George Orwell, l’anti-Utopia e l’ideologia consumistica del disastro odierno (di Rocambole S. P. Garufi)

Insidie e parole

(George Orwell e la New Speak)

di Rocambole S. P. Garufi

La coscienza post-contemporanea a cui dovrebbe portarci un’attenta lettura dell’opera di George Orwell, comincia con una proposta restauratrice. Bisognerebbe aumentare la durata della scuola media inferiore da tre a quattro anni. Così, nei primi due anni si potrebbe reintrodurre il latino obbligatorio per tutti.

La finalità è chiara. In tal modo potremo ritrovare le radici della nostra cultura (e non soltanto quelle remote). Lo studio, conseguentemente, avrebbe scopi ben più lungimiranti di quelli meramente pratici in voga nell’attuale stupidario scolastico, dove non ci sono più presidi, ma pagliaccesche imitazioni di dirigenti. Con la base latina si offre ai ragazzi l’opportunità di un’interpretazione omogenea della propria vita, al di fuori e al di sopra delle discriminazioni ambientali e socio-economiche. Cosa buona e giusta. E, soprattutto, necessaria nel mondo della tecnologia avanzata. Inoltre, col latino si conseguirà un triplice obiettivo: l’acquisizione di un lessico che favorisca un uso meno approssimativo della lingua italiana, la conoscenza delle civiltà da cui veniamo, la base propedeutica per successivi approfondimenti.

Ma, sulle orme di Orwell, vorrei cercare il cuore dei contemporanei disagi del vivere, partendo dall’idea che la lingua, prima di essere uno strumento di comunicazione, è la cartina di tornasole della qualità del nostro pensiero- Alla luce delle evoluzioni portate dall’esperienza storica, ritroveremo una nuova identità, superando la condizione di vuoti a perdere a cui il consumismo globale ha ridotto gli individui.

La Retrotopia, quindi, come correttamente scrive Zygmunt Bauman, potrebbe diventare un nuovo modello di futuro, in alternativa all’utopia che nell’anti-utopia di Orwell ha la sua ipotesi più angosciante. Qui, infatti:

“Tutto è sempre più criminalizzato, in quanto rappresenta una minaccia per l’élite finanziaria e per il suo controllo sul paese […] il neoliberismo inietta nelle nostre vite la violenza e nella nostra politica la paura.”1

Quindi, provocatoriamente, per uscire dal guado di decenni di crisi economica, aggravata dalla tragica pandemia che strazia i nostri giorni, prima di rivoluzionare, bisognerebbe restaurare e, magari, riproporre la centralità dello studio letterario, inteso come critico approccio alle molte ipotesi sociali.

La solidarietà tra gli uomini nasce dal dialogo. Chi capisce gli altri difficilmente ne diventa il persecutore. E’ l’estraneo, l’incomprensibile che genera paura. Lo si vede sempre intento all’aggressione e per questo si passa subito al linciaggio. Un intero mondo viene semplificato in un solo nome. Mussolini, Craxi, Berlusconi, Salvini (ma, nel corso di questo secolo breve, pure Crispi, Giolitti, Scelba…) sono ormai diventati un pensiero automatico, che si appoggia soltanto sulla pittura che ne hanno fatto i poteri che a loro si sono sostituiti.

Ma, non esiste dialogo senza una lingua. E, purtroppo, la parlata oggi più diffusa, l’inglese, come giustamente sostiene il filosofo Umberto Galimberti, resta un ottimo strumento per lo scambio di informazioni, ma non è una lingua e non esprime compiutamente un pensiero ricco e complesso.2

Più articolata e piena di sfumature sarà la lingua, più il dialogo sarà vero dialogo.

Lo capì George Orwell in 1984, dove viene narrato che il potere di Oceania ha una particolare cura per la lingua. Con la lingua, lì, si riesce a non far comunicare gli uomini fra di loro. Vengono distrutti soprattutto gli affetti. Il divide et impera dell’impero romano viene portato a livelli capillari.

A questo scopo il Potere (presenza di cui non conosciamo l’essenza, ma che ci domina in modo invadente) ha inventato la newspeak, la neo-lingua (nel nostro caso, non a caso ricca di parole inglesi), e l’ha imposta come lingua ufficiale. Per mezzo di essa la comunicazione, oltre ad essere ingabbiata, viene scarnificata. Lo scopo dichiarato è quello di eliminare ogni parola inutile. Il dialogo, così, si riduce a semplice comunicazione di ordini. La libertà, più che morta, è un feto mai nato.

Ancorata alle cose concrete, la neo-lingua toglie agli uomini la possibilità di parlare in maniera articolata. I concetti astratti (quali, appunto, la libertà) vengono stravolti. Come il bagnato sotto il sole agostano della Sicilia, sbiadiscono e poi scompaiono.

Per il potere, perciò, la manipolazione della lingua è importante come il controllo di esercito e polizia. Con la neo-lingua gli uomini diventano pecore e le città tanti allevamenti intensivi di consumatori. Il lessico limitato toglie le gambe al pensiero e la generale schiavitù sta già dentro le parole. La riduzione della parola al politicamente corretto è il più efficace contraccettivo per impedire la nascita del dissenso. Si opera sulle cause e si evitano gli effetti.

C’è, però, pure una funzione positiva della neo-lingua. Essa modella il pensiero, lo indirizza nel senso voluto dal regime. I grandi quotidiani, la televisione, i social perdono ogni qualità e diventano strumenti per creare l’assenso dello schiavo. Scardinano ab imis famiglia, nazione e persino solidarietà di classe ed impongono il culto di diritti civili di natura narcisista e individualistica.

La neo-lingua abolisce sfumature e sottigliezze con la scusa di adattare la comunicazione alla società di massa. Ad ogni parola corrisponde un significato non poeticamente dilatabile, un significato sempre ancorato a cose materiali. I perché? Delle opinioni umane si spostano all’esterno, al controllabile, al codificabile. Per questo il potere adora gli slogan, le frasi già pensate, le frasi che hanno già giudicato. In questo nel sessantotto si raggiunse il parossismo. Col ripeterlo ininterrottamente il potere dà a qualsiasi sciocchezza la forza di una verità inconfutabile. Le parole, perciò, finiscono per significare l’esatto opposto di ciò che indicano. Nel romanzo di Orwell the ministry of truth, ovvero il ministro della verità, manipola continuamente le notizie e la storia.

A furia di usare le parole nel senso voluto dal regime, le si carica di una forza primordiale e pre-logica. Al loro suono scattano meccanismi di reazione utili a chi li ha imposte. Il pensiero del potere, il suo modo di ragionare si infiltra dentro la mente dei sudditi. Essi diventano i guardiani di loro stessi. I loro sentimenti, le loro emozioni, tutti i più riposti processi razionali vengono ogni giorno istillati dall’alto. In definitiva, la manipolazione del linguaggio è l’arma più efficace per la manipolazione del pensiero.

E’ perciò evidente che il terreno privilegiato per la lotta contro il totalitarismo è quello della lingua. In essa risiede l’unicità della cultura di una nazione, la sua civiltà visibile.

Bisogna respingere i tentativi di settorializzazioni della lingua, magari accompagnati da una massiccia immissione di termini stranieri. Per molti, per troppi, una scuola al passo coi tempi è anti-umanistica per definizione, finalizzata alla formazione di tecnici al servizio del potere. La formazione del cittadino, al contrario, non può non essere una conquista esaltante ma lenta e difficile.

In ogni caso, tutto passa attraverso l’acquisizione delle eredità del passato, anche di quelle oggi inutilizzabili, almeno apparentemente, anche di quelle più lontane e antiche.

Ritornando ad Orwell, riscontriamo che gli scopi della strumentalizzazione degli uomini e della spoliazione della loro capacità di pensare vengono raggiunti coi primi due livelli della neo-lingua: i cosiddetti vocabolari A e B. Questi vocabolari riguardano l’uso quotidiano e l’uso politico della lingua. C’è poi un terzo livello: il vocabolario C. Esso è fatto quasi interamente di termini scientifici e tecnici.

Secondo questa sistemazione, le parole sono ridotte alla sola radice. Non più prefissi, non più suffissi, nulla di tutto ciò che è nato dall’esigenza di indicare una sfumatura, o (peggio ancora) un’opposizione.

Si arriva in questo modo ad un lessico fatto di termini specialistici, incomprensibili ai non addetti ai lavori. Evidentemente lo scopo è quello di rendere chiuse le varie categorie sociali, riportando il mondo a un sostanziale nuovo sistema di caste. Tale paradosso, oiggi colto anche da Bauman, veniva già indicato da me nel lontano 1990.3

Orwell lo aveva predetto, ma già nell’aria si avvertiva che il fatto diventava sempre più amara esperienza e ciò rende ancor più disprezzabile la cortigianeria dell’università, del giornalismo e della letteratura italiana degli ultimi cinquant’anni (Cortigianeria? Incapacità? O ambedue le cose?).

Nel vocabolario C (quello oggi caro agli intellettuali un po’ tromboni, un po’ cicisbei dei salotti televisivi) il legame tra neo-lingua e tecnologia si fa strettissimo. Anzi, a ben guardare, la neo-lingua è un aspetto della tecnologia. Tutt’e due hanno origine dal mito dell’efficienza e tutt’e due rinnegano ogni filosofia, ogni oziosità. Il risultato è che tutt’e due cadono nell’utilitarismo: tolgono all’uomo la capacità di un pensiero strategico, la capacità di analizzare ciò che non è immediatamente evidente. Lo riportano alla brutale condizione delle bestie. La sfera estetica e la sfera etica vengono reificate e diventano materia, oggetti, merce.

Lo scorrere della storia si fissa nell’immobilità dell’icona.

1Zygmunt Bauman. Retrotopia, Laterza, Bari-Roma, 2020, p.10.

2Umberto Galimberti, La lingua inglese, https://www.youtube.com/watch?v=_iTNDD4s24g

3Salvatore Paolo (Rocambole) Garufi, Insidie e parole, in “Secolo d’Italia”, 10 febbraio 1990.

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