La carbonara “Marcia su Napoli” del 1820 fu il modello organizzativo della fascista “Marcia su Roma” del 1922 (Racconto di Rocambole S. P. Garufi)

I moti carbonari del 1820/21 e la Marcia su Napoli

di Rocambole S. P. Garufi

L’1 gennaio 1820, improvvisamente, la carboneria entrò in azione a Cadice, in Spagna, dove scoppiò la ribellione delle truppe, che dovevano imbarcarsi per andare a sedare le insurrezioni delle colonie americane.

Al comando dei ribelli, insieme al colonnello Quiroga, c’era il colonnello Riego. Quest’ultimo rappresentava una lampante dimostrazione dell’esistenza di una vera e propria Internazionale delle sette segrete, dato che era membro della versione spagnola della carboneria: i comuneros.

La richiesta era il ripristino della Costituzione spagnola del 1812, che nel 1814 era stata abrogata dal re Ferdinando VII di Spagna. Su questa parola d’ordine, ben presto, ai rivoluzionari si unirono le truppe mandate a combatterle, per cui, il 7 marzo, il povero monarca non poté fare a meno di prendere atto della situazione.

Il 3 giugno, durante una sentimentale passeggiata nella siracusana isoletta di Ortigia, ammirando le lampare che punteggiavano il mare, un noto carbonaro esultava:

“Il re di Spagna ha concesso la costituzione. Adesso, tocca a noi!”

Per una volta, la sua donna fu più prudente di lui. “Ma, le potenze della Santa Alleanza cominciano già a consultarsi sui provvedimenti da prendere…”

Erano amanti ormai da anni. Ambedue avevano caratteri troppo irrequieti per il matrimonio. La più avventuriera era lei. Spesso in giro per l’Italia e per l’Europa. A Torino aveva conosciuto Santorre di Santarosa ed a Napoli il generale Guglielmo Pepe, che, dalla fine del 1818, comandava la 3^ divisione militare.

“Non succederà niente” disse l’uomo. “Non credo che la Santa Alleanza possa sottovalutare il fatto che la rivoluzione ha profonde radici nel popolo. Dovrebbe pensare, inoltre, che un intervento in Spagna potrebbe finire come ai tempi di Napoleone, con la guerrilla che distrugge il morale dei soldati. Un’invasione della Spagna, poi, è possibile soltanto attraverso la Francia ed il governo francese non mi pare propenso a favorire un’azione armata.”

“A Napoli preferiscono aspettare.”

“Io, invece, vorrei che avessero più coraggio. Se la rivoluzione divampa in tutta Europa, i reazionari non avranno abbastanza truppe per fermarla. La saggezza sta nel cogliere il momento ed agire, se è il caso di agire.”

“E pure nell’avere le forze sufficienti.”

“Oh, quelle ci sono! Anche se il generale Pepe non è un carbonaro, non nasconde i suoi sentimenti liberali. Con lui le milizie di Avellino e di Foggia si sono riempite di patrioti.”

“Basterà una sola divisione a far trionfare la rivoluzione?”

“Sai bene che sono anni che la si progetta.”

“Già… con risultati ridicoli, come dopo Pompei.”

Era stato toccato il punto dolente della carboneria meridionale. Nel maggio del 1817, fra le rovine della dissepolta città romana, si erano radunati i carbonari di Napoli e di Salerno. Con loro c’era il Supremo Magistrato della setta lucana. Si era costituito in tal modo il comitato centrale della carboneria dell’intero regno, che aveva stabilito che la rivoluzione doveva scoppiare entro quello stesso mese. Poi, si era rinviato a settembre ed a settembre si era rinviato a data da destinarsi. L’idea era stata ripresa nel 1818 dalla suprema gerarchia carbonara, l’Alta Vendita di Salerno, fissando l’azione per febbraio. A febbraio non era successo niente. A quel punto, persino il governo aveva smesso di preoccuparsi, allentando la repressione. Nel 1819, ancora, si ridava l’ordine di tenersi pronti, per quando non era dato saperlo. Per fortuna, nel frattempo, l’idea carbonara era penetrata profondamente nell’esercito regolare.

“Resta il dubbio se noi saremo all’altezza degli spagnoli” concluse, quindi, la donna.

Quien sabe!” ammise l’uomo.

Intanto, però, in maniera del tutto inaspettata, gli ufficiali dell’esercito borbonico Michele Morelli e Giuseppe Silvati non delusero le aspettative. Nella notte tra l’1 ed il 2 luglio 1820, alla testa dei loro reggimenti di cavalleria, antesignani di una futura e più famosa marcia su Roma, marciarono su Napoli.

La miccia venne innescata, prima che da loro, da poche decine di carbonari di Nola. Quest’ultimi erano guidati dall’abate Luigi Minichini, una strana figura di religioso, forse così innamorato della giustizia, da trascurare il consiglio evangelico di dare a Dio quello che è di Dio. Egli, infatti, intendeva dare a Cesare quello che è di Cesare, o meglio a Ferdinando I quello che era di Ferdinando I (col piccolo particolare che ciò che voleva dargli era la forca).

Era nato in una famiglia di agiati possidenti. Il padre avrebbe voluto farne un prete ed egli lo aveva accontentato fino al suddiaconato. Poi, però, si era tolto la tonaca, trasferendosi in Inghilterra per due anni. Tornato, aveva ripreso gli abiti religiosi, entrando in un convento di Napoli. Si era, quindi, dedicato agli studi ed aveva finito per dirigere il Collegio dei Frati Ignorantelli di San Giovanni in Galdo, nel Molise. Qui era entrato nella carboneria e subito aveva mostrato un carattere perlomeno deciso, quando aveva avvelenato, insieme a quattro complici, un poveraccio che serviva messa. Gli si voleva impedire di riferire ciò che non avrebbe dovuto neppure sapere. In quell’occasione, la setta aveva dispiegato tutta la sua potenza, corrompendo i giudici e facendolo rimettere in libertà.

Ora, alla testa di qualche facinoroso ed insieme a 127 soldati, marciava sulla strada che portava ad Avellino, città che, della carboneria, era una centro molto attivo.

“Viva, paesani, allegri!” gridavano i carbonari.

“Viva la libertà e la Costituzione!” gridavano altri carbonari.

“Il generale Pepe è con noi!” gridavano i soldati.

Attraversarono, così, diversi paesi. All’inizio furono in pochi ad unirsi al drappello. Però, a Monteforte (dodici chilometri appena da Avellino) si fecero numerosi.

“Viva la Costituzione!” vennero a gridare alcune centinaia di carbonari avellinesi, affiancandosi ai cugini di Nola.

“Viva l’esercito e la libertà!” echeggiarono alcuni nuovi reparti di soldati, ingrossando il corteo.

Ad Avellino, il tenente colonnello De Concilj, comandante in assenza di Guglielmo Pepe, era incerto. Neanche lui era carbonaro; ma, non disdegnava contatti ed amicizie con la setta. Decise, infine, di bloccare i dimostranti fuori della città ed, al contempo, mise in stato di allarme le truppe. L’effetto fu che la notizia del moto si diffuse fulmineamente in tutta la provincia.

Il 3 luglio Morelli, forzando le incertezze di De Concilj, entrava in città e, di fatto, assumeva il comando di tutti i soldati che vi erano stanziati. Ora davvero, la rivoluzione carbonara era scoppiata!

“E’ che quando cala la piena, tutti gli stronzi salgono a galla!” esclamò, fuori di sé, Re Ferdinando I. Alludeva a Morelli e Silvati.

Di fronte a lui, Luigi de’ Medici, il capo del Governo, non si scompose più di tanto. “Sempre a proposito di piena, c’è un altro proverbio in Sicilia che consiglierei a Vostra Maestà… Caliti juncu ca passa la china.

Il Re sbuffò. “Lei e le sue complicate strategie! Avessi usato un po’ più la forca e un po’ meno quella sua benedetta politica dell’amalgama!”

“Oggi avreste contro mezzo esercito.”

Ferdinando guardò accigliato il suo ministro. Era sorprendente la calma che esibiva in quel momento. Normalmente, Medici, pur essendo una delle intelligenze politiche più acute d’Italia, non si tratteneva dall’esprimere scoraggiamenti, delusioni, amarezze. “Quindi? Debbo farmi carbonaro anch’io?”

“Ma no, Maestà! Altrimenti, che giunco sareste?”

“Non mi pare che ci siano molte alternative. O mando l’esercito, o mando il ramoscello d’ulivo.”

“Penso che sia meglio il ramoscello d’ulivo. Per ora.”

“Ma, chiedono la Costituzione!”

“E voi dategliela. Se no, potrebbero finire per chiedere la vostra testa.”

“E Vienna?”

“Proprio così, maestà, Vienna! Cedete, aspettando di sapere come reagisce. Se Metternich non manda le sue truppe, voi avrete salvato il trono e diverrete un Re liberale… Se le manda, potrete sempre dirgli che siete stato costretto. Guadagnate tempo, per adesso… quanto basta per capire le intenzioni dell’imperatore.”

Il Re non ce la fece a seguire fino in fondo i consigli di Luigi de’ Medici. Perciò, il 9 luglio, si finse malato e passò la mano al figlio, come suo vicario – si ripteva, praticamente, la situazione del ’12, in Sicilia -. Fu, quindi, Francesco, insieme ai principi reali, ad assistere dai balconi della reggia alla sfilata dei costituzionalisti che entravano a Napoli.

Il corteo procedette fra due ali di folla festante. In testa c’era il battaglione di Nola, autonominatosi Battaglione Sacro. A seguire, si vedevano le bande musicali ed i regimenti insorti, con a capo il generale Pepe, fiancheggiato dai colonnelli Napoletano e De Concilj. Non mancavano, ovviamente, la Vendita “Muzio Scevola” di Nola, guidata da Minichini, ed alcune migliaia di carbonari, con le loro bandiere tricolori: rosso, nero e azzurro.

“Viva il Re!” gridò il popolo, alla vista della famiglia reale.

“Viva il Re e la costituzione!” gridarono dal corteo.

“Viva San Gennaro!” gridò ancora il popolo, ormai preso dall’entusiasmo.

Allora, i Principi nei balconi della reggia si fregiarono della coccarda carbonara. Seguì un’ovazione.

Poco dopo, il Re ammalato ricevette Pepe e gli altri capi del movimento.

/ 5
Grazie per aver votato!