Falliti il Comunismo e il Capitalismo, c’è una “terza via” per superare il degrado morale dell’assistenzialismo, cioè la “partecipazione agli utili” (altro che Reddito di Cittadinanza!)

Partecipazione agli utili

di Mario Biagioli – Enciclopedia delle scienze sociali (1996)https://www.treccani.it/ebod/resources/toolbar-full_2.0.html?t=Partecipazione%20agli%20utili%20in%20%22Enciclopedia%20delle%20scienze%20sociali%22&s=&u=https%3A%2F%2Fwww.treccani.it%2Fenciclopedia%2Fpartecipazione-agli-utili_%2528Enciclopedia-delle-scienze-sociali%2529%2F

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Partecipazione agli utiliPUBBLICITÀ

di Mario Biagioli

Partecipazione agli utili

CENNI STORICI E DEFINIZIONE

L’idea che una parte degli utili di un’impresa debba essere distribuita tra i lavoratori per premiarne i risultati e incentivarne l’impegno nasce, così come le prime esperienze di partecipazione agli utili, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo con il diffondersi della manifattura meccanizzata quale forma organizzativa privilegiata del modo di produzione capitalistico. Alcuni autori vi vedono una estensione all’industria e al terziario del contratto di mezzadria, da secoli utilizzato in agricoltura; tuttavia, è alle problematiche sollevate dall’adozione di schemi di partecipazione agli utili nell’ambito delle economie capitalistiche moderne che è dedicata questa voce.

La prima esperienza di partecipazione agli utili di cui si abbia notizia risale al 1795, quando Albert Gallatin – che in seguito sarà segretario di Stato al Tesoro degli Stati Uniti sotto la presidenza di Thomas Jefferson – istituì una forma di partecipazione agli utili alla Pennsylvania Glass Works. Contratti di partecipazione agli utili si diffusero nell’Ottocento soprattutto negli Stati Uniti (nell’anno 1899 Nicholas Gilman ne censì 34), in Francia (famoso è il decreto napoleonico emesso a Mosca il 15 ottobre 1812 che regolava la partecipazione degli attori della Comédie française agli utili di esercizio del Théâtre français; altri esperimenti di partecipazione agli utili rilevanti furono attuati alla Maison Leclaire a partire dal 1842 e alla Compagnie d’Assurances Générales, nel 1851) e nel Regno Unito (dove i primi contratti di partecipazione agli utili si ebbero nelle miniere di carbone della Cornovaglia; in essi vennero spesso inserite, ad esempio alla Kerry Briggs Son & Co. nel 1865, clausole che impegnavano i lavoratori a non aderire ad alcun sindacato).

Sul terreno dell’analisi economica un deciso sostegno alla partecipazione agli utili venne espresso da Charles Babbage, sul cui contributo ci soffermeremo più avanti, e da Johan Heinrich von Thünen (1850), il quale – per il calcolo di quello che egli definiva ‘salario naturale’ – elaborò una formula derivante dalla soluzione del problema di massimizzazione del reddito di un lavoratore che investa nell’azienda (per la quale lavora) una quota di salario in eccesso rispetto all’ammontare dei suoi consumi, ricavandone il saggio di profitto corrente.

Nel secolo successivo la partecipazione agli utili è stata osteggiata apertamente sia dai teorici dell”organizzazione scientifica del lavoro’ (Frederick Taylor gli preferiva il sistema del cottimo e Henry Ford teorizzava la superiorità del salario fisso a tempo), sia dal pensiero marxista ortodosso.

Sino alla metà del ventesimo secolo, gli schemi di partecipazione ai profitti, pur non scomparendo del tutto, costituirono delle eccezioni rispetto alle voci retributive fisse e alle forme di incentivazione basate sul cottimo. Quanto alla loro estensione, nel 1920 i piani di partecipazione agli utili censiti negli Stati Uniti dalla National Civic Federation erano comunque soltanto 46, mentre nel Regno Unito, che nella prima metà di questo secolo divenne il paese di maggiore diffusione del fenomeno, nel 1936 erano in funzione 412 schemi di partecipazione ai profitti che coinvolgevano 260.000 lavoratori (v. Dobb, 1959², p. 85). Nei tre paesi di maggiore diffusione della partecipazione agli utili vennero anche istituiti enti a sostegno di questa istituzione (in Francia già nel 1879 venne istituita la Sociéte pour l’étude pratique de la partecipation aux bénéfices) e si ebbero prese di posizione ufficiali a suo favore, come ad esempio avvenne negli Stati Uniti sul finire degli anni trenta, a seguito di un’indagine svolta da una sottocommissione del Comitato sulle finanze del Senato.

Sino ai tempi molto recenti anche la teoria economica ha trascurato, con poche eccezioni, la partecipazione ai profitti. Questo atteggiamento è dovuto alla prevalenza nel pensiero economico ortodosso del paradigma teorico walrasiano, che ha escluso dall’analisi economica tutti i fenomeni di scelta in condizione di incertezza. Nel modello di equilibrio economico generale walrasiano – caratterizzato dalle ipotesi (a) che i mercati siano perfettamente concorrenziali; (b) che gli agenti economici siano dotati di razionalità assoluta e informazione perfetta; (c) che le preferenze siano determinate esogenamente e non siano interdipendenti e (d) che i contratti siano pienamente applicati (v. Arrow e Debreu, 1954) – non c’è infatti spazio per contratti che abbiano come scopo l’incentivazione del lavoro, il rafforzamento della fiducia tra i partecipanti al contratto e la ripartizione del rischio; come vedremo, queste sono invece le ragioni d’essere della partecipazione agli utili. È solo con l’emergere di nuovi paradigmi analitici – i quali (v. Bowles e Gintis, 1993) abbandonano alcune delle assunzioni costitutive del modello di equilibrio economico generale walrasiano – che l’analisi economica della partecipazione agli utili riprende vigore: James Meade e Martin Weitzman costruiscono modelli che descrivono il funzionamento di economie caratterizzate da condizioni di concorrenza monopolistica, individuando nella partecipazione agli utili lo strumento più adatto a controbilanciare l’effetto negativo sull’occupazione causato da improvvise riduzioni della domanda effettiva.

A partire dagli anni cinquanta forme di partecipazione agli utili si sono diffuse in vari paesi. Dapprima in Giappone, successivamente in Francia, nel Regno Unito, negli Stati Uniti e, in misura minore, in Germania; spesso sostenute da interventi legislativi che stabilivano incentivi fiscali a loro favore. Negli anni ottanta si è assistito ad un’espansione lenta ma continua di forme di partecipazione agli utili in quasi tutti i paesi sviluppati, inclusa l’Italia, anche se, come vedremo, con caratterizzazioni e differenze istituzionali rilevanti tra le varie nazioni.

Pur tenendo presente la varietà di forme che la partecipazione agli utili ha assunto ed assume in diversi periodi e in differenti paesi, è opportuno far riferimento a una definizione del fenomeno. La più adatta ci sembra quella fornita dal Consiglio superiore del lavoro francese nel novembre 1923 (riportata e commentata da Luigi Einaudi: v., 1949, p. 187): “la partecipazione agli utili è un contratto in virtù del quale il datore di lavoro si impegna a distribuire, in aggiunta al pagamento del salario normale, fra i salariati della sua impresa, una parte degli utili netti, senza partecipazione alle perdite”. Da questa definizione emergono chiaramente le caratteristiche che differenziano la partecipazione agli utili da altri sistemi retributivi: la natura contrattuale, che la differenzia dalle erogazioni distribuite unilateralmente dal datore di lavoro; il carattere flessibile; l’estensione a tutti i salariati, che la differenzia dal cottimo individuale; la partecipazione agli utili e non alle perdite, che la differenzia dalla cooperazione.

LA PARTECIPAZIONE AGLI UTILI NELLA TEORIA ECONOMICA

Come già è stato sottolineato (v. § 1), la teoria economica della partecipazione agli utili si è sviluppata lungo direttrici molto diverse, tanto da spingere un autore (v. Kruse, 1993) a parlare di due differenti ‘teorie’: la ‘teoria della produttività’ (che sottolinea gli aspetti microeconomici di incentivazione attivati dalla partecipazione agli utili) e la ‘teoria della stabilità’ (che esamina gli effetti macroeconomici di stabilizzazione della domanda di lavoro). Ad esse aggiungeremo un terzo ambito di analisi teorica della partecipazione agli utili: l’analisi delle istituzioni in grado di massimizzarne gli effetti positivi e di smussare i conflitti di interesse che nascono dalla sua applicazione. Ci sembra utile esaminare le tre questioni separatamente.

Partecipazione agli utili e produttività del lavoro

Adam Smith individuò nella divisione del lavoro – determinata dall’ampliamento dei mercati di sblocco – la fonte dalla quale trae origine ogni incremento di produttività. Nel secolo successivo Charles Babbage riprese e approfondì l’impostazione smithiana, estendendo il concetto di tecnologia fino ad inserirvi anche le capacità professionali (skills) dei lavoratori. In particolare, nel capitolo The new system of manufactures aggiunto alla quarta edizione di una sua nota opera (v. Babbage, 1832; 1835⁴), egli sosteneva che l’aumento delle capacità professionali dei lavoratori e i miglioramenti dell’organizzazione del lavoro hanno un’origine – l’estensione della divisione del lavoro – e un effetto, l’aumento della produttività del lavoro, analoghi a quelli prodotti dall’introduzione di macchinari. Egli riteneva che i lavoratori dovessero essere convinti, e non costretti, ad accettare i cambiamenti; in questa prospettiva la partecipazione agli utili – unita ad una maggiore consultazione e partecipazione dei lavoratori alle decisioni relative alle condizioni di lavoro – poteva svolgere, a suo avviso, una decisiva funzione di sostegno all’innovazione e allo sviluppo tecnologico. È interessante richiamare i motivi che Babbage adduceva a sostegno della sua ipotesi, in quanto parecchi tra questi sono stati riscoperti, come vedremo, dalla letteratura più recente: a) in presenza di partecipazione agli utili i lavoratori hanno un interesse diretto alla prosperità dell’azienda; b) essi si impegneranno, quindi, nella prevenzione di ogni tipo di spreco e di cattiva gestione delle risorse e, in generale, c) per migliorare i risultati ottenuti. Inoltre, nel caso di recessioni d) i lavoratori si impegneranno a fondo per ridurre i costi di produzione; e) essi aiuteranno altresì a selezionare i nuovi assunti, rifiutando i mediocri, per preservare il livello del loro salario; f) in definitiva, attraverso la partecipazione agli utili, sarebbe possibile superare il conflitto tra padroni e lavoratori (ibid., pp. 257-258).

Tuttavia la teoria economica allora dominante abbandonò la dottrina smithiana della produzione a favore della dottrina della produttività marginale, impedendo in tal modo di proseguire lungo il terreno aperto da Babbage. Lo studio del modo in cui la produzione viene organizzata rimase praticamente al di fuori dell’analisi teorica in quanto esso implica l’analisi del fenomeno dei rendimenti di scala crescenti, che non è compatibile con l’ipotesi di concorrenza perfetta (v. Sraffa, 1926).

Nel paradigma teorico neoclassico e in una prospettiva microeconomica il contributo alla produzione di ognuno dei ‘fattori’ è esaminato separatamente e in condizioni statiche di tecniche produttive invariate. Fedele a questa impostazione, buona parte della letteratura teorica si è concentrata nell’esame dell’effetto di incentivazione dello sforzo e dell’impegno del lavoratore determinato dall’adozione di forme di partecipazione agli utili. In alcuni modelli la partecipazione agli utili viene perfino considerata controproducente in quanto si ritiene possa dar luogo a comportamenti opportunistici (free riding) da parte dei lavoratori: dal momento che gli schemi di partecipazione agli utili prevedono la ripartizione del compenso tra tutti i lavoratori, ognuno degli n lavoratori otterrà soltanto 1/n del compenso totale e quindi i singoli lavoratori potrebbero non risultare sufficientemente incentivati. A questa critica è stato tuttavia obiettato che in un contesto di ‘giochi ripetuti’ – con un rapporto di lavoro, cioè, destinato a durare nel tempo – e con il ‘monitoraggio orizzontale’ – il controllo reciproco esercitato dall’insieme dei lavoratori, gli uni nei confronti degli altri – la soluzione di impegnarsi il meno possibile è per il lavoratore piuttosto rischiosa; se anche gli altri lavoratori si comportano nel medesimo modo, tutti perderanno il premio; se invece egli è l’unico, o uno dei pochi, a non impegnarsi, potrebbe trovarsi a dover fronteggiare l’opposizione dei colleghi di lavoro o ad essere scoperto e licenziato (sulla preferenza in generale della soluzione cooperativa al cosiddetto ‘dilemma del prigioniero’ – del quale la situazione esposta non è che una applicazione – v. Axelrod, 1984).

Nella letteratura più recente si va facendo strada la convinzione che gli schemi di partecipazione agli utili costituiscano la forma di incentivazione più adatta alle forme di organizzazione del lavoro sviluppatesi in questi ultimi decenni con l’applicazione ai processi produttivi delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione: queste ultime, infatti, rendono inefficiente o troppo costoso il controllo diretto dei lavoratori e aumentano l’importanza della cooperazione al fine di massimizzare i guadagni di produttività (v. Levine, 1992). L’evoluzione del paradigma tecno-economico in direzioni diverse dai tradizionali principî ford-tayloristici ha spinto le imprese ad adottare strategie di gestione del personale fondate sulla promozione dello spirito di appartenenza all’impresa e sulla partecipazione piuttosto che sull’incentivazione dello “sforzo” (v. Gross e Bacher, 1993). Anche gli studi più recenti sull’organizzazione del lavoro pongono ormai fortemente l’accento sull’esigenza di motivare i lavoratori assicurando l’adozione di schemi retributivi che vengano percepiti dagli interessati come equi; a tal proposito si sottolinea come l’equità organizzativa dipenda non soltanto dall’equità distributiva, ma anche dall’equità procedurale, cioè dalla chiarezza, trasparenza e controllabilità delle regole fissate (v. Thibaut e Walker, 1975). Va peraltro ricordato che l’esigenza di equità era stata indicata da Hicks (v., 1932 e 1974), come un prerequisito fondamentale per il buon funzionamento di rapporti di lavoro aventi carattere continuativo. Una riflessione sull’accresciuto rilievo del concetto di equità nella teoria moderna dei contratti di lavoro, inclusi quelli di partecipazione agli utili, la si può ritrovare anche in Stiglitz (v., 1987). È possibile concludere questo elenco delle fonti di guadagni di produttività individuate dagli studi teorici sottolineando che in generale essi suggeriscono che lo schema di partecipazione agli utili sia costruito sulla base delle esigenze specifiche della singola azienda alla quale si riferisce.

Minori sforzi di ricerca sono stati dedicati all’esame degli effetti, dinamici, che la partecipazione agli utili può produrre sul progresso tecnico inducendo variazioni delle tecniche produttive. Il risultato maggiormente sottolineato dai modelli teorici sul tema è il pericolo che l’adozione di schemi di partecipazione agli utili spinga l’imprenditore a ridurre gli investimenti per non dover dividerne i frutti con i lavoratori (v. Meade, 1972 e 1986). Un comportamento siffatto rallenterebbe il ritmo di crescita del progresso tecnico “endogeno”, determinato dall’inserimento in produzione di macchinari sempre più efficienti.

La copiosa letteratura empirica sugli effetti della partecipazione agli utili – ampie rassegne degli studi esistenti sono state compiute da Weitzman e Kruse (v., 1990), Santi (v., 1989), OECD (v., 1995) ed Estrin e altri (v., 1996) – fornisce indicazioni a favore dell’ipotesi che le imprese che adottano tali schemi ottengano nella maggior parte dei casi un effetto positivo, anche se di dimensioni di solito non elevatissime sulla dinamica della produttività del lavoro.

Una linea di ricerca potenzialmente in grado di rifondare le basi microeconomiche dell’analisi di sistemi produttivi nei quali sono in atto mutamenti radicali dell’organizzazione del lavoro è l’applicazione di modelli ‘di fondi e flussi’ (v. Georgescu-Roegen, 1972 e 1976). In questi modelli progresso tecnico e progresso organizzativo sono esaminati congiuntamente: si riesce in tal modo ad evidenziare gli elementi di complementarietà nell’impiego dei fattori produttivi che sono all’origine dell’organizzazione del lavoro e del progresso tecnico, inteso come mutamento organizzativo e ricerca di nuove complementarietà. Alcune descrizioni di esperienze di partecipazione agli utili in singole imprese (ad esempio, parecchie tra quelle contenute in Vaughan-Whitehead e altri, v., 1995) suggeriscono che la fonte dell’aumento di produttività determinato dalla partecipazione agli utili risiede proprio nella possibilità di disegnare contratti mirati alla soluzione di problemi di riorganizzazione aziendale nei quali l’adesione dei lavoratori al cambiamento è incentivata con adeguati schemi di partecipazione ai risultati dell’impresa. Questa linea di ricerca è stata suggerita da Leijonhufvud (v., 1985) per il caso generale dello studio di sistemi produttivi nei quali “la crescita economica è in grado di produrre guadagni di produttività attraverso l’ampliamento della divisione del lavoro” (p. 220) ma non è stata, a nostra conoscenza, ancora recepita all’interno della teoria della partecipazione agli utili.

La fiducia reciproca come base dei contratti di partecipazione agli utili

L’idea che la partecipazione agli utili possa esplicare al meglio la sua efficacia soltanto in presenza di rapporti tra datori di lavoro e lavoratori improntati alla fiducia reciproca svolge un ruolo assai rilevante nella riflessione di Luigi Einaudi (v., 1949), che ad essa dedicò un lungo e fondamentale capitolo delle sue Lezioni di politica sociale. Innanzitutto, egli individua i requisiti essenziali della partecipazione nelle seguenti condizioni: a) che “essa risulti da una convenzione libera e volontaria, tacita o espressa, stipulata fra datore di lavoro e lavoratori”; b) che “la quota di utile sia una aggiunta al salario normale” (p. 187); c) che “la quota assegnata al lavoratore sia una quota di utili eventuali”; e d) che “la partecipazione sia agli utili e non alle perdite” (p. 188). L’utile da dividere tra datore di lavoro e lavoratori non deve però provenire né dall’esercizio di monopoli né dall’assunzione di rischi imprevedibili ma “da variazioni nell’organizzazione e nella struttura dell’impresa, […] che è la sola fonte permanente di profitti, la sola la quale sia conforme all’interesse collettivo” (p. 225). La ripartizione dei profitti con collaboratori, impiegati e operai “è subordinata alla condizione che la partecipazione agli utili degli operai sia essa stessa uno dei fattori di creazione dei profitti che si vogliono ripartire” (p. 227). A tale fine occorre: “che i partecipanti non temano dalla partecipazione alcuna conseguenza sfavorevole alle dimensioni del loro salario o stipendio normale”, né “alcuna conseguenza sfavorevole alla loro mobilità ed indipendenza morale rispetto all’impresa; che essi siano incoraggiati dalla partecipazione ad interessarsi meglio del lavoro che loro è affidato e a sentirsi parte operante dell’impresa, così da assumere eventuali iniziative di proposte e suggerimenti; infine, che essi abbiano fiducia nella dirittura morale dell’imprenditore” (p. 227).

In definitiva, “se la partecipazione deve poter funzionare bene, non può non accompagnarsi ad un certo grado di controllo da parte operaia”, che però può essere fruttuoso soltanto se attuato come “coronamento di uno stato preesistente di reciproca stima e fiducia”. La partecipazione agli utili, conclude Einaudi, “non crea la pace sociale; la rinsalda” (p. 217).

L’importanza che si istituisca un clima di relazioni industriali improntato alla fiducia reciproca tra datore di lavoro e lavoratori affinché la partecipazione agli utili possa ottenere il massimo effetto sulla produttività è centrale anche nelle analisi di James Meade e di Mario Nuti, che esamineremo più avanti, ed è stata riaffermata di recente da Mitchell (v., 1987) con riferimento alla contrattazione aziendale e al clima delle relazioni industriali, e da Brusco e altri (v., 1996; par. 1.3) nell’ambito della riflessione sui prerequisiti istituzionali necessari per il buon funzionamento della partecipazione agli utili.

L’effetto di stabilizzazione della domanda di lavoro

L’ipotesi che la partecipazione agli utili sia in grado di stabilizzare la domanda di lavoro a fronte di riduzioni della domanda è stata formulata inizialmente da Jaroslav Vanek (v., 1965 e 1970) e successivamente rielaborata da James Meade (v., 1972, 1986 e 1993) e da Martin Weitzman (v., 1982, 1984 e 1985), nell’ipotesi che le imprese operino in condizioni di concorrenza monopolistica e di rendimenti di scala crescenti. È in quest’ultima versione che la esamineremo.

Ogni impresa produrrà l’ammontare di merci per il quale costi e rendimenti marginali si eguagliano. La possibilità di ingresso di imprese concorrenti farà sì che nel punto di equilibrio anche il costo e il ricavo medio siano eguali, di modo che ogni impresa si troverà ad avere profitti nulli, nel senso che dopo aver coperto i costi di produzione e vendita non otterrà altro che il rendimento minimo necessario a remunerare l’attività dell’imprenditore. Inoltre, le curve di domanda, medie e marginali, del prodotto saranno decrescenti, in quanto l’impresa può aumentare le vendite praticando prezzi decrescenti e, per l’ipotesi di rendimenti di scala crescenti, intersecheranno la curva dei costi medi in un punto in cui anche quest’ultima è decrescente.

In condizioni di concorrenza monopolistica una caduta esogena della domanda aggregata aumenta la concorrenza di prezzo tra le imprese e le spinge a produrre di meno; di conseguenza, essendo i costi decrescenti, la produzione avrà luogo a costi unitari più elevati. Tuttavia, le forze di mercato non sono sufficienti a riportare l’occupazione al livello precedente. Poiché i costi unitari crescono a causa del ridursi della produzione, le imprese non possono ridurre i prezzi per vendere di più, anzi debbono aumentarli per coprire l’aumento dei costi. Esse reagiscono pertanto alla caduta della domanda licenziando una parte dei lavoratori; a livello aggregato la domanda risulta ulteriormente depressa, a causa dei mancati consumi dei lavoratori disoccupati. Tra l’altro, i lavoratori che rimangono disoccupati non possono neppure impiegarsi autonomamente, dando vita ad imprese di piccole dimensioni, in quanto, a causa dei rendimenti decrescenti, i costi di produzione di attività svolte su piccola scala sono più elevati. A livello aggregato qualsiasi livello di produzione al quale la caduta della domanda ha spinto l’economia diventa quindi una sorta di trappola dalla quale essa non può uscire: si manifesta così la recessione.

Ovviamente, se tutte le imprese contemporaneamente continuassero a produrre come prima e i gestori della politica economica compensassero la caduta esogena della domanda, tale recessione non avrebbe luogo. Va però sottolineato che ciò richiederebbe una perfetta preveggenza da parte dei policy-makers e un coordinamento assoluto tra le decisioni imprenditoriali, il quale sarebbe peraltro rischioso per le singole imprese che lo attuassero: se infatti le altre non lo facessero, queste si troverebbero a produrre in perdita in quanto la domanda non crescerebbe al punto di permettere loro di vendere tutta la produzione. D’altro canto, l’attuazione di politiche macroeconomiche di sostegno della domanda, in presenza di aumenti dei costi dovuti alla riduzione della scala produttiva, provocherebbe aumenti dei prezzi.

Il passaggio da sistemi a retribuzione fissa a sistemi a retribuzione variabile di partecipazione agli utili è invece in grado di stabilizzare l’economia rispetto alle cadute della domanda. Il costo marginale dell’impresa, infatti, è costituito soltanto dalle voci di costo che debbono comunque essere sostenute. La parte dei salari legata ai profitti è un costo che sarà sostenuto soltanto se vi saranno profitti, e quindi non ne fa parte; pertanto, la partecipazione ai profitti è caratterizzata da costi marginali più bassi di quelli che si avrebbero con retribuzioni fisse di pari entità. Ciò non cambia la situazione di equilibrio di lungo periodo, ma determina nel breve periodo che segue alla caduta della domanda una situazione nella quale la curva dei ricavi marginali eccede quella dei costi marginali: tale situazione modifica le reazioni delle imprese, che non riducono la produzione a seguito dello spostamento verso il basso della curva dei ricavi – come avveniva nel caso di retribuzioni fisse – fintantoché la curva dei ricavi marginali rimane al di sopra della curva dei costi marginali, in quanto una parte della caduta dei profitti attesi viene compensata dalla caduta delle retribuzioni a seguito dell’applicazione del contratto di partecipazione agli utili. Ex post, tuttavia, non si riducono né gli utili né le retribuzioni. Se la produzione non viene ridotta, gli altri elementi di costo per unità di prodotto rimangono invariati (mentre, come si è visto, essi aumenterebbero nel caso in cui si riducesse la produzione) e le imprese possono ridurre i prezzi per rilanciare le vendite senza subire perdite. Poiché non vi sono stati licenziamenti, a livello aggregato la caduta esogena della domanda non è aggravata da altre spinte recessive, e la riduzione dei prezzi esercita un effetto di sostegno della domanda aggregata esattamente come farebbe un aumento della quantità di moneta. La partecipazione agli utili permette quindi all’economia di superare disturbi esogeni che riducono la domanda senza avvitarsi in una crisi recessiva. Quando poi la caduta esogena della domanda si esaurirà, le imprese ritorneranno alla situazione di equilibrio di lungo periodo preesistente: i prezzi ritorneranno al livello iniziale, così come i profitti e le retribuzioni totali (parte fissa + parte variabile).

Weitzman ritiene che l’adozione di schemi di retribuzione basati sulla partecipazione agli utili debba essere incentivata attraverso sovvenzioni pubbliche in quanto gli operatori privati non hanno incentivi a metterla in atto; data l’ipotesi di concorrenza monopolistica, le imprese ottengono il medesimo profitto sia con retribuzioni fisse sia con contratti di partecipazione agli utili. I vantaggi forniti dal secondo sistema retributivo afferiscono all’economia nel suo complesso, non alla singola impresa.

Questa descrizione del modo in cui la partecipazione agli utili stabilizza la domanda di merci – e per questa via la domanda di lavoro che da essa deriva – è stata oggetto di una precisazione e di non poche critiche.

Riguardo alla prima, va sottolineato che il contratto tra impresa e lavoratori che sancisce il passaggio da un sistema a retribuzione fissa ad uno di partecipazione agli utili comporta un cambiamento nella struttura del rischio fronteggiato dai lavoratori: nei sistemi a retribuzione fissa i lavoratori non corrono alcun rischio riguardo al livello della loro retribuzione, ma possono perdere il posto di lavoro; nei sistemi di partecipazione agli utili si riduce per loro il rischio di perdere il posto di lavoro, ma aumenta il rischio di ricevere retribuzioni più basse di quelle previste. Perché un tale contratto sia applicato occorre pertanto che i lavoratori accettino questo cambiamento nella struttura del rischio (v. Sinclair, 1987, cap. 14).

Per quanto concerne, invece, le critiche rivolte alla teoria sopra descritta, due appaiono particolarmente rilevanti: la prima riguarda l’analisi teorica del mercato del lavoro, la seconda il campo di applicabilità delle politiche suggerite.Nel modello di Weitzman il mercato del lavoro si troverebbe continuamente in una situazione di eccesso di domanda. Nella versione che abbiamo fornito sopra, l’accento era posto sul funzionamento del mercato delle merci vendute dalla singola impresa. La domanda di lavoro è come è noto, una domanda derivata dalla domanda delle merci vendute (nel senso che la sua elasticità è il prodotto di tre elasticità: quella del prezzo di vendita della merce rispetto al salario, quella del volume delle vendite rispetto al prezzo e infine quella dell’input lavoro rispetto alla quantità di merce prodotta). Sul mercato del lavoro il ricavo ottenuto dall’impresa attraverso l’impiego dell’unità marginale di lavoro eccede il costo marginale dell’unità medesima anche in equilibrio; il mercato del lavoro si trova quindi in una situazione di eccesso di domanda. La definizione di eccesso di domanda di lavoro utilizzata da Weitzman è però assai poco ortodossa, in quanto si riferisce alle sole convenienze dell’imprenditore, misurate in termini di profitto, ma non prevede alcuna reazione del salario, laddove l’analisi tradizionale ne prevederebbe l’aumento, come conseguenza dell’eccesso di domanda di lavoro (v. Nordhaus, 1988). Alcune risposte a questa critica ipotizzano l’esistenza di un’asimmetria informativa: i lavoratori non sfruttano il potere di mercato di cui godono in quanto non si rendono conto di possederlo (v. Weitzman, Increasing…, 1985), oppure ritengono che la curva di offerta di lavoro si sposti insieme a quella di domanda (nel qual caso i lavoratori, una volta percepito il rischio di disoccupazione, ridurrebbero il prezzo di offerta del loro lavoro: v. Nordhaus, 1988). Ovviamente queste ipotesi sono incompatibili con l’assunzione walrasiana della perfetta informazione. Un’altra risposta a questa critica (v. Mitchell, 1987) travalica il terreno di analisi dell’economia per sconfinare in quello delle relazioni industriali: i lavoratori, e i loro rappresentanti sindacali, si impegnano a non utilizzare il loro potere di mercato in cambio del mantenimento di elevati livelli occupazionali.

L’altra critica avanzata contro l’ipotesi della stabilizzazione della domanda di lavoro attraverso la partecipazione agli utili è che il processo di riaggiustamento da essa descritto non può nulla né contro la disoccupazione ‘classica’ (derivante dall’esiguità dei beni capitali disponibili nell’economia rispetto al numero dei lavoratori da occupare o dall’inadeguatezza dei lavoratori disoccupati a coprire i posti di lavoro disponibili) né contro la disoccupazione ‘keynesiana’ (dovuta a carenza di domanda non risolvibile attraverso riduzioni dei salari e dei prezzi); in entrambi i casi la curva del ricavo marginale (data dal prodotto tra prezzi di vendita e quantità prodotta con l’impiego dell’ultima unità di lavoro prodotta e venduta) crolla a zero e non vi è alcun valore positivo del salario marginale in grado di compensare tale caduta (v. Nuti, 1986; v. Potestio, 1986).

Non è stato invece studiato il ruolo che la partecipazione agli utili può svolgere nel processo di formazione e riassorbimento della ‘disoccupazione tecnologica’, quella disoccupazione, cioè, che si verifica quando il processo tecnico ha luogo attraverso l’introduzione di nuove macchine che, almeno inizialmente, rendono superflui una parte dei lavoratori precedentemente impiegati. Questo tipo di disoccupazione può essere successivamente riassorbito attraverso: a) variazioni dei prezzi relativi e dei salari, che rendano la distribuzione del reddito adeguata al compito di eguagliare produzione e domanda in ogni mercato; b) aumenti della domanda reale di dimensioni sufficienti a controbilanciare gli effetti riduttivi che l’aumento della produttività del lavoro esercita, a parità delle altre condizioni, sulla domanda di lavoro; c) l’eliminazione delle discordanze tra struttura (mismatch) dell’offerta ed esigenze della domanda di lavoro indotte dal cambiamento delle modalità di produzione (per una trattazione analitica del problema in condizioni diverse dalla concorrenza perfetta, v. Sylos-Labini, 1975, 1989 e 1993). Nella misura in cui la partecipazione agli utili fosse in grado di accrescere la flessibilità dell’organizzazione aziendale e del mercato del lavoro nel recepire i mutamenti di prezzi, salari e organizzazione del lavoro indotti dal progresso tecnico, essa potrebbe favorire un più rapido riassorbimento di questo tipo di disoccupazione, ma, allo stadio attuale, questa è, come si è visto in precedenza, solo un’osservazione emergente dallo studio di alcuni casi aziendali. D’altro canto, se la partecipazione agli utili favorisce la crescita della produttività, in particolare in situazioni di cambiamento tecnologico, ciò accresce le dimensioni dell’espulsione iniziale di lavoratori dal processo produttivo.

Le indagini empiriche sulla capacità della partecipazione agli utili di stabilizzare la domanda di lavoro a fronte di cadute esogene della domanda effettiva non hanno fornito risultati univoci (v. OECD, 1995; v. Estrin e altri, 1996): ciò potrebbe però essere dovuto al fatto che spesso le condizioni ipotizzate dalla teoria – concorrenza monopolistica, rendimenti di scala crescenti, assenza di disoccupazione ‘classica’ e ‘keynesiana’ – non si verificano.

Partecipazione agli utili e democrazia economica

In questo paragrafo esamineremo la letteratura che si occupa del modo in cui la partecipazione agli utili incide sulla scelta alternativa (trade-off) tra efficienza e democrazia economica (sul significato del termine – nonché sulla letteratura relativa al concetto di democrazia economica – v. la raccolta di saggi a cura di Bowles e altri, 1993; v. Nuti, 1991; v. anche Autogestione e cogestione). L’idea che sta alla base delle analisi sulla democrazia economica è che le caratteristiche di flessibilità ed efficienza del modo di produzione capitalistico vadano combinate con istituzioni tendenti: a) al controllo dei monopoli; b) a favorire l’espansione dello ‘stato del benessere’ e determinare una distribuzione più egualitaria del reddito e della ricchezza; c) al perseguimento della piena occupazione; d) allo sviluppo di modelli partecipativi nella gestione delle imprese; e) alla promozione di valori di cooperazione e solidarietà.

Non è nostra intenzione esaminare tutte le problematiche relative alla questione della democrazia economica. Ci limiteremo a passare in rassegna tre questioni: 1) se la partecipazione agli utili debba essere affiancata da altre forme di partecipazione dei lavoratori alla formazione delle decisioni strategiche dell’impresa; 2) quali conflitti possono sorgere tra gruppi di lavoratori che abbiano differente convenienza a partecipare a tali schemi; e 3) quale rapporto vada istituito tra la partecipazione agli utili e la gestione delle politiche macroeconomiche.

Riguardo al primo problema, alcuni autori (v. Meade, 1986; v., in particolare Nuti, 1991) sostengono che alla partecipazione agli utili vadano affiancate altre forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa: a) in quanto con il passaggio da sistemi a retribuzione fissa a sistemi a retribuzione variabile i lavoratori scelgono di sopportare una parte dei rischi dell’impresa; b) in quanto si ritiene che la partecipazione agli utili riesca più facilmente ad ottenere aumenti di produttività ampliando il livello di coinvolgimento dei lavoratori nell’attività dell’impresa (Ichniowski e Shaw – v., 1995 – forniscono indicazioni empiriche a sostegno di questa ipotesi). Altri autori sostengono, al contrario, che l’intervento dei lavoratori nei processi decisionali dell’impresa rischia di ridurne l’efficienza organizzativa (v. Weitzman, 1984) e di disincentivare la propensione degli imprenditori ad investire, in quanto questi ultimi dovrebbero poi dividere con i lavoratori anche i maggiori profitti originati dagli investimenti (v. Meade, 1986; v. Summers, 1986).

Riguardo al secondo problema è stato sottolineato che il rischio sopportato dai lavoratori – con il passaggio a forme di partecipazione agli utili – muta nella forma ma non nella sostanza: in un sistema a retribuzione fissa il lavoratore rischia la perdita del posto di lavoro a seguito del verificarsi di situazioni recessive e di crisi aziendali; con il sistema della partecipazione agli utili il rischio che egli sopporta diventa quello di ottenere retribuzioni più basse in cambio di una maggiore stabilità del posto di lavoro. È probabile quindi che i lavoratori la cui occupazione è a maggior rischio preferiscano la partecipazione agli utili, mentre quelli che ritengono il loro posto di lavoro più sicuro preferiscano sistemi di retribuzione fissa (v. Meade, 1986). Questa conclusione porterebbe a differenziare la posizione dei lavoratori occupati (gli insider secondo una terminologia molto diffusa) da quella dei disoccupati (gli outsider): i primi potrebbero infatti opporsi alla partecipazione agli utili tutte le volte in cui vi ravvisino la possibilità di riduzioni salariali, anche se queste riduzioni potrebbero portare a nuove assunzioni, e quindi andare a vantaggio dei secondi (v. Summers, 1986).

Riguardo al ruolo della partecipazione agli utili nel disegno delle politiche macroeconomiche, è evidente negli scritti dei sostenitori della partecipazione agli utili il tentativo di coniugare la flessibilità retributiva – ottenuta collegando il livello delle retribuzioni contrattate in azienda agli utili dell’impresa – con l’adozione di politiche economiche keynesiane di sostegno della domanda e dell’occupazione (v. Vanek, 1965; v. Weitzman, 1986; v. Meade, 1993). In particolare, la ferma opposizione di Meade a programmi di riduzione dei salari richiama chiaramente le posizioni sostenute da Keynes (v., 1936) nel XIX capitolo della Teoria generale: “uno degli argomenti principali contro l’abbassamento dei salari monetari come strumento per ridurre il costo del lavoro e per incoraggiare in tal modo una maggiore occupazione – osserva Meade (v., 1993; tr. it., p. 56) – è che l’effetto di questo provvedimento sulle aspettative può finire per avere sull’occupazione un effetto opposto a quello desiderato. Tagli ai costi monetari dei salari possono ridurre i prezzi monetari; e l’aspettativa di prezzi monetari decrescenti può far sì che si rinviino al futuro, e così si riducano, le spese monetarie per beni e servizi […] ciò può rendere più intensa una recessione nel volume degli scambi, poiché porta a una riduzione anziché a un aumento della produzione e dell’occupazione […]. La flessibilità dei salari monetari (ottenuta attraverso l’adozione generalizzata di schemi di partecipazione agli utili) va quindi accompagnata a una politica finanziaria che si può chiamare neokeynesiana, vale a dire, un insieme di politiche monetarie e fiscali che mantengono il totale della spesa monetaria per beni e servizi prodotti internamente su una traiettoria costantemente crescente […] fintantoché vi siano ancora risorse inutilizzate”.

Come ciò sia possibile è stato esaminato nel paragrafo precedente. Va ripetuto che in condizioni di concorrenza monopolistica le singole imprese non ottengono alcun vantaggio dall’adozione di schemi di partecipazione agli utili, anzi affrontano un rischio addizionale. È allora auspicabile che il governo predisponga incentivi fiscali a favore della partecipazione agli utili, ad esempio riducendo i contributi previdenziali a carico delle imprese che li adottano. Opinioni contrarie al sostegno pubblico della partecipazione agli utili sono invece espresse dagli autori che temono che l’esistenza di un finanziamento pubblico possa spingere imprese e lavoratori a costruire contratti di partecipazione agli utili di pura facciata, e quindi incapaci di produrre quegli aumenti di produttività che, a loro avviso, rappresentano il principale vantaggio di questi contratti (v. Estrin e Wadhwani, 1990).

Gli argomenti a favore e a sfavore della partecipazione agli utili sono chiari; è però facilmente comprensibile che il peso degli uni e degli altri possa essere diverso a seconda del contesto di relazioni industriali, politiche e contrattuali esistenti nei vari paesi. Ciò potrebbe spiegare come mai le forme di partecipazione agli utili che si sono sviluppate in differenti paesi, e che verranno brevemente esaminate nel prossimo capitolo, siano così diverse.

LE DIFFERENTI ESPERIENZE NAZIONALI

La copiosa letteratura che mette a confronto le diverse esperienze nazionali di partecipazione agli utili (v. Uvalic, 1991; v. Vaughan-Whitehead, 1995; v. OECD, 1995, che contengono analisi monografiche per paese e forniscono rassegne aggiornate dell’evoluzione del fenomeno) fornisce due indicazioni interessanti: a) i tipi di schemi adottati nei differenti paesi sono molto diversi, in quanto essi sono nati e si sono sviluppati conformandosi alle istituzioni contrattuali e legislative e ai sistemi di relazioni industriali nazionali; b) il numero dei contratti di partecipazione agli utili e dei lavoratori in essi coinvolti sta crescendo dall’inizio degli anni ottanta in molte tra le principali economie capitalistiche sviluppate, in particolare tra quelle europee. Una breve panoramica su alcune caratteristiche delle esperienze nazionali può consentire una migliore comprensione di queste indicazioni.

I paesi nei quali i contratti di partecipazione agli utili incontrano una maggiore diffusione sono: Giappone, Messico, Stati Uniti, Canada, Francia, Regno Unito, Germania, Olanda e Italia. In essi almeno il 5% dei lavoratori percepisce quote della retribuzione collegate agli utili dell’impresa. Il sistema dei premi collegati agli utili è adottato da buona parte delle imprese giapponesi, per cui alcuni ritengono il Giappone la patria della partecipazione agli utili. Tale sistema si diffuse negli anni cinquanta come tentativo delle direzioni aziendali di tenere a freno un potenziale di conflittualità sindacale allora piuttosto temuto. In molti casi, tuttavia, tali premi, che godono di un trattamento fiscale privilegiato, sono distribuiti senza fare riferimento a una precisa formula di calcolo, ed è quindi dubbio che rientrino nella categoria della partecipazione agli utili. Intesa in questo senso più restrittivo, la partecipazione agli utili era adottata nel 1983 dal 15% delle imprese giapponesi e copriva il 30% dei lavoratori. Le percentuali più elevate di lavoratori interessati alla partecipazione agli utili si riscontrano in Messico, dove tali contratti sono stati resi obbligatori per legge dal 1985. La partecipazione agli utili è molto diffusa – e incentivata tramite concessioni fiscali – anche in Canada, dove all’inizio degli anni novanta interessava quasi il 20% dei lavoratori, percentuale doppia rispetto a dieci anni prima. Negli Stati Uniti l’acquisto di azioni da parte dei lavoratori (ESOPs) è stato incentivato con concessioni fiscali a partire dalla metà degli anni settanta ed interessa all’incirca il 3% dei lavoratori. Nella prima parte degli anni ottanta si sono diffuse forme di partecipazione agli utili in sostituzione di quote fisse di retribuzione che hanno avuto l’effetto di rendere i salari flessibili verso il basso nella fase recessiva allora in atto, e sono arrivati a coinvolgere quasi il 10% dei lavoratori industriali.

Passando ai paesi europei, in Francia la partecipazione agli utili si è molto diffusa nel dopoguerra sotto l’impulso di misure legislative iniziate con l’Ordonnance del gennaio 1959. Sono previste forme di partecipazione agli utili con pagamento differito nel tempo (partecipation aux fruits de l’entreprise) obbligatorie per tutte le imprese con più di 50 addetti e forme di partecipazione con pagamento immediato (intéressement) volontarie. Entrambe godono di sgravi fiscali e contributivi. Nel complesso la partecipazione agli utili nel 1992 era applicata in più di 20.000 imprese e interessava 6,6 milioni di lavoratori. Nel Regno Unito sono previsti parecchi schemi alternativi di partecipazione agli utili che comportano trattamenti fiscali privilegiati: le forme maggiormente diffuse sono quelle che prevedono la distribuzione di azioni ai dipendenti, spesso a condizioni privilegiate, con l’obbligo di non rivenderle per alcuni anni. Nel 1992 quasi 10.000 aziende del Regno Unito attuavano qualche forma di partecipazione agli utili, coinvolgendo oltre 2 milioni di lavoratori. In Germania la partecipazione agli utili è attuata quasi esclusivamente in combinazione con forme di azionariato dei dipendenti nel quadro del sistema di cogestione ivi operante, consente vantaggi fiscali e interessa circa 1.660 imprese, con 1,3 milioni di lavoratori coinvolti.

La partecipazione agli utili è stata praticamente assente in Italia fino alla seconda metà degli anni ottanta, quando un consistente numero di aziende, stimate sul finire del 1990 in circa 300, con all’incirca 900.000 lavoratori interessati, ha inserito nei tradizionali contratti integrativi aziendali voci retributive che in forme varie collegavano le retribuzioni ai risultati economici dell’impresa. A differenza degli altri paesi europei, l’esperienza italiana di partecipazione agli utili si è sviluppata come parte della contrattazione sindacale e senza alcun bisogno di incentivi pubblici. Successivamente, l’accordo tripartito tra governo, associazioni datoriali e associazioni sindacali “sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo” del 23 luglio 1993 ha stabilito il principio che “le erogazioni del livello di contrattazione aziendale siano strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità e altri elementi di competitività, nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa”. Le prime informazioni che si hanno sulla contrattazione aziendale successiva a questo accordo indicano che la contrattazione di voci retributive legate ai risultati dell’impresa tende ad assumere dimensioni più elevate rispetto a quella delle tradizionali voci retributive fisse.

Parecchi tra gli schemi adottati nei vari paesi si trovano in realtà al limite tra partecipazione agli utili e altre forme di retribuzione variabile e partecipazione dei lavoratori al capitale azionario. Nei già citati rapporti dei principali istituti di ricerca sull’argomento si è preso atto di questa realtà e si tende ormai ad ampliare la definizione del fenomeno fino a comprendervi tutti gli elementi retributivi che comportano forme di partecipazione finanziaria dei lavoratori ai risultati economici delle imprese. Facendo riferimento a tale definizione, il Consiglio delle Comunità Europee ha emesso il 27 luglio 1992 una raccomandazione agli Stati membri per la promozione della partecipazione dei lavoratori subordinati ai profitti e ai risultati dell’impresa.

ALCUNE CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Nel corso degli ultimi due decenni la crescente intensificazione dei fenomeni di globalizzazione, produttiva e finanziaria, dell’economia mondiale e il superamento del paradigma tecno-economico fordista a seguito dell’espansione della tecnologia dell’informazione (v. Freeman e Soete, 1994) hanno comportato un rilevante aumento del grado di incertezza sopportato dalle imprese e hanno dato forza alle richieste di aumentare il grado di flessibilità – ossia, la capacità e rapidità nel reagire a situazioni di squilibrio (v. OECD, 1985) – dei mercati del lavoro. Flessibilità è però cosa ben diversa dal mero contenimento delle retribuzioni. Il rigore salariale, unito all’aumento dell’incertezza di mercati le cui dimensioni si estendono ormai a livello mondiale, può facilmente produrre recessione, caduta degli investimenti e deterioramento delle prospettive di crescita futura (per una trattazione teorica della questione, v. Malinvaud, 1986).

La partecipazione agli utili potrebbe fornire la flessibilità salariale e, in combinazione con le altre forme di partecipazione, anche la flessibilità funzionale, necessarie a far fronte a cadute esogene della domanda senza che ciò comporti il permanere di bassi salari al variare del ciclo economico: la quota retributiva legata agli utili si riduce al cadere dei profitti, ma riprende immediatamente a crescere al momento della ripresa. L’analisi teorica indica però che la partecipazione agli utili è inefficace a fronte di situazioni di disoccupazione ‘keynesiane’, ‘classiche’ e di dubbia efficacia rispetto alla disoccupazione tecnologica; occorre quindi che ad essa si accompagnino politiche macroeconomiche in grado di contrastare le tendenze recessive di tipo keynesiano e politiche industriali e politiche di formazione e di riqualificazione dei lavoratori che eliminino le eventuali carenze di capitale, fisico e umano, che possono dar luogo a situazioni di disoccupazione classica e ridurre l’impatto della disoccupazione tecnologica.

Inoltre, l’analisi empirica sembra indicare che l’adozione di schemi di partecipazione agli utili favorisce l’aumento della produttività del lavoro. Perché ciò accada, tuttavia, occorre che gli schemi di partecipazione finanziaria siano formulati con riferimento alle specificità delle singole aziende e, spesso, che siano adottati in combinazione con altre forme di partecipazione e codeterminazione. Rimane, comunque, decisivo ciò che Luigi Einaudi scriveva cinquanta anni fa, e che James Meade non si è stancato di ripetere nei numerosissimi contributi dedicati all’argomento: l’adozione di schemi di partecipazione finanziaria è possibile soltanto in paesi dotati di modelli di relazioni industriali improntati alla fiducia reciproca piuttosto che al conflitto.

(V. anche Autogestione e cogestioneCapitalismoConcorrenzaCooperazioneDistribuzione della ricchezza e del redditoEconomia e politica del lavoroMonopolio e politiche antimonopolisticheOperaiProfittoSalari e stipendi).

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