In Halloween c’è la bestemmia del barbaro e dell’ignorante, che tutto riduce a Carnevale e consumismo, anche la sacralità dei Sentimenti che ci legano ai nostri defunti.

Il Giornale di Rocambole

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D irezione: Rocambole S. P. Garufi

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La religione civile di una Nazione

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urneConfortate di pianto è forse il sonnoDella morte men duro? Ove più il Sole Per me alla terra non fecondi questaBella d’erbe famiglia e d’animali,E quando vaghe di lusinghe innanziA me non danzeran l’ore future,Nè da te, dolce amico, udrò più il versoE la mesta armonia che lo governa,Nè più nel cor mi parlerà lo spirtoDelle vergini Muse e dell’Amore,Unico spirto a mia vita raminga,Qual fia ristoro a’ dì perduti un sassoChe distingua le mie dalle infiniteOssa che in terra e in mar semina morte?Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involveTutte cose l’obblio nella sua notte;E una forza operosa le affaticaDi moto in moto; e l’uomo e le sue tombeE l’estreme sembianze e le reliquieDella terra e del ciel traveste il tempo.Ma perché pria del tempo a sè il mortaleInvidierà l’illusion che spentoPur lo sofferma al limitar di Dite?Non vive ei forse anche sotterra, quandoGli sarà muta l’armonia del giorno,Se può destarla con soavi cureNella mente de’ suoi? Celeste è questaCorrispondenza d’amorosi sensi,Celeste dote è negli umani; e spessoPer lei si vive con l’amico estintoE l’estinto con noi, se pia la terraChe lo raccolse infante e lo nutriva,Nel suo grembo materno ultimo asiloPorgendo, sacre le reliquie rendaDall’insultar de’ nembi e dal profanoPiede del vulgo, e serbi un sasso il nome,E di fiori adorata arbore amicaLe ceneri di molli ombre consoli.Sol chi non lascia eredità d’affettiPoca gioia ha dell’urna; e se pur miraDopo l’esequie, errar vede il suo spirtoFra ’l compianto de’ templi Acherontei,O ricovrarsi sotto le grandi aleDel perdono d’lddio: ma la sua polveLascia alle ortiche di deserta glebaOve nè donna innamorata preghi,Nè passeggier solingo oda il sospiroChe dal tumulo a noi manda Natura.Pur nuova legge impone oggi i sepolcriFuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ mortiContende. E senza tomba giace il tuoSacerdote, o Talia, che a te cantandoNel suo povero tetto educò un lauroCon lungo amore, e t’appendea corone;E tu gli ornavi del tuo riso i cantiChe il lombardo pungean Sardanapalo,Cui solo è dolce il muggito de’ buoiChe dagli antri abduani e dal TicinoLo fan d’ozi beato e di vivande.O bella Musa, ove sei tu? Non sentoSpirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,Fra queste piante ov’io siedo e sospiroIl mio tetto materno. E tu veniviE sorridevi a lui sotto quel tiglioCh’or con dimesse frondi va fremendoPerchè non copre, o Dea, l’urna del vecchio,Cui già di calma era cortese e d’ombre.Forse tu fra plebei tumuli guardiVagolando, ove dorma il sacro capoDel tuo Parini? A lui non ombre poseTra le sue mura la città, lascivaD’evirati cantori allettatrice,Non pietra, non parola; e forse l’ossaCol mozzo capo gl’insanguina il ladroChe lasciò sul patibolo i delitti.Senti raspar fra le macerie e i bronchiLa derelitta cagna ramingandoSu le fosse e famelica ululando;E uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,L’ùpupa, e svolazzar su per le crociSparse per la funerea campagna,E l’immonda accusar col luttuosoSingulto i rai di che son pie le stelleAlle obblîate sepolture. IndarnoSul tuo poeta, o Dea, preghi rugiadeDalla squallida notte. Ahi! sugli estintiNon sorge fiore ove non sia d’umaneLodi onorato e d’amoroso pianto:Dal dì che nozze e tribunali ed areDier alle umane belve esser pietoseDi sè stesse e d’altrui, toglieano i viviAll’etere maligno ed alle fereI miserandi avanzi che NaturaCon veci eterne a’ sensi altri destina.Testimonianza a’ fasti eran le tombe,Ed are a’ figli; e uscìan quindi i responsiDe’ domestici Lari, e fu temutoSu la polve degli avi il giuramento:Religïon che con diversi ritiLe virtù patrie e la pietà congiuntaTradussero per lungo ordine d’anni.Non sempre i sassi sepolcrali a’ templiFean pavimento; nè agl’incensi avvoltoDe’ cadaveri il lezzo i supplicantiContaminò; nè le città fur mesteD’effigïati scheletri: le madriBalzan ne’ sonni esterrefatte, e tendonoNude le braccia su l’amato capoDel lor caro lattante, onde nol destiIl gemer lungo di persona mortaChiedente la venal prece agli erediDal santuario. Ma cipressi e cedriDi puri effluvi i zefiri impregnandoPerenne verde protendean su l’urnePer memoria perenne; e prezïosiVasi accogliean le lagrime votive.Rapìan gli amici una favilla al SoleA illuminar la sotterranea notte,Perchè gli occhi dell’uom cercan morendoIl Sole; e tutti l’ultimo sospiroMandano i petti alla fuggente luce.Le fontane versando acque lustraliAmaranti educavano e violeSu la funebre zolla; e chi sedeaA libar latte o a raccontar sue peneAi cari estinti, una fragranza intornoSentia qual d’aura de’ beati Elisi.Pietosa insania che fa cari gli ortiDe’ suburbani avelli alle britanneVergini, dove le conduce amoreDella perduta madre, ove clementiPregaro i Geni del ritorno al prodeChe tronca fe’ la trîonfata naveDel maggior pino, e si scavò la bara.Ma ove dorme il furor d’inclite gestaE sien ministri al vivere civileL’opulenza e il tremore, inutil pompaE inaugurate immagini dell’OrcoSorgon cippi e marmorei monumenti.Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,Decoro e mente al bello Italo regno,Nelle adulate reggie ha sepolturaGià vivo, e i stemmi unica laude. A noiMorte apparecchi riposato albergo,Ove una volta la fortuna cessiDalle vendette, e l’amistà raccolgaNon di tesori eredità, ma caldiSensi e di liberal carme l’esempio.A egregie cose il forte animo accendonoL’urne de’ forti, o Pindemonte; e bellaE santa fanno al peregrin la terraChe le ricetta. Io quando il monumentoVidi ove posa il corpo di quel grandeChe, temprando lo scettro a’ regnatori,Gli allor ne sfronda, ed alle genti svelaDi che lagrime grondi e di che sangue;E l’arca di colui che nuovo OlimpoAlzò in Roma a’ Celesti; e di chi videSotto l’etereo padiglion rotarsiPiù Mondi, e il Sole irradiarli immoto,Onde all’Anglo che tanta ala vi steseSgombrò primo le vie del firmamento:Te beata, gridai, per le feliciAure pregne di vita, e pe’ lavacriChe da’ suoi gioghi a te versa Apennino!Lieta dell’aer tuo veste la LunaDi luce limpidissima i tuoi colliPer vendemmia festanti, e le convalliPopolate di case e d’olivetiMille di fiori al ciel mandano incensi:E tu prima, Firenze, udivi il carmeChe allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,E tu i cari parenti e l’idïomaDèsti a quel dolce di Calliope labbro,Che Amore in Grecia nudo e nudo in RomaD’un velo candidissimo adornando,Rendea nel grembo a Venere Celeste;Ma più beata che in un tempio accolteSerbi l’Itale glorie, uniche forseDa che le mal vietate Alpi e l’alternaOnnipotenza delle umane sorti,Armi e sostanze t’invadeano, ed areE patria, e, tranne la memoria, tutto.Che ove speme di gloria agli animosiIntelletti rifulga ed all’Italia,Quindi trarrem gli auspici. E a questi marmiVenne spesso Vittorio ad ispirarsi,Irato a’ patrii Numi; errava mutoOve Arno è più deserto, i campi e il cieloDesîoso mirando; e poi che nulloVivente aspetto gli molcea la cura,Qui posava l’austero; e avea sul voltoIl pallor della morte e la speranza.Con questi grandi abita eterno: e l’ossaFremono amor di patria. Ah sì! da quellaReligïosa pace un Nume parla:E nutrìa contro a’ Persi in MaratonaOve Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,La virtù greca e l’ira. Il naviganteChe veleggiò quel mar sotto l’Eubea,Vedea per l’ampia oscurità scintilleBalenar d’elmi e di cozzanti brandi,Fumar le pire igneo vapor, corruscheD’armi ferree vedea larve guerriereCercar la pugna; e all’orror de’ notturniSilenzi si spandea lungo ne’ campiDi falangi un tumulto e un suon di tubeE un incalzar di cavalli accorrentiScalpitanti su gli elmi a’ moribondi,E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.Felice te che il regno ampio de’ venti,Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!E se il piloto ti drizzò l’antennaOltre l’isole Egée, d’antichi fattiCerto udisti suonar dell’EllespontoI liti, e la marea mugghiar portandoAlle prode Retèe l’armi d’AchilleSovra l’ossa d’Ajace: a’ generosiGiusta di glorie dispensiera è morte:Nè senno astuto, nè favor di regiAll’Itaco le spoglie ardue serbava,Chè alla poppa raminga le ritolseL’onda incitata dagl’inferni Dei.E me che i tempi ed il desio d’onoreFan per diversa gente ir fuggitivo,Me ad evocar gli eroi chiamin le MuseDel mortale pensiero animatrici.Siedon custodi de’ sepolcri, e quandoIl tempo con sue fredde ale vi spazzaFin le rovine, le Pimplèe fan lietiDi lor canto i deserti, e l’armoniaVince di mille secoli il silenzio.Ed oggi nella Tròade inseminataEterno splende a’ peregrini un locoEterno per la Ninfa a cui fu sposoGiove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,Onde fur Troja e Assàraco e i cinquantaTalami e il regno della Giulia gente.Però che quando Elettra udì la ParcaChe lei dalle vitali aure del giornoChiamava a’ cori dell’Eliso, a GioveMandò il voto supremo: E se diceva,A te fur care le mie chiome e il visoE le dolci vigilie, e non mi assentePremio miglior la volontà de’ fati,La morta amica almen guarda dal cieloOnde d’Elettra tua resti la fama.Così orando moriva. E ne gemeaL’Olimpio; e l’immortal capo accennandoPiovea dai crini ambrosia su la NinfaE fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.Ivi posò Erittonio: e dorme il giustoCenere d’Ilo; ivi l’Iliache donneSciogliean le chiome, indarno, ahi! deprecandoDa’ lor mariti l’imminente fato;Ivi Cassandra, allor che il Nume in pettoLe fea parlar di Troja il dì mortale,Venne; e all’ombre cantò carme amoroso,E guidava i nepoti, e l’amorosoApprendeva lamento a’ giovinetti.E dicea sospirando: Oh se mai d’Argo,Ove al Tidide e di Laerte al figlioPascerete i cavalli, a voi permettaRitorno il cielo, invan la patria vostraCercherete! le mura, opra di Febo,Sotto le lor reliquie fumeranno;Ma i Penati di Troja avranno stanzaIn queste tombe; chè de’ Numi è donoServar nelle miserie altero nome.E voi palme e cipressi che le nuorePiantan di Priamo, e crescerete ahi! prestoDi vedovili lagrime innaffiati.Proteggete i miei padri: e chi la scureAsterrà pio dalle devote frondiMen si dorrà di consanguinei luttiE santamente toccherà l’altare,Proteggete i miei padri. Un dì vedreteMendico un cieco errar sotto le vostreAntichissime ombre, e brancolandoPenetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,E interrogarle. Gemeranno gli antriSecreti, e tutta narrerà la tombaIlio raso due volte e due risortoSplendidamente su le mute viePer far più bello l’ultimo trofeoAi fatati Pelìdi. Il sacro vate,Placando quelle afflitte alme col canto,I prenci argivi eternerà per quanteAbbraccia terre il gran padre Oceàno.E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,Ove fia santo e lagrimato il sanguePer la patria versato, e finchè il SoleRisplenderà su le sciagure umane.

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