Garufi, Rocambole S. P. – L’inferno delle zolfare siciliane

La selvaggia rapina del Liberismo dei mafiosi ai danni della Sicilia è la vera condanna che ci portiamo dietro da secoli.

L’inferno delle zolfare

di Rocambole Garufi

In Sicilia tutto nacque dallo sforzo di ricostruzione che seguì il terribile evento sismico dell’11 gennaio 1693. In quel momento fiorirono personalità di architetti che seppero progettare nuovi assetti urbanistici. Le esigenze di difesa attorno al castello medievale vennero sostituite con i concetti di decoro abitativo della nobiltà di toga, cioè dei funzionari al servizio dello stato centralizzato secentesco.

Già nel corso del Seicento, per il dinamismo dell’iniziativa economica, erano nati nuovi centri urbani. Cito le fondazioni di Mirabella Imbaccari nel 1681 (309 ab.), di Belpasso nel 1613 (3.763 ab.), di Mascali nel 1623 (570 ab.); ed, ancora, tutte nate nel 1651, Scordia, Camporotondo, Mascalucia, Massa Annunziata, San Pietro Clarenza, Gravina. Verso Ragusa troviamo Santacroce nel 1605 e soprattutto Vittoria nel 1616, che passò dai 691 ab. dell’anno di fondazione ai 3.950 del 1681, per arrivare ai 5.668 ab. nel 1714 (da notare che l’incremento demografico continuò anche dopo il terremoto del 1693).

Se, poi, ci spostiamo in tempi più recenti, più o meno all’epoca della Rivoluzione Industriale dell’Ottocento, scopriremo che il modello economico secentesco, dopo due secoli, era ancora quello dominante, anche se non era più vitale.

E’ da lì che si deve partire, per capire i nostri mali e individuarne le cure. Nell’Ottocento, come nel resto dell’Europa, insieme alla borghesia, ormai si formava una coscienza proletaria. Non erano più immaginabili, né i disagi lavorativi, né i biblici spostamenti di popolazione del Seicento (come, del resto, non sono immaginabili neppure oggi).

Basta guardare la letteratura dell’epoca, per capire quanto il clima fosse mutato. Per esempio, in un’incantata novella di Pirandello l’aspetto degli zolfatari è già di per se stesso un grido di protesta contro i costi umani dell’espansione industriale.

Qualche decennio dopo, Leonardo Sciascia estremizza la denuncia, raccontando di un legionario nella guerra civile spagnola, che si aruola perché la zolfara gli fa una tale paura, che, al confronto, la guerra gli sembra una scampagnata.

Neppure Nino Savarese e Gesualdo Bufalino (in un testo scritto in collaborazione con Nunzio Zago) mancano di sottolineare, il primo “il senso di maleficio” che spira dalle zolfare ed il secondo il fatto che, addirittura, “difficilmente… potrebbe essere assimilato alla condizione dell’operaio del Nord lo sfruttamento disumano degli zolfatari.”

Non va dimenticata, inoltre, la pittura di Renato Guttuso. Zolfara del 1955, per esempio, è un’opera che certamente supera la mera raffigurazione, per porsi come voce della coscienza civile, secondo i dettami dell’impegno neorealista. Lasciando, poi, il campo artistico-letterario, citerò il viaggiatore Gaston Vuillier, davvero sconvolgente nell’evidenziare l’orrore delle zolfare.

Questa sorta d’inferno dantesco significò comunque un riflesso delle grandi e progressive trasformazioni della condizione umana portate dalla Rivoluzione Industriale.

Purtroppo, ancora una volta, in questa occasione la Sicilia perse un’occasione, poiché non fu capace di inserirsi attivamente in tale processo (magari, realizzandovi le industrie per la produzione dell’acido solforico, che sarà il derivato dallo zolfo destinato ad avere le maggiori fortune).

Essa si limitò ad essere fornitrice di materia prima, accontentandosi del ruolo di colonia, tanto che, in certi periodi ed in certe zone si arrivò addirittura alla monoproduzione.

Per esempio, Massimo Lo Curzio in un saggio inserito in Le vie dello zolfo in Sicilia: storia ed architettura (Roma, Officina Edizioni, 1991) ci informa che nel 1894 su 18.437 occupati nell’Agrigentino, ben 11.031 erano zolfatari.

A ciò bisogna aggiungere il ributtante e sistematico sfruttamento dei bambini (infatti, nel citato caso della provincia di Agrigento i lavoratori al di sotto dei quindici anni rappresentavano il 24,06% della manodopera).

Forse, il male era nei presupposti, cioè nella rapacità degli investitori del tempo, se si nota che il primo vero imprenditore che propose una raffineria, per superare le crisi di sovra-produzione di zolfo, il francese Taix, tentò subito un’accentrazione da monopolista, come si evince dalla richiesta che nel 1833 inoltrò al governo borbonico.

Riuscì soltanto ad ottenere in enfiteusi perpetua un terreno demaniale presso il porto di Agrigento, per impiantarvi una macchina ermeticamente chiusa, capace di produrre zolfo raffinato e fiore di zolfo. Ma, purtuttavia, le sue intenzioni sono già esplicitative di tutto lo spietato sfruttamento che sopravvenne.

E pare che ancor oggi, al di là dei luoghi comuni, la mentalità sia sempre quella: il mero sfuttamento, senza prospettive.

Da qui la necessità di un progetto politico siciliano, a patto che si abbiano chiari in testa i termini in cui, oggi come oggi, si può parlare di rogetto politico.

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Riferimenti bibliografici: Massimo Lo Curzio in un saggio inserito in Le vie dello zolfo in Sicilia: storia ed architettura

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