. P., “Va bene!” – Sembra incredibile, ma ci fu tempo in cui valeva la pena sacrificarsi per la Patria…

Questo racconto sull’eroismo, perciò, nacque da una chiacchierata a Vico Equense, in provincia di Napoli, col fratello della Medaglia d’oro al valor militare, capitano Antonio Monaco – era il generale Fausto Monaco, uno dei sopravvissuti ragazzi del ‘99, i leggendari e vittoriosi soldati che nella Prima Guerra Mondiale ridettero all’Italia l’onore perduto a Caporetto -.

“Io sono troppo sessantottino” gli dissi. “Non potrei mai scrivere nulla sui soldati… e, forse, neppure su madre Teresa di Calcutta… Io credo al bel vivere e vada al diavolo il bel morire!”

Il generale sorrise, senza rispondermi.

Poi, si alzò e tirò fuori dalla libreria un suo libro, stampato in caratteri tipografici poveri. Vi scrisse una dedica e me lo regalò.2

Nello scritto del generale Fausto Monaco trovai un altro scritto, questa volta del defunto fratello, datato 19/11/1940.

Lì il capitano Antonio Monaco rassegnava alla memoria italiana l’ultimo e più importante gesto della sua vita.

Egli comandava la 3^ Compagnia del 2° Reggimento Bersaglieri e partecipò ai fatti d’arme di Kani Delvinachi, nel corso dell’attacco italiano alla Grecia, partito da territorio albanese.

Operava in montagna. A quota 1302 c’era Pedra Caidos, a quota 1129 Keravason, considerata vitale per l’integrità del settore assegnato al Reggimento.

Tre giorni prima, di buon mattino, la sua compagnia aveva sferrato un contrassalto contro il nemico asserragliato sulla cima di Pedra Caidos, riconquistandola. Ma, verso le sedici, l’esercito greco era ritornato con violenza, costringendo gli italiani a ripiegare su Keravason, dove si erano sistemati a caposaldo.

Alle otto del diciotto il nemico li incalzava col suo fuoco d’artiglieria. Alle dieci e trenta la situazione si era fatta disperata. Eppure, Antonio Monaco aveva già inviato dispacci, dichiarandosi disposto a morire piuttosto che cedere. Aveva trent’anni.

Egli si trovava in zona-operazioni da appena dieci giorni, eppure la morte l’aveva già sfiorato. Infatti, quando era arrivato all’aeroporto di Valona, aveva ricevuto subito il battesimo del fuoco: un attacco aereo, durante il quale due bersaglieri erano stati colpiti e due aerei nemici erano stati abbattuti.

Nonostante ciò, immancabilmente, continuava a chiudere le lettere ai familiari con le parole: Morale altissimo. Questo, d’altra parte, gli avevano insegnato negli anni di studi militari, iniziati subito dopo le scuole medie inferiori.

Conclusa la scuola militare di Roma, a vent’anni era diventato allievo della Regia Accademia di Fanteria e Cavalleria di Modena, conseguendo dopo due anni il grado di sottotenente. Sucessivamente, aveva frequentato la scuola d’applicazione di fanteria a Parma. Ultimatola, era stato prescelto per i bersaglieri, con assegnazione al 2° Reggimento di sede a Roma.

I l sei aprile del millenovecentotrentasei era stato mobilitato col 115° Fanteria motorizzato, destinazione Cirenaica. Era rientrato ai primi d’agosto di quello stesso anno. Allora aveva rappresentato al Ministero che, cessato lo speciale servizio, voleva tornare fra i bersaglieri, che avevano sempre costituito la sua ambita predilezione. Così, era stato riassegnato al 2° Reggimento Bersaglieri.

Nel trentanove era partito col corpo di spedizione O.M.T. per far ritorno a novembre, dopo l’occupazione dell’Albania. Nel frattempo, il ventuno giugno, era stato promosso capitano ed assegnato al 10° Reggimento Bersaglieri di Palermo.

Si era, però, rivolto di nuovo al Ministero, esprimendo il desiderio di non abbandonare il servizio mobilitato e di restare al 2° Reggimento. Era stato accontentato ed apprezzato per il suo attaccamento alla Patria in armi ed al Reggimento.

Così, la notizia della morte di sua madre lo aveva raggiunto ad Elsane, il trenta agosto del 194O. Partendo, aveva perfino trovato la forza di dire all’ufficiale che doveva sostituirlo:

“Non punire i bersaglieri.”

Lo spirito di corpo forse gli veniva dall’istinto di sopravvivenza. Lo praticava per sentirsi una presenza reale, cioè un tizio venuto al mondo per far qualcosa. L’arma dei bersaglieri aveva il merito di dargli un preciso e definito concetto della vita, un sistema di valori coerente in tutte le sue parti. Era nata prima di lui e sarebbe sopravissuta a lui. Quando la pallottola destinata a fermare il suo corpo lo avrebbe colto su quel picco calvo, egli sarebbe sopravvissuto nell’arma, come probabilmente pensava, scrivendo:

Non dovrò aspettare troppo. Ieri sera, alle diciassette e trenta, il nostro caposaldo a stento è riuscito a respingere l’urto del nemico con un deciso fuoco di sbarramento. Dall’alba di oggi i greci hanno attaccato più volte. I loro tentativi sono stati stroncati dal fuoco e dai contrassalti dei bersaglieri. Alle tredici, però, gli attacchi sono diventati più violenti. Allora il comandante del reggimento si è messo in contatto telefonico con me, dando l’ordine di tenere la posizione, ad o-gni co-sto!

Io ed i miei uomini facciamo appello al coraggio della disperazione per continuare a lottare. Durante il pomeriggio ho spedito continui rapporti, chiedendo che almeno mandassero acqua e munizioni. Invece, è arrivato un ordine:Compagnia Monaco resti sul posto senza ripiegare fino a distruzione. Rinforzarla se occorre con elementi disponibili di Keravason.

Ed ancora, alle sedici e trenta: Compagnia Monaco non abbandoni per nessuna ragione quota 1129 alt.

A quel punto, ho pensato che fosse giunto il momento di inviare l’unica risposta per me possibile: Va bene.

Adesso sono quasi le diciassette e trenta e dovremmo essere all’epilogo. In questo momento mi piace pensare che anche una mia eventuale vita in borghese, prima o poi, sarebbe finita, magari sotto i fendenti di un cancro anonimo e traditore. Forse, sarei morto giovane in ogni caso. E’ inutile, perciò, angustiarsi per l’età in cui si muore. Meglio concentrarsi sul modo in cui si vive.

Accanto a me c’è il bersagliere Morelli.

Scommetto che quando finiremo di sparare il suo corpo giacerà fianco a fianco al mio.

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