Garufi, Rocambole – A cena con Nello Musumeci, racconto

Sicilia Bellissima

A cena con Nello Musumeci

di Rocambole Garufi

Amici, quando un ricco si fa Re per aiutare i poveri, mettete mano al bastone!

Anzi, per non restare a dare, mettete mano al bastone anche quando un povero vuole fare il capo di tutti i poveri. Come è andata a finire con l’aristocratico Vladimir Il’ic Ul’janov, detto Lenin, lo sanno anche le pietre del Calcarone, ma nemmeno Masaniello ci ha lasciato la ricca eredità dello zio Bonanno.

La conclusione è che certe ideologie intellettuali – religiose, atee, liberali, nazionaliste, separatiste, comuniste… fate un po’ voi – io le paragono alle cavallette: nuvolaglie di insetti voraci che si mangiano tutto e non lasciano niente. Le ideologie – detta papale papale – non cambiano il mondo, ma sfasciano famiglie e fanno carne di porco degli affetti, dei sentimenti e dei sacrifici dei nostri padri.

I ricchi, quelli veri, quelli che tengono in tasca le banche e gli eserciti, se sentono puzza di linciaggi, coi poveri che stanno lì, in piazza, a urlare Onestà! Onestà!,si regolano, come gli eschimesi coi lupi.

“… Gli eschimesi capiscono i lupi e sanno come agire, con loro. Fanno sciogliere piccole pozze di ghiaccio, poi piantano il manico dei coltelli da caccia nell’acqua che subito si gela di nuovo ed essi restano piantati saldamente come fossero immersi nel cemento. Rimangono fuori soltanto le lame, dal doppio taglio affilato come un rasoio. Sull’intera distesa ghiacciata, gli eschimesi piantano i loro coltelli e li bagnano di sangue, sangue di foca o di vitello marino o persino del proprio. Poi vanno a casa e aspettano. E i branchi di lupi, erranti chilometri e chilometri lontano, avvertono l’odore del sangue. Si radunano attorno a quelle lame, e mentre ingordamente leccano il sangue, sbavando, sembra loro di aver trovato una deliziosa, inesauribile sorgente. La loro lingua lavora e lavora, sempre più in fretta, e la sorgente del sangue aumenta, ed essi se ne ingozzano con avidità. Finché ne restano dissanguati, e il sangue che era sembrato tanto delizioso riempie loro lo stomaco, ma è il loro proprio sangue ed i lupi hanno divorato se stessi.”1

E, forse, questa notte siamo tutti dei lupacchiotti spelacchiati e illusi, noi e Nello Musumeci, subito dopo il suo comizio, nel ristorante Formula Uno, famoso perché, per principio, il proprietario, Antonio detto Sbaratta, tifa contro l’Italia quando ci sono i mondiali di calcio e contro la Ferrari nelle corse automobilistiche.

Antonio è il più chiaro esempio dell’anarchismo locale – e, probabilmente, l’anarchismo romantico da cui nacque il Partito Socialista, quello dei Mikhail Bakunin, dei Filippo Buonarroti, degli Errico Malatesta, degli Andrea Costa, degli Amilcare Cipriani… fu molto più simile a lui che a ciò che ci raccontano i professori con la erre moscia –.

Aspro come il vino dell’osteria Astorina, Antonio ha l’incazzatura facile e il gesto generoso, il sentimento libico di appartenenza ad un clan e una teatrale fierezza individualistica. Antonio si dichiara contro tutto ciò che non è lui stesso. E’ capace di perdere un vapore di soldi sui tavoli dei casino clandestini di Catania, ma poi, qualche anno dopo, userà il garbo di un toro con la sofisticatissima Katia Ricciarelli, che con mio figlio canta una canzone di Kurt Cobain.

“Che dice, Signora? Stanotte il sonno, cheffà… lo lasciamo a Pippo Baudo? Ho finito la grappa e ho da chiudere il locale!”

In fondo, Nello Musumeci rappresenta il riscatto di questa Sicilia a me simpatica, per cui noi tutti, per seguirlo, ci siamo travestiti da lupi che non vogliono vedersi tolto il mangiare dalla bocca con le tangenti dei mammasantissima e non vogliono neppure leccare i coltelli degli eschimesi che Di Pietro e la macchina da guerra di Occhetto hanno piantato nel ghiaccio italiano.

Con questa convinzione, abbiamo appena appena messo le gambe sotto i tavoli…

“Dato che non siamo più nella Prima Repubblica, stasera ci si divide la spesa…” proclama l’amico Antonello Guglielmino. “L’importante è il piacere di stare insieme.”

Musumeci approva con immediato entusiasmo:

“Bravo, Antonello!”

Più di un paio di galoppini e un ex-consigliere comunale, però, mimano una delusione negata dalle parole.

“Ma, il nostro turno quando viene?” mi sussurra l’ex-consigliere comunale, che da bambino chiamavano Marcellino Pane e vino.

Manco facciamo in tempo a ordinare, che subito si avvicina un giovane spacchioso senza nome e senza faccia, ovvero col nome e con la faccia uguale a tutti i nomi e a tutte le facce degli spacchiosi. Variante etnea degli huppies modello Nove settimane e mezzo, occhiali ray-ban su maglietta giallognola come i suoi denti…

“Che amici abbiamo nella caserma dei Vigili del fuoco?” chiede.

“Assolutamente nessuno!” taglia corto Nello, sorprendentemente sgarbato. “Fai domanda, riempi i moduli e, se hai il punteggio, ti prendono.”

Il picciotto resta un attimo interdetto. Poi, volta le spalle e va via.

“Nello, Nello!” sorride a mezzo labbro il sodale di sempre, Giovanni Cavalli. “Prudenza! Ancora si deve votare!”

“Nessuna prudenza, invece! Anzi, meglio così!” risponde secco Nello. “Anche in politica, la mattinata è già mezza giornata!”

Antonello Guglielmino lo guarda con gli occhi di Beatrice persa nella luce di Dio.

“Minchia!” si limita a dire.

Per tante strade siamo arrivati al punto di fine e di inizio di questa rivoluzione tascabile. Missini ed extra-parlamentari di Sinistra, abbiamo tutti le facce sessantottine. Io mi allevo la barba come una creatura, o come gli antichi cow-boy portavano le pistole appese alla cintura. La barba è il mio modo di dire Io esisto! Te lo figuri Che Guevara senza la barba? E senza gli occhi che inseguono… uno Cristo e l’altro a San Giovanni (come scrisse Micio Tempio ne La minata degli Dei)?

Nello, invece, tiene il pizzo alla Italo Balbo. Forse sogna un aspetto truce, da ras romagnolo dei Me ne frego! Ma… tirala c’allonga!… mantiene l’aspetto del ragazzo che piace alle signore della borghesia bene. Ha gli occhi azzurri, tipici della sua famiglia, gente della Costa Jonica, marinara e avventurosa per vocazione, come la mia. Tanto più che sia suo padre che il mio sono stati autisti di autobus. Mio padre veniva da Ponte Boria, frazione indecisa perfino sul paese a cui appartenere: un breve tratto di strada che da un lato fa Calatabiano e dall’altro Fiumefreddo.

Inoltre, la figura di Nello, esile e gentile, pare un’opera di Amedeo Modigliani; ma, i suoi ammiratori vi ritrovano pure la sagoma del David di Donatello, già pronto a colpire sul battesimo un’invisibile e terrificante Golia.

Il suo parlare è educato, dove i pochi arcaismi brillano come gocce di sudore, subito asciugate da una vena di ironia marca Liotro.

“Vinu ne pò bere?… U purtàu u pani u papà?…” con questi giochi di parole… vino ne pò bere o vinnuru i oumoeri?… e altre battute di Pippo Pattavina e di Tuccio Musumeci egli interrompe i discorsi seri degli interlocutori saccenti.

E’ l’umorismo surreale della grande tradizione teatrale catanese, molto giocato sui non-sense, sul suono ambiguo delle parole, che ha la stessa logica di quello dei cabaret di Milano, con una discutibile minore fortuna critica. A Milano le stramberie di Enzo Jannacci, di Dario Fo, di Cochi e Renato, di Giorgio Gaber… chissà perché… per i critici sono sempre geniali.

Questa sera il mio sogno proibito si è incontrato col sogno proibito di Nello Musumeci e credo che resterà bloccato qui, come Cristu u Liuni, che è ciò che succede quando a Militello la statua del Cristo alla Colonna arriva all’incrocio di Palazzo dei leoni, tra via Umberto e via Porta della Terra. A quel punto, la folla la stringe tanto che non può più andare né avanti né indietro.

Da prima di nascere io decisi di diventare uno scrittore, mentre Nello è venuto fuori dalla pancia della madre già Presidente bell’e fatto, come Minerva, dea della ragione, dalla testa di Giove. Sono le ossessioni giuste quelle che costruiscono le Piramidi, o le Cattedrali. Per Nello Musumeci scrivere è stato un modo di crescere nella politica, per me far politica è stato un modo di crescere nella scrittura.

Sui nostri cammini, perciò, vale ciò che dicevano gli antichi:

“Càliti juncu, ca passa la china!”

Abbassati giunco e fai passare la piena. Mi pare, così, di risentire mia madre, quando nel 1971 – ex convittore del Real Collegio Capizzi, ora studente della facoltà di Lettere Moderne di Catania e scrittore agli inizi – nei fine-settimana che passavo nel paese di Anna, la ragazza che mi regalò bagliori di poesia e la stima di me stesso, fondai la rivista “Bronte Rossa”, allegato di “Mondo Operaio”, organo del Partito Socialista di Unità Proletaria.

Eppure, mia madre, come giunco, si è abbassata molto meno del mio professore di Letteratura italiana, il barone universitario Carlo Muscetta, che, dopo aver servito il fascismo durante il fascismo, ora, da anti-fascista, mi spiega il senso rivoluzionario della poesia di Giuseppe Gioacchino Belli. Mia madre, invece, ha studiato e si è diplomata ostetrica, per non dipendere dal marito, che si era perso in Africa. Coi superbi, mia madre non rimane a dare e si innalza davanti a tutti quelli che pretendono di essere innalzati. Nel suo piccolo, naturalmente… come le formiche davanti alle cicale.

Organizzati quanto basta a non rimetterci le zampe e continua a correre.

Perciò, fiducia a nessuno. La vocazione siciliana alla fiducia è quella della gatta della zza Trissina, la bottegaia di via Roma – proprio in faccia a dove il fabbro Lisciandrano ferrava i cavalli -. L’animale era un bestiolone che sembrava un padre priore. Tutto il giorno se ne stava con le zampe abbarbicate al cilindro di mortadella montato sulla macchina affettatrice. Così, quando un ragazzo spuntava con le venti lire in mano per il panino imbottito, il gatto manco faceva una piega. La zza Trissina agguantava la manovella sulla ruota dell’affettatrice ed il gatto si spostava giusto giusto per non essere affettato anche lui.

Tranquillo, come il Catania quando retrocesse in serie B.

E’ normale, perciò, capire che, se la strada è lunga, è difficile arrivare con la stessa giacca. Napoleone Bonaparte fu indipendentista corso, prima di diventare imperatore dei francesi. Benito Adrea Amilcare Mussolini fu socialista, prima di inventare il fascismo e lo stesso Alcide De Gasperi fu deputato dell’impero austro-ungarico prima di fare il capo del governo italiano. Se poi vogliamo andare indietro indietro nel tempo, lo stesso Caio Giulio Cesare venne sospettato di far parte della congiura democratica di Catilina e finì ammazzato da Bruto e Cassio con l’accusa di voler diventare un tiranno. Insomma, per dirla con Santa Chiara di Napoli, non c’è nessuna icona che dietro non abbia un racconto.

Ecco perché i libri di storia che ci fanno comprare a scuola e i cataloghi dei Musei non suscitano molto interesse, a Sinistra e a Destra, ovvero nel salone del barbiere-sindaco Antonio Lo Presti ed al al bar New York dei Coniglione, i due posti dove la gente normale si perde dentro una foresta vergine delle chiacchiere inconcludenti.

Ora, il viaggio che ha portato Nello Musumeci da Militello a Presidente della Provincia di Catania e poi lo porterà a Presidente della Regione Sicilia è più lungo delle Calabrie sul treno degli emigranti. Ancora bambino, infatti, abitò in una casa che nessuno a Militello, tranne suo padre, aveva voluto in affitto e lì, forse, ricevette la prima lezione di politica: mai umiliare troppo la gente paziente.

Di notte, racconta Nello, in quella casa vagolava lo spirito inquieto della moglie infedele di un certo Fischietto.

Costui aveva perso una gamba come nella vita si perdono le occasioni. Volle, però, sposarsi lo stesso e gli successe ciò che tutti i parenti avevano predetto che gli sarebbe successo: la moglie lo fece cornuto con uno di quei maccagnoni ricottari che stanno pronti come le carcarazze a infilarsi nei luccichii dei vuoti familiari.

Per anni Fischietto sopportò il decoro sulla testa con la pazienza di Giobbe e venne al mondo persino una bambina. Ma, arriva sempre il momento in cui il troppo si fa troppo… la moglie pretese di mettersi in casa l’amante.

Per questo, una sera Fischietto riunì la sua curiosa famiglia allargata e fu l’ultima cena di un Vangelo scritto in siciliano. Prima acqua da Zizza, vinu da Varanna, pasta con la mollica e i finocchi selvatici di Santa Croce, formaggio della masseria di Calleri… poi prese la parola la doppietta e spiegò che non è cosa bella ridicolizzare un bravuomo.

A stento, la sventurata moglie riuscì a salvare la bambina, buttandola dal balcone per fortuna basso. Fischietto si ripigliò l’onore rusticano di compare Alfio e si serrò in casa coi due morti.

Al maresciallo che accorse per prtarselo nel carcere di contrada Noce, a Caltagirone, disse soltanto:

“Marescia’, lasciatemi in pace, questa notte. Vi prometto che domani alle sei vi apro.”

Infatti, alle sei meno un minuto si sentì un colpo e, quando i carabinieri entrarono nella stanza, trovarono il cadavere di Fischietto a guardia dei due eredi di cumpari Turiddu e donna Lola.

Ora, davanti alla pizza e al meritato bicchiere di birra, Nello ci dice compiaciuto:

“Vi giuro che tante volte mi è capitato di sentire lo spirito della moglie di Fischietto… ma non mi ha mai messo paura.”

1Glen Sire, I liberatori, Milano, Longanesi, 1965, p. 6)

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