Il primo capitolo di un libro di forti ambizioni. Nato come tesi di laurea (che ottenne il massimo dei voti), in quasi cinquant’anni si è arricchito, fino a diventare un compiuto ritratto della “noluntas” novecentesca.

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La Sicilia è una trottola: si muove, ma non procede

Chi era Brancati? In che cosa credeva?

Lui stesso impiegò un’intera vita a dircelo, fino a soffocare la sua arte dentro la sua ideologia. Era un buon laico all’antica, irremovibile nel suo concetto di libertà senza alcun aggettivo appicciato dietro.1

All’origine di questa concezione sta un preciso ambiente sociale: la media borghesia intellettuale vivente nella provincia siciliana culturalmente arretrata.

Brancati nacque a Pachino, cittadina dell’estremo Sud della Sicilia, il 24 luglio 1907 da Maria Antonietta Ciàvola e da Rosario Brancati. Il padre esercitava la professione dell’avvocato. Sull’ambiente familiare, poi, è interessante il racconto del fratello Corrado, in un articolo apparso su “LA SICILIA”:

“Mio padre, funzionario assai rigido (ancora lo ricordano) di Prefettura, era allora molto noto per gli articoli che pubblicava con lo pseudonimo ‘Il Ghirlandaio’ nel

vecchio ‘Giornale dell’Isola’ di Catania fondato, mi pare, dai fratelli Carnazza, uomini politici assai noti, uno dei quali, Gabriello, avvocato di vasta rinomanza, fu anche ministro.

“Scriveva anche novelle che piacevano molto alle donne e che risentivano delle letture di Gabriele D’Annunzio di cui mio padre era fervente ammiratore, tanto da tenere nello studio un grande ritratto dello scrittore. Nella biblioteca paterna, accanto a tutti i libri di D’Annunzio, si ammassavano libri di politica, di diritto e, in gran numero, romanzi: di Tolstoj, di Dostojevski, di Turghenev, di Bourget, di Balzac, di Zola, di Prevost, di Maupassant, sono quelli che ricordo, oltre ai molti classici italiani, da Manzoni a Carducci, a Pascoli e ai romanzi d’attualità come quelli di Guido da Verona. “Mia madre, che idolatrava mio fratello affettuosamente ricambiata da Vitaliano, era una bravissima donna di casa, che si sacrificò molto per la famiglia [..]“.2

I miti tanto cari alla tradizione siciliana, come si vede, ci sono tutti: il padre, eccentrico nei gusti letterari, ma funzionario “rigido” (e, ovviamente, pure onesto, incorruttibile, “buon padre” non solo dei suoi figli, ma di tutti i suoi amministrati). Per qualche anno, per esempio, egli fu commissario prefettizio a Militello in Val di Catania, conducendo un’inflessibile lotta all’abigeato.3

Le sue pretese culturali, invece, saranno una perfetta palestra per il Brancati “fascista”.

La madre, inoltre, era traboccante di esasperato amore per il figlio. E quanto

ciò lo soffocasse ce lo dice Brancati stesso in un brano di Gli anni perduti:

“Oh, le mamme sono le nostre peggiori nemiche – osservò Rodolfo De Mei – queste mamme siciliane che fanno i figli e poi se li mangiano. –

– Rodolfo! – Gridò la signora Careni. – Non si parla così con una madre! Che screanzato, Dio santo! –

– Non è vero, forse? Mia madre, da dieci anni, vale a dire dalla sera in cui presi l’abitudine di andar fuori, mi dice sempre: ‘Rodolfo, mammuccia, tua, non rincasare tardi!’ Dieci anni di ‘Rodolfo, mammuccia tua, non rincasare tardi’ e dieci anni di ‘Ma ti pare?’ sono qualcosa che fa pensare. Ma il sogno di mia madre è che questo possa durare ancora trent’anni “.4

L’unica persona della famiglia con la quale era riuscito a legare e a raggiungere il “perfetto accordo”, fu il nonno materno che, quando nel ’33 morì, gli fece scrivere queste parole:

“Sapevo bene che l’uomo non muore tutto in una volta, ma età per età, e sapevo che l’età dell’uomo sono due: la fanciullezza e la maturità. Quell’anno, non s’era vista un’ala nel cielo, e la mia prima età era morta. Mi rimaneva ancora un’altra età: il tempo per essere onesti, per essere veritieri, e soprattutto semplici, io l’avevo ancora. Ma una parte della mia vita era terminata, uno dei miei occhi s’era chiuso per sempre”.

Non mi sembra però che la figura del nonno sia destinata ad avere un’eccessiva importanza o incidenza nella formazione del carattere di Brancati o nell’evoluzione della sua arte, se non come cantuccio di raccoglimento. Nel complesso, forse la si può ravvisare soltanto in certe figure di anziani di alcuni romanzi (es. lo zio di Antonio nel Bell’Antonio), che svolgono la funzione di angiolino riservato ai sentimenti personali dell’autore, un po’ come i cori manzoniani.

La fanciullezza di Brancati fu, nel complesso, abbastanza normale per l’ambiente in cui s’era trovato a crescere e, soprattutto, fu molto ricca di successi scolastici.

A diciassette anni fece il suo esordio nella politica, iscrivendosi al Partito Fascista, il 4 febbraio del 1924. Più tardi, nel 1929, si laureò in Lettere col massimo dei voti e la lode, discutendo una tesi su Federico De Roberto (che in secondo momento rinnegherà, insieme a tutti gli altri scritti “fascisti”).

Della giovanile adesione al fascismo saranno impregnate tutte le opere fino a circa il 1933, anno al quale, secondo Vanna Gazzola Stacchini, si può far risalire l’inizio della crisi (forse in parte causata da una lettera che il Borgese, di cui era fervido ammiratore, gli inviò l’8 luglio del 1933); e sebbene questa prima maniera di scrivere presenti qualche ingenuità di stile, la stessa risulta vitale per una non distorta comprensione dell’uomo e dell’artista Brancati.

Cosa fu, in definitiva, che spinse Brancati al fascismo, oltre all’ambiente familiare particolarmente adatto.

Per la Stacchini:

“Tale scelta ebbe un carattere di reazione alle condizioni di vita della sua isola, la cui storia era tendente ad un immobilismo che non poteva non riflettersi nella coscienza e nel costume dei suoi abitanti; in questo senso la sua reazione ebbe un significato assai più profondo che non abbia avuto per la borghesia italiana in genere, annoiata e nello stesso tempo spaventata dal nuovo. Brancati cercava il nuovo, invece, some superamento di quelle condizioni metastoriche siciliane e del senso di vuoto che derivava dalla posizione di isolato; perciò egli disse di questo tempo: ‘In certe epoche non bisognerebbe mai avere vent’anni’.5

Sullo stesso tema dell’adesione al fascismo si esprime anche il critico Enzo Lauretta che, in risposta alla Stacchini, dice:

“A 17 anni Brancati, per quanto maturo fosse, non s’era ancora posto alcun problema sociale né credo avesse coscienza, neppure a livello epidermico, delle condizioni metastoriche dell’Isola. Non c’è un solo rigo che stia a dimostrarlo”.6

E ancora:

“Certo il desiderio di novità giocò la sua valida carta ma, più che un desiderio di rottura per le condizioni dell’Isola, a spingerlo verso il fascismo fu il tipico atteggiamento ‘del giovane intellettuale tutto impregnato di cultura decadente’”.

Io arricchirei il pensiero del Lauretta sviluppando ulteriormente un concetto che il critico stesso aveva messo in evidenza, prima di fornirci la sua tesi sul fascismo il Brancati: la vittoria dell’uomo attivo sul pensatore.

Complice involontaria una madre che con il suo pernicioso affetto non lo lasciava crescere, e mai gli permette di abbandonarsi alla sensazione di sentirsi un vero uomo7

Tutta la propaganda fascista era incentrata proprio su questi postulato base e in ciò era la “novità” del regime e la sua enorme presa sui giovani.

Così, nello scrittore, alla fine, in maniera del tutto confusa, di assommarono la reazione, la ribellione, i miti e i pregiudizi ereditati dalla famiglia. Si provi adesso a mischiare questa maionese impazzita di sentimenti, e, inevitabilmente verrà fuori il fascismo,o il comunismo – cioè le espressioni infantili, estremiste e violente dell’aspirazione all’identità nazionale, o alla giustizia sociale -.

Chi non ricorda gli “astratti furori” del Vittorini di Conservazione in Sicilia? Certo, la situazione e il contesto storico sono diversi, ma forse uguale fu la “velleità” – concetto che merita ulteriori sviluppi, per capire la nostra epoca -.Il fascismo per Brancati rappresentò una risposta positiva al suo bisogno di movimento, alla sua sete di certezze che gli rendessero meno vaghi i contorni e i perché della sua vita. Era un bagaglio, insomma, che serviva a individualizzarlo, poiché era una sorta di prova della sua stessa esistenza ch’egli cercava, anche se per cercarla aveva scelto la maniera più facile: avere le certezze già confezionate che il Regime aveva “costruito”.Brancati stesso ci dette la chiave di questa interpretazione, quando spiegò la nascita delle dittature:“Secondo me la risposta la si trova nella scarsa vitalità di cui dispone la nostra epoca. La vitalità di un uomo può assumere una forma così poco indipendente e individuale da riuscire veramente a moltiplicarsi a contatto con la vitalità di altri uomini. Udire il proprio passo nel rumore generale di altre migliaia di passi esalta come se quel fragore venisse tutto dal nostro piede. Ci si sente elevati alla massima potenza proprio nel momento in cui non si conta più nulla“8

E ancora:

“Cosa farà lo stupido per provare l’ebrezza del genio? Farà massa. Così, urlando lo stesso urlo insieme a centomila altri, crederà che l’umanità intera parli della sua bocca spalancata”.

Perciò a muovere l’individuo-Brancati, a convincerlo a farsi massa, fu il bisogno di superare la propria poca “vitalità”, di cercare di raggiungere, restando integro l’”io”, l’universale.

Ma cos’è la vitalità, se non l’esplicazione di una nostra presunta vita? Cosa significa raggiungere l’universale, Salvando l’io, se non salvare l’io tout court e afferrarlo nella sua intima essenza (almeno presunta)?

  1. 1In Ritorno alla censura, Brancati svolge tutta un’interessante analisi sul concetto di “libertà”, confutando l’uso che le “epoche dogmatiche” (come le chiama lui) hanno fatto di questa parola. In particolare, la “libertà dal male” dei cristiani, oltre che approssimativa, gli risulta forzatamente sintetica poiché sottintende tutta una serie di “in quanto” del tutto arbitrati (Dio in quanto sommo bene è somma libertà; la Chiesa in quanto depositaria della parola di Dio è somma libertà); per la “libertà dal bisogno” dei comunisti, poi, sarebbe meglio parlare di “agiatezza”.

(-) In definitiva, la vera “libertà” è la capacità di non sottoporre ad alcuna autorità, che non sia la propria coscienza, valori assoluti come il Bene, la Verità, la Bellezza. (Vitaliano Brancati, Ritorno alla censura, in La governante, Bompiani, Milano 1974)

  1. 2Corrado Brancati, Vitaliano, mio fratello, in “LA SICILIA”, 23/07/1976. Vitaliano Brancati, Gli anni perduti, Mondadori, Milano, 1976, pag.14.

3 Come risulta dai documenti dell’Archivio Storico del luogo.

  1. 4In Enzo Lauretta, Invito alla lettura di Vitaliano Brancati, Mursia, Varese, 1973, pag. 33.

5 Vanna Gazzola Stacchini, La narrativa di Vitaliano Brancati, Oleschki, Firenze, 1970, pag.5.

  1. 6Enzo Lauretta, op. cit., pag.29.

7 Sempre in Gli anni perduti, una frase che Brancati fa dire alla madre del protagonista mette in evidenza il senso di soffocamento per l’affetto eccessivo delle ma-dri siciliane: “ ‘Guardate un po’ se i bambini sono svegli!?’ Uno dei bambini sarei io, e l’altro mio fratello minore che ha venticinque anni.”

8 Vitaliano Brancati, Le due dittature, Associazione Italiana Per La Libertà Della Cultura, Roma, 1952, pag. 9.

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