Due sonetti militellesi di Vitaliano Brancati, tra fascismo e disagio esistenziale – di Rocambole Garufi

Due sonetti militellesi di Vitaliano Brancati

di Rocambole Garufi

Come tanti siciliani del suo secolo, Vitaliano Brancati impiegò tutti i suoi giorni soprattutto per spiegarci chi era.

Fu così che la sua scrittura finì per lievitare con il crescente impazzito delle polemiche e delle abiure. Alla fine, la conclusione di tanta sicula camurrìa si concretizzò nella rappresentazione impietosa di un’Italietta – o, se preferite, di una Sicilietta – meschina e ipocritamente perbenista.

Così, egli disse di essere “un buon laico all’antica, con la libertà come unico valore”. Sull’argomento, perciò, fece un’interessante analisi del concetto di Libertà, confutando l’uso che ne fanno “le epoche dogmatiche”.

In particolare, la “libertà dal male” dei cristiani, oltre che approssimativa gli risultò forzatamente sintetica, perché sottintendeva tutta una serie di in quanto arbitrari: Dio, in quanto sommo bene, è somma libertà; la Chiesa, in quanto depositaria della parola di Dio, è somma libertà. Per la “libertà dal bisogno” dei comunisti, poi, sarebbe meglio parlare di agiatezza.

Per conseguenza, la vera libertà non è partecipazione, come cantava Giorgio Gaber. Ma:

“La libertà è la capacità di non sottoporre a nessuna autorità, che non sia la propria coscienza, valori assoluti come il Bene, la Verità, la Bellezza.”1

In questo, forse, un elemento decisivo fu il mito mediterraneo della Grande Madre da sempre presente nel suo ambiente d’origine, mito che ha attraversato i secoli, cambiando pirandellianamente di aspetto col variare delle bolle ideologiche che costituiscono la storia.

Vitaliano Brancati, infatti, nacque a Pachino, nell’estremo Sud della Sicilia, il 24 luglio 1907, da Maria Antonietta Ciàvola e da Rosario Brancati. Quest’ultimo esercitava la professione di avvocato. Ma, ricoprì pure importanti incarichi pubblici. Fu, per esempio, in pieno periodo fascista Podestà a Militello in Val di Catania, dove l’adolescente Vitaliano scrisse due poesie giovanili.

Sulla mentalità di questi suoi genitori, c’è il racconto del fratello Corrado, in un articolo apparso sul giornale “La Sicilia”:

Mio padre, funzionario assai rigido (ancora lo ricordano) di Prefettura, era allora molto noto per gli articoli che pubblicava con lo pseudonimo Il Ghirlandaio nel vecchio “Giornale dell’Isola” di Catania, fondato, mi pare, dai fratelli Carnazza, uomini politici assai noti, uno dei quali Gabriello, avvocato di vasta rinomanza, fu anche ministro.

Scriveva anche novelle che piacevano molto alle donne e che risentivano delle letture di Gabriele d’Annunzio di cui mio padre era fervente ammiratore, tanto da tenere nello studio un grande ritratto dello scrittore. Nella biblioteca paterna, accanto a tutti i libri di d’Annunzio, si ammassavano libri di politica, di diritto, in gran numero, romanzi: di Tolstoj, di Dostojevzski, di Turghenev, di Bourget, di Balzac, di Zola, di Prevost, di Maupassant, sono quelli che ricordo, oltre ai molti classici italiani, da Manzoni a Carducci, a Pascoli e ai romanzi d’attualità come quelli di Guido da Verona.

Mia madre, che idolatrava mio fratello affettuosamente ricambiata da Vitaliano, era una bravissima donna di casa, che si sacrificò molto per la famiglia…”2

Come si vede, i miti dell’epoca ci sono tutti e ci ballano davanti. Il padre rigido educatore e notabile di provincia – come ricorda ancora qualche vecchio con cui ho parlato – aveva le sue velleità intellettuali che poi nel Brancati maturo saranno l’oggetto principale della sua satira; la madre, traboccante amore pitonesco, perpetuava l’isteria del matriarcato siciliano, continuando – appunto! – il mito della Grande Madre – fra l’altro, localmente molto presente con la particolare devozione per la Madonna della Stella -.

Sulla madre, in particolare, lo stesso Brancati scriverà:

Oh, le mamme sono le nostre peggiori nemiche – osservò Rodolfo De Mai. – Queste mamme siciliane che fanno i figli e poi se li mangiano. –

Rodolfo! – gridò la signora Careni.- Non si parla così con una madre! Che screanzato, Dio Santo!

Non è vero, forse? Mia madre da dieci anni, vale a dire dalla sera in cui presi l’abitudine di andar fuori, mi dice sempre: “Rodolfo, mammuccia tua, non rincasare tardi!” ed io rispondo: “Ma ti pare?” Dieci anni di “Rodolfo, mammuccia tua, non rincasare tardi!” e dieci anni di “Ma ti pare?” sono qualcosa che fa pensare. Ma, il sogno di mia madre è che questo possa durare ancora trent’anni. –“3

L’unica persona in famiglia con la quale Brancati riuscì a legare ed a raggiungere il “perfetto accordo”, fu il nonno materno, che, quando nel 1933 morì, gli fece scrivere:

Sapevo bene che l’uomo non muore tutto in una volta, ma età per età, e sapevo che le età dell’uomo sono due: la fanciullezza e la maturità. Quell’anno non s’era vista un’ala nel cielo, e la mia prima età era morta. Mi rimaneva ancora un’altra età: il tempo per essere onesti, per essere veritieri, e soprattutto semplici, io l’avevo ancora. Ma una parte della mia vita era terminata, uno dei miei occhi s’era chiuso per sempre.4

Non parrebbe, però, che la figura del nonno fosse destinata ad avere un’eccessiva importanza nella formazione del carattere del nostro scrittore, né tanto meno nell’evoluzione della sua arte, se non come cantuccio di raccoglimento quando gli eventi e la stanchezza impongono una pausa.

Nel complesso, forse questo vecchio è da ravvisare soltanto in certe figure di anziani di alcuni romanzi – per esempio, lo zio di Antonio ne Il bell’Antonio -, che rappresenteranno un angolo riservato alla saggezza e alla meditazione, un po’ come i cori nelle Tragedie di Alessandro Manzoni.

La fanciullezza di Brancati, quindi, nel complesso fu abbastanza normale, in parte vissuta nel ristretto ambiente di Militello in Val di Catania, dove, i suoi successi scolastici gli procurarono le diffidenze dei rozzi e mediocri coetanei. Ne ho avuto il sospetto perché in nessuna delle persone che conobbero la sua famiglia ho trovato parole che non fossero di antipatia, o di rancore – si a ‘mmidia avissa a vàddira, dice un proverbio sul posto molto citato, fùssimu tutti vaddarusi! Stesso trattamento, infatti, oggi lo si vede riservato a tutti i personaggi militellesi che, in qualche modo, hanno avuto successo: dal presentatore televisivo Pippo Baudo, ai politici Nello Musumeci e Giovanni Burtone -.

E questo, in sostanza, spiega l’accanimento con cui lo scrittore ridicolizzò il bullismo erotico dei compagni di infanzia nei romanzi Don Giovanni in Sicilia, Il Bell’Antonio e Paolo il Caldo.

Brancati rese visibile il loro fallimento esistenziale, con significati che vanno ben al di là del semplice teatro catanese per arrivare a rappresentare una universale impotenza a vivere dei provinciali di tutto il mondo.

Così, a diciassette anni Vitaliano Brancati, probabilmente per reazione, fece il suo esordio in politica iscrivendosi al Partito Nazionale Fascista il 4 febbraio 1924.

Più tardi, nel 1929, si laureò in Lettere col massimo dei voti e la lode, discutendo una tesi su Federico De Roberto, tesi che in un secondo momento rinnegò insieme a tutti gli altri scritti fascisti.

La crisi ideologica arrivò nel 1933, forse occasionata da una lettera del Borgese dell’8 luglio 1933.5

Il giovanile impegno di Brancati, però, pur legato ai furori stilistici del nazionalismo, non mi pare molto distante da quello espresso nell’opera più matura. C’è lo stesso disgusto per il gretto economicismo e per il servilismo di una Sicilia che vive a rimorchio di fatti storici che gli sono estranei.

Quale fu allora il moto interiore che spinse Brancati ad aderire al fascismo? Fu l’ambiente familiare? Fu la bulimia di vita di Gabriele D’Annunzio? O fu La noia, come la descrisse Alberto Moravia? O il rifiuto dell’inetto tratteggiato da Italo Svevo? O l’anonimato globale a cui l’evoluzione finanziaria del capitalismo si avviava a condannare il mondo? O gli astratti furori del coevo Elio Vittorini? O l’orrore per il mestiere di vivere del povero Cesare Pavese?

Leggiamo la Stacchini:

Tale scelta ebbe un carattere di reazione alle condizioni di vita nella sua isola, la cui storia era tendente ad un immobilismo che non poteva non riflettersi nella coscienza e nel cuore dei suoi abitanti; in questo senso, la sua reazione ebbe un significato assai più profondo di quello datogli dalla borghesia italiana in genere, annoiata e nello stesso tempo spaventata dal nuovo. Brancati cercava il nuovo, invece, come superamento, anche non coscientemente, di quelle condizioni metastoriche siciliane, del senso di vuoto che derivava dalla posizione di isolato; perciò dirà di questo tempo: In certe epoche non bisognerebbe mai avere vent’anni.”6

Ma, sullo stesso tema, si è espresso pure Enzo Lauretta:

A 17 anni Brancati, per quanto maturo fosse, non s’era ancor posto alcun problema sociale, né credo avesse coscienza, neppure a livello epidermico, delle condizioni meta-storiche dell’isola. Non c’è un solo rigo che stia a dimostrarlo.7

E ancora:

Certo il desiderio di novità giocò la sua valida carta, ma più che un desiderio di rottura per le condizioni dell’isola, a spingerlo verso il fascismo fu il tipico atteggiamento dell’intellettuale tutto impregnato di cultura decadente.

Io, invece, penso che a portare Brancati al fascismo fu semplicemente l’egemonia culturale della filosofia dell’atto puro elaborata da Giovanni Gentile (già studioso dell’opera di Carlo Marx), che poi con Antonio Gramsci si travestì da filosofia della prassi, arrivando a proporre un’egemonia culturale nazional-popolare, che nell’editoria e nei mass-media di oggi significa, soprattutto, tenere il cuore a Sinistra ed il portafogli a Destra.

Questo paradosso politico, così, vorrebbe il titolo pirandelliano della commedia Ma non è una cosa seria. Nella più varia realtà e nel teatro dell’agrigentino, infatti, la parola prevarica i fatti.: basta dirsi di Sinistra per essere nei fatti un reazionario di Destra.

Così, in Pirandello un signore dai facili innamoramenti sposava una sciatta padrona di albergo per salvarsi dai pericoli matrimoniali dei suoi provvisori entusiasmi sentimentali. Qui, dei sistemi ideologici si prendono tutte le caratteristiche dell’intolleranza – come il dire che nel nemico c’è soltanto barbarie, o chiamare rigurgito fascista ogni contestazione al Sistema.

Fascismo ed antifascismo di Vitaliano Brancati, perciò, più probabilmente, avevano la stessa origine nell’orrore per la paradossale scomparsa del pensiero critico in tempi di controllo delle masse. Era, in altre parole, l’agitarsi dell’indivividuo polverizzato nel neo-paleolitico globale contemporaneo.

Per questo, egli parlò della vittoria dell’uomo attivo sul pensatore. Il regime fascista – come poi quello comunista e come oggi quello nihilista-liberista – ne fece il cuore della propria propaganda. E la sotto-cultura di massa è la vera novità dell’epoca contemporanea.

Lo stesso Brancati lo chiarì inequivocabilmente:

Secondo me la risposta si trova nella scarsa vitalità di cui dispone la nostra epoca, la vitalità di un uomo può assumere una forma così poco indipendente e individuale da riuscire veramente a moltiplicarsi a contatto con la vitalità di altri uomini. Udire il proprio passo nel rumore generale di altre migliaia di passi esalta come se quel fragore venisse tutto dal nostro piede. Ci si sente elevati alla massima potenza proprio nel momento in cui non si conta più nulla.

E ancora:

Cosa farà lo stupido per provare l’ebbrezza del genio? Farà massa. Così, urlando lo stesso urlo insieme a centomila altri, crederà che l’umanità intera parli dalla sua bocca spalancata.8

Ma, che cos’è la vita, se non il bisogno di muoversi, di fare qualcosa per cambiare le nostre condizioni? O, se più vi piace, la loro qualità? Cosa significa, perciò, restringere l’universale a misura dell’Io, se non salvare il proprio Io tout court?

L’ideologia di Brancati, sia nella prima che nella seconda parte della sua vita, fu, in definitiva, il frutto di un’educazione piccolo-borghese, che, oltre a creargli un preciso sistema di problematiche, gli suggerì pure le risposte da cercare.

Il palliativo delle certezze già pronte e cucinate, però, non poteva durare a lungo. Infatti, dolorosa come tutte le fasi di passaggio – e, come queste, pure ambigua -, ben presto arrivò la crisi:

Nell’agosto del 1932 appare un suo racconto (Nella mia ombra) nel quale si adombra un inizio di crisi nelle fiducie umane che sembra derivare da una crisi ideologica: un senso di angoscia per la precarietà della vita, un senso di solitudine. A questo momento deve corrispondere la spaccatura del suo mondo spirituale, tanto più in quanto in esso Brancati aveva creduto di soddisfare quell’io collettivo che era stato frustrato (di questa gioia perduta è forse il riflesso della luce che improvvisamente abbandona Leonardo ne Gli anni perduti).”9

Questo avvio di crisi non fu passeggero e portò Brancati lontano, a soluzioni addirittura opposte. Il suo allontanamento dal gusto ufficiale si fece man mano più marcato.

Nel dopoguerra si trovò agli antipodi della sua posizione iniziale. Da spregiatore del pensiero per l’azione diventò squisitamente speculativo e il disprezzo per la filosofia di Benedetto Croce si trasformò in devozione – lesse Antonio Gramsci per contestarlo e preferirgli Benedetto Croce. Così. per analizzare opera per opera il suo percorso di scrittore, credo non inutile riportare in nota un lungo intervento bio-bibliografco di Lucia Di Maio.10

Apparentemente, però, le opere di Vitaliano Brancati non sono riconducibili ad un modello uniforme. In tutto il suo arco narrativo, grosso modo, si possono enucleare tre periodi:

a) Quello “fascista”;

b) quello dei capolavori dell’ironia e della sensualità;

c) quello della lussuria cupa.

Sarebbe sbagliato, però, spezzettarle in tre cicli definiti e conclusi, totalmente staccati l’uno dall’altro. A ben vedere, seguendone l’evoluzione, ci si accorge presto che – allo stesso modo della sua ideologia -, il suo, fu un continuo adeguare la risposta al problema esistenziale che affligge la Sicilia della Piana di Catania: il tentativo di superare – attraverso momenti diversi e contraddittori – un’immobilità di fondo.

Conseguentemente, in una Antologia militellana, pubblicata da un don Mario Ventura – volenteroso, ma confusionario storico locale -, vengono riportati due sonetti del 1923, precedentemente pubblicati da Giovanna Finocchiaro Chimirri.

Putroppo, non sono in condizione di assicurare la correttezza della trascrizione, avendo conosciuto il nostro don Mario Ventura e sapendone l’approssimazione espositiva:

A Militello

O Militello, terra mia gloriosa,

di condottieri culla e di sottili

ingegni, fra le mura antiche ascosa,

tua gloria vedo di opre tue virili.

Chiamata fosti un dì la Bellicosa

intrepida fra le contrade ostili

benessere portasti d’operosa

e nobil stirpe di virtù civili.

Ed oggi ancor di te vestigia fieri

di allor ti cingon la vetusta fronte,

i figli dell’arte son nocchieri

e bevver molti alla tua viva fonte

giovani dotti, baldi cavalieri,

portando ovunque le romane impronte.

Nel secondo sonetto, invece si abbandonano gli echi classichegganti alla Giosuè Carducci (in quegli anni molto di moda in provincia, tanto da rappresentare la caratteristica di un coevo poeta militellese, Enrico Fagone, che acquisì lo pseudonimo di Giosuà Sparito), per un più pensoso e precocemente disincantato riferimento a Giovanni Pascoli:

Autunno

(nella valle di Lordiero)

Dentro il sommesso gemito dell’onda

si chiude un sogno musicale e lento,

brilla il cielo lontano tra fronda e fronda

vago di non so quale incantamento.

Più roco canta dentro la profonda

selva di pini e di cipressi il vento,

cade silente qualche foglia bionda.

Tutto muor con tenue lamento

su le siepi serrate ad oriente

sboccia la Luna. Simile ad un altare

levasi un poggio verde, vagamente

canta sui colli l’autunno e il mare

riproduce il miracolo del cielo

dove l’oro incomincia a dileguare.11

Questa poesia ha una musicalità lenta e solenne (in verità, più vicina al Giosuè Carducci de Il bove), che, però, forse non sarebbe dispiaciuta al Gabriele d’Annunzio di La pioggia nel pineto.

In ogni caso, appartiene a un filone di trasognata meditazione sullo scorrere delle manifestazioni della natura. Bellezza provvisoria che il tempo sostiene e poi recide, simbolo della bellezza giovanile delle dinastie umane, così come già la cantò l’immenso Omero mettendo sulla bocca dell’eroe troiano Glauco queste parole:

Magnanimo Tidìde, a che dimandi

il mio lignaggio? Quale delle foglie,

tale è la stirpe degli uomini. Il vento

brumal li sparge a terra, e le ricrea

la germogliante selva a primavera.

Così l’uom nasce, così muor…12

Subito dopo, Brancati iniziò la sua vera carriera di scrittore con tre opere teatrali, scritte tra il 1924 de il 1928: Fedor, Everest Piave.

Tutt’e tre questi drammi non spiccano affatto né per pregi d’arte, né per profondità di contenuti. A dettarli, in perfetta continuazione con gli ideali classicheggianti dei sonetti, è la sua entusiastica adesione al fascismo, come ha già messo in evidenza la Jannuzzi:

La forza fisica gli sembra addirittura la condizione indispensabile per ogni qualità virile, e scarta baldanzosamente tutto ciò che induce alla riflessione, non esclusi i libri di Croce13

Avendo vissuto buona parte della mia vita negli stessi luoghi del giovane Brancati, probabilmente annoiato come lui – o, più probabilmente, gregario rispetto al particolare bullismo che vi imperversa – non addebiterei al fascismo questo suo culto della forza fisica. Una lunga abitudine alla sconfitta ed al servaggio, infatti, ci ha resi più ammiratori della forza che forti. Come tutti i Sancio Panza siamo le scimmie dei don Chisciotte del Potere: ne copiamo i modi senza capirne i contenuti.

Nella novella L’amante di Gramigna Giovanni Verga chiarisce bene questo concetto, raccontandoci di una ragazza di Licodia Eubea che si innamora di un brigante soltanto in base alla sua fama di imprendibile. Diventane l’amante, quando Gramigna viene ucciso dai carabinieri in un conflitto a fuoco, ella passerà il resto della sua vita a rendere un sostanziale omaggio alla forza che ha saputo essere più forte del suo uomo.

Nella provincia siciliana, quindi, è molto comune l’idea che la forza trovi in se stessa la sua giustificazione. Da qui le tante guerre di campanili, una certa impassibilità culturale e morale e – se si guarda proprio in fondo – la stessa mafia.

Spesso, noi siciliani organizziamo un nostro personale universo, del tutto estraneo alle idee che agitano il resto del mondo. Apparentemente assomigliamo ai personaggi della commedia romanesca, ma non abbiamo la loro auto-ironia -. Siamo permalosi nella forma e accomodanti nella sostanza.

Anche per i siciliani, perciò, tutti gli uomini vivono in un involucro simile a quello del sonetto Er paradiso di Giuseppe Gioacchino Belli:

No, Reggina mia bella, in paradiso

nun perdi tempo co gnissun lavoro:

nun ce trovi antro che violini, riso,

e pandecèlo, ciovè pane d’oro.

Là, a dà udienza ar giudìo, pòzz’èsse acciso!,

nun ce mettono er becco antro che loro;

como si tutto quanto sto tesoro

fussi fatto pe un cazzo circonciso.

Ecco che dice sto giudìo scontento:

Sopra li leggi vecchi, mortivòi,

per vita mia!, sta tutto el fonnamènto.”

Ma lui non sa che Gesucristo poi

per morì fece un antro testamento,

e ‘r paradiso l’ha lassato a noi.14

Invece, il culto della forza nel fascismo è stato un’altra cosa. Esso nacque dalla teorizzazione della “violenza chirurgica” del socialista – seguace di Georges Sorel – Benito Amilcare Andrea Mussolini.

Ciò che, però, rende interessante il Brancati degli inizi è, quindi, proprio il sonetto Atunno, dove, per nulla a favore e per nulla in contrasto con l’ideologia fascista, si intravede un’elegiaca malinconia e si apprezza l’elegante tecnica simbolista – anzi, addirittura impressionista – nel rappresentare la natura, le cose e gli uomini.

Anche nel dramma Piave ambientato nel 1917, durante la disfatta di Caporetto, Brancati ha un momento di pensosità, tanto da far dire al protagonista, il disertore Giovanni Dini:

Chi vincerà, in questa guerra, non sarà più felice di chi resterà vinto; l’Italia, specialmente, anche se vittoriosa, cadrà nel più oscuro disordine.

Ma, subito dopo, Brancati si riprende e fa stringere le fila ai suoi personaggi – compreso il disertore, naturalmente – di fronte al pericolo che corre la Patria. Così, essi – tutti per uno! – dichiarano che il nemico non passerà.

E’ facile dire che lo stile di quest’opera sia tronfio e traboccante retorica, tutto imbevuto di dannunzianesimo – come dannunziane erano le novelle del padre, e tutto affidato nei contenuti alla trovata finale e all’ingegnoso incastro delle situazioni.

Così, riferendosi a questo periodo, lo scrittore in Ritorno alla censura lo definirà:

Un lampo di cretineria o un momento di ubriachezza fanatica15

Per Piave, poi, userà questa lapidaria definizione:

Una commedia perfettamente sciocca che dal 1936 mi fa arrossire.”16

Una grande rilevanza, ai fini della comprensione della futura poetica di Vitaliano Brancati, poi, ebbe il suo romanzo giovanile L’amico del vincitore (oggi introvabile tanto da toccare su Amazon la quotazione da 288 euro in su).

In esso i motivi sono ancora quelli fascisti della vittoria dell’uomo d’azione sul pensatore, o, se volete, della determinazione sull’intelligenza. Per spiegarmi meglio, ricorrerò al lessico siciliano, in particolare a quello di Militello in Val di Catania. Lì, la qualità di un uomo – l’intelligenza, o almeno la furbizia – si misurava e si misura sulla parola spertu, cioè esperto (della vita e dei suoi inganni). In un certo senso, il termine ha più a che fare con la truffa che con le capacità intellettuali. L’italiano interpretato da Alberto Sordi, in un’epoca di parassiti come la nostra, è dieci volte più vincente dell’italiano di Dante Alighieri e Leopardi messi insieme.

Per il siciliano in genere, da secoli la vita è diventata una perigliosa navigazione – cu futti futti, Diu perdona tutti! –, dove, più della conoscenza, vale la guicciardiniana capacità di tirar fuori un utile per sé – o, più dottamente, il proprio particulare –. Spertu è il Mazzarò della verghiana novella La roba, o Consalvo, il protagonista dei Vicerè di Federico De Roberto – e proprio su questo autore Brancati aveva scritto la sua tesi di laurea -. Spertu è, soprattutto, il Principe di Salina, che ne Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa dice al nipote:

Bisogna cambiare tutto, affinché tutto resti come prima.”

Anche se poi, nei fatti, questo resta soltanto un proposito, che non si traduce in realtà – perciò io preferisco parlare di abbaglio della politica siciliana -. Nella realtà raccontata da Lampedusa, infatti, cambia tutto e l’aristocrazia post-unitaria verrà sostituita dai massari, forti della loro ignoranza e della loro ricchezza.

Il succo della frase del Principe di Salina mi ricorda, invece, ciò che mi disse un amico, poi morto ammazzato per questioni di debiti:

Nuautri, prufissuri, a nostra ‘gnuranza ci tinemmu!

In L’amico del vincitore, quindi, Brancati aggiorna sicilianamente il mito fascista – ma non soltanto fascista, ma pure comunista e pure americano – della vittoria dell’uomo d’azione sul pensatore, in armonia con la mentalità del colonialismo inglese rappresentata dal Robinson Crusoe di Daniel Defoe -. Era il frutto della filosofia positivista inglese, tutto questo, a volerci seriamente riflettere.

Così, il protagonista, Pietro Dellini, già presenta la caratteristica principale dei personaggi delle opere mature: il velleitarismo.

A proposito di quest’opera Enzo Lauretta – rara avis – è riuscito a scrivere qualcosa di interessante, almeno, riferendoci agli anni militellesi dello scrittore:

Il romanzo contiene pagine che richiamano la fanciullezza di Vitaliano (e annunciano sotto questo aspetto la fanciullezza di un altro personaggio toccato dalla sensualità, quello di “don” Giovanni Percolla), le prime eccitate sensazioni, i primi pudori, il disgusto nello scoprire la brutalità del rapporto sessuale, persino una specie di rancore nei riguardi della madre che, nella narrazione, col suo egoismo spinge il personaggio di Pietro a inseguire sogni proibiti che finiscono col respingerlo in un vicolo cieco e farne un isolato e uno spostato.

In tal senso Pietro Dellini è uno dei primi velleitari di Brancati, uno che sembra rivoltarsi per dispetto, che rinnega la cerchia piccolo-borghese da cui proviene, ne disprezza “le facce riposate, grasse, chiare come numeri” e prova ripugnanza per la grettezza del comportamento, delle idee e dei sentimenti di quella classe senza peraltro riuscire a concepire e tanto meno ad attuare un disegno migliore e comunque diverso.17

1 In Ritorno alla censura (Introduzione a La governante), Bompiani, 1974).

2 Vitaliano, mio fratello, 23/1976.

3 Gli anni perduti, romanzo, Mondadori, Milano, 1976, p. 14.

4 Enzo Lauretta in Invito alla lettura di Vitaliano Brancati, Varese, Mursia, 1973, p. 33.

5 Vanna Gazzola Stacchini (La narrativa di Vitaliano Brancati, Firenze, Olschki, 1970).

6 Cit.

7 Cit. p. 29

8 In Le due dittature, Associazione Italiana per la Libertà della Cultura, Roma, 1952, p. 9.

9 Vanna Gazzola Stacchini, cit., p. 13.

10 Lucia Di Maio, Le Prime di Vitaliano Brancati. Pubblicato nella rivista Wuz anno II n° 10, dicembre 2003, www.bibliografica.ite-mail: bibliografica@bibliografica.it. Vincenzo Epifanio, nella voce dell’Enciclopedia Treccani, così descrive Pachino: ..domina da una prominenza – 65 metri sul livello del mare – la regione ondulata con cui termina la parte sudorientale della Sicilia e prende il nome da quello stesso capo che ora più comunemente si chiama Passero”. Gli abitanti erano nel 1931 19.784; lo stesso numero che ritroviamo nell’edizione 1968 della Guida d’Italia edita dal Touring, dopo la morte di Brancati dunque. E lo stesso numero, all’incirca, che abitava il Comune nel momento in cui lo scrittore vedeva la luce. Nulla sembra mutare in quel natio borgo selvaggio (si veda la prefazione all’opera del Leopardi pubblicata nel 1941 presso Bompiani) e l’immobilità di uomini o cose sono una caratteristica della poetica brancatiana. Una città vasta e chiusa ad un tempo; fondata dal feudatario Gaetano Starabba Alagona nel 1758 nei propri personali possedimenti, ricca di vino e di commerci, con una grande Piazza quadrata, un castello e un alto faro in fronte. Brancati trascorre una prima giovinezza isolata e serena; scriverà nel 1934 (la novella è “Il nonno”): “..quando si vive in un modo simile non si ha bisogno, per riempire la propria vita, né di poesia, né di ricchezza e nemmeno – ho un po’ di esitazione a dirlo – di religione”. Nel 1920 Brancati si trasferisce a Catania, al seguito del padre, Rosario, un funzionario della regia prefettura che aveva ottenuto la posizione desiderata in città. Frequentando il Ginnasio Spedalieri finalmente si scuote; l’incontro con il geniale professore di latino e greco, Francesco Guglielmino, provoca la svolta: i due rimarranno amici per tutta la vita. Il dottor Rosario Brancati era uomo di lettere e collaborava con pseudonimo (Il Ghirlandaio) al quotidiano catanese Giornale dell’Isola: e l’esordio dello scrittore avviene su quelle colonne, il 9 Luglio 1922. Si trattava fra l’altro di due sonetti (Acquarelli); il giovane li invierà al Vate per antonomasia, Gabriele D’annunzio insieme ad altri scritti ancor oggi conservati al Vittoriale e scampati così al ripudio dell’età matura. Meno male. Brancati è precoce; collabora a vari periodici e nel 1924, a 17 anni, fonda la rivista Ebe di cui usciranno peraltro solo tre fascicoli, ovviamente assai rari. I tempi sono ormai maturi per il primo volume, dopo tanto purgatorio di articoli e poesie; fra il 1924 e il 1926 lavora alacremente al suo poema drammatico, opera intrisa di nazionalismo dannunziano e di entusiasmo per il Duce (si era iscritto al PNF fin dal 1924 e, come lui stesso scrisse, autocriticandosi, era fascista fino alla radice dei capelli). Fedoresce nel 1928 per i tipi di Studio Editoriale Moderno, stampato in Catania dal tipografo Di Benedetto all’epoca ubicato in Via Madonna delle Grazie 10. E’ una brossura piuttosto elegante, attenta al gusto dell’epoca, di mm. 192×129. La copertina porta al verso il prezzo (L. 10) e il logo dell’editore; al recto una graziosa xilografia firmata “Luci” di mm. 100×110. Sono 208 pagine, compresi occhietto e fronte. La dedica editoriale, quasi una affettuosa prefazione, è per Giuseppe Antonio Borgese; si tratta dell’ennesima dimostrazione del carattere contraddittorio del Brancati ove si tenga conto che il destinatario non solo si era ben guardato dal sollecitarla, ma di li a poco nel 1931, si sarebbe stabilito negli USA per sottrarsi alla dittatura italiana. L’opera prima di Brancati è assai difficile a reperirsi, per la bassa tiratura e a causa del rifiuto di tutti i primi testi giovanili da parte dello scrittore, divenuto antifascista. Per le stesse ragioni è una rarità bibliografica Everest, il secondo testo, pubblicato nuovamente presso Studio Editoriale Moderno, nel 1931. Cambia lo stampatore (che è l’Officina Grafica Moderna Impegnoso & Pulvirenti) e cambia anche il formato (mm. 225×165). La copertina in cartoncino leggero della brossura è reperibile in almeno due colorazioni sempre sfumate; il sottotitolo è “mito in un atto”. La xilografia di copertina (mm. 65×90) non è firmata; è ripetuta al fronte. Al recto della quarta carta vi è una miniatura xilografica con paesaggio; le altre sono a pagina 17, 25, 33, 41, 49, 62 (nel testo), 65, 73. A pagina 81, con piccolo logo, compare l’indicazione che attribuisce i legni a Beppe Assenza; sono 84 pagine complessive. L’opera presenta una prefazione di Telesio Interlandi, il giornalista che legherà il suo nome a periodici esplicitamente razzisti. E in un tal preambolo si legge: “..Everest è il primo felice tentativo di rendere drammaticamente il senso eroico dell’azione mussoliniana….è un mito orgoglioso, che soltanto un giovane di questa nostra età satura di certezza poteva scrivere. Il pezzo teatrale era stato rappresentato, prima della stampa, dalla Compagnia del Teatro dei Giovani al Margherita di Roma il 5 Giugno 1930; e la compagnia era diretta dal figlio di Pirandello, Stefano, con il cognome d’arte Landi. Il successo dell’opera encomiastica apre al Brancati nuove porte e nuove collaborazioni; nel 1932 escono ben tre libri, due dei quali rivestono, per ragioni diverse, notevole importanza. Presso la Casa Editrice Ceschina usci nel maggio del 1932 il primo romanzo di Vitaliano Brancati, L’amico del vincitore; per quanto rifiutato si trattò pur sempre del primo tentativo di un genere che poi darà la fama allo scrittore siciliano. L’opera è dedicata editorialmente a Telesio Interlandi, con il quale Brancati continuava la collaborazione nei periodici; la stampa fu affidata allo stabilimento tipografico “Littorio”. Si tratta di un volume di 536 pagine che misura mm 186×125. Meno raro dei due precedenti (anche per la maggior tiratura) è pur tuttavia difficile a reperirsi in quanto ritirato e disconosciuto,senza nuove pubblicazioni e senza richiami da parte dell’autore. L’azione si svolge fra Modica e Catania, modificate quasi scherzosamente in Moduca e Cantana; vi compaiono gli amici isolani dello scrittore, stravolti nel gioco della memoria, e in alcune pagine (per quanto si tratti di opera prolissa) si forgia l’arte del Brancati maturo. Nel dodicesimo capitolo, solo per fare un esempio, vi è un bozzetto delizioso: “al crepuscolo, nella terrazza dei Dellini, cominciava il rumore di sedie smosse, di parlare a bassa voce e rado; come in chiesa, durante la messa. Poi, a sera, venivano anche i vecchi; veniva la signora Corda con Giovanni e la conversazione si animava”. L’altra importante pubblicazione è di nuovo un’opera teatrale; non si tratta di un volume del tutto autonomo ma di un numero monografico de “Il Convegno, anno XIII, n.5-6 del 25 giugno 1932. Il dramma è in tre atti, contrassegnato da un titolo quanto meno curioso: Il viaggiatore dello sleeping n. 7 era forse Dio?. La rivista è in 8° con numerazione che corre da pagina 197 a pag. 276. Brancati non considerò, nelle sue inquiete rielaborazioni, il pezzo come fascista ed in effetti esso si distanzia non poco dalla precedente produzione e dal quasi contemporaneo Piave. I tre atti costituiscono certamente il punto di svolta nella prosa di Brancati. Piaveè caratterizzato invece dai difetti delle prime due opere teatrali senza neppure averne i pregi di dannunziana ingenuità: fu rappresentato (dopo la vittoria nel concorso dedicato alla memoria di Fausto Maria Martini) al teatro Valle di Roma con gli attori della compagnia Ricci-Bagni e con la prestigiosa regia di AntonGiulio Bragaglia. Nonostante la notorietà della compagnia e del regista l’esito della rappresentazione fu infelice; né ebbe miglior sorte commerciale la stampa dell’opera affidata alla Casa editrice Mondadori. Il testo, come ricorda la scheda editoriale, era contenuto in un volume di cm 19×13, in 16°, pag. 168, al prezzo di L. 5 nella “Collezione teatrale Mondadori”. Fu stampato a Verona il 5 novembre 1932; per volere dell’autore non ci sono state da allora più ristampe. Il titolo originario dell’opera era Caporetto, ma fu modificato in Piave per diretto ordine di Mussolini. E’ interessante invece rilevare dalla scheda editoriale, l’annuncio di un volume in corso di pubblicazione, con titolo “Vile nell’amore”: una tal opera in realtà non uscì mai. Nel 1934 Mondadori pubblica invece Singolare avventura di viaggio, con dedica editoriale al fratello Corrado, critico cinematografico ed autore di un interessante volumetto pubblicato nel 1995 dal Greco in Catania (Vitaliano mio fratello). E’ il primo testo importante, fu composto nella primavera dell’anno precedente, ormai del tutto estraneo alla retorica di regime, tanto da meritare una dura recensione stroncante di Luigi Chiarini su “Quadrivio”. E dopo la stroncatura venne il ritiro dalle libreria del romanzo, giudicato immorale dai censori dell’epoca. La scheda editoriale indica quale data di stampa il 20 dicembre 1933 (ma la copertina e il fronte portano la data 1934). Il volume in 16° misura cm 19×16 ed ha 184 pagine cui deve però aggiungersi una carta bianca finale. Con il ritiro dell’opera iniziò il distacco del Brancati dall’ambiente fascista romano: il 24 giugno 1934 Quadrivio pubblicò la sua lettera di dimissioni da redattore. Nel 1935 lo scrittore lasciò Roma e fece ritorno nella natia Sicilia; ma fra il febbraio e il marzo del 1936 uscirono ancora su Quadrivio Gli studi per un romanzo in sei puntate, mentre Il Convegno diede alle stampe Eraclio dramma in versi mai rappresentato. Fra il 1935 e il 1938 Brancati prosegue l’attività di pubblicista, e in particolare conosce Leo Longanesi: l’incontro ha una particolare importanza nello sviluppo delle opere successive.”

11 Sonetti a Militello, in Don Mario Ventura, Antologia militellana, La Nuovagrafica, Catania, 1979, pp. 7/8.

12 Omero, Iliade (traduzione di Vincenzo Monti), Libro VI, vv. 179-184. Biblioteca Universale Rizzoli, Fabbri Editori, R.C.S. libri SPA, Milano, 1995, 2 voll. Vol. I, p. 323.

13 Lina Jannuzzi, Vitaliano Brancati, in La letteratura italiana – I contemporanei, vol. II, Marzorati, Milano, 1963, p. 1314.

14 In La Bibbia del Belli, a cura di Pietro Gibellini, Adelphi, Milano, 1974, p. 125.

15 Ritorno alla censura, in La governante, Bompiani, Milano, 1974, p. 23.

16 Ivi, p. 24

17 Enzo Lauretta, Invito alla lettura di Vitaliano Brancati, Mursia, Varese, 1973, p. 47.

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