La Festa del Santissimo Salvatore di Militello in Val di Catania, nata da un Decreto del Vicerè massone Caramanico, è stata inserita nel registro REIS della Regione Sicilia (si allega il testo integrale del libro presentato dal prof. Salvatore Paolo Garufi, membro della Commissione)

Rocambole Garufi

Robespierre e le sagrestie

Lo scrittore Vincenzo Natale, la Massoneria e la Carboneria nella Sicilia borbonica

Lezioni in forma di racconti

Introduzione

C’è spesso un perché, quando si scrive

Verrebbe da chiedersi se raccontare alcune vicende di dimenticati intellettuali e di eroi fuori-corso non faccia parte della patologia del disagio contemporaneo. Ma, bisogna pure avere qualche opinione politica storicamente motivata, se non altro per tirare la paga per il lesso.

Ecco perché sono nate queste lezioni, anche a proposito del gran parlare che si fa di sovranismo, patriottismo, comunismo, indipendentismo, autonomismo da un lato e quella specie di Società globale che le potenze vincitrici su Napoleone tentarono di costruire col Congresso di Vienna.

In ogni caso, mi sembra che i protagonisti di queste pagine, avessero al riguardo buone idee. Per questo, un pensiero lo rivolgo alla memoria di Giovanni Garufi, mio padre, che mi ha insegnato l’orgoglio di restare fedeli a noi stessi.

Pur nello sfracelo etiopico del 1943, egli sognava che un giorno la bandiera italiana potesse tornare a garrire nel cielo di quei posti.

Prima di essere fatto prigioniero dagli inglesi, per non lasciarla in mano loro, l’aveva seppellita nella campagna di Dire Dawa. Lì era stato un emigrante travestito da colonialista, semplicemente felice di guadagnarsi le giornate lavorando nella sua modesta Trattoria Italia.

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Alla fine perdono tutti: Giovanni Verga, Benedetto Radice ed i fatti di Bronte del 1860

La lotta contro i privilegi feudali nel Regno delle Due Sicilie si concluse sotto il caldo agostano del 1860, quando nella piazza di Bronte irruppe una rivoluzione senza pietà del prossimo e senza timor di Dio.

Era la mattina del due, giovedì, e quel giorno i benestanti capirono che ci si può fare davvero male, se si cade dai piani alti della società. La folla si muoveva come un elefante impazzito, invincibile e completamente sorda ai richiami del suo padrone, che da qualche anno era il mazziniano avvocato Nicolò Lombardo.

“Costui” testimoniò Benedetto Radice, coevo scrittore brontese, “era a capo di quel partito definito comunista, che nell’impazienza degli oppressi aveva sperato di cogliere la palla al balzo, per recare nelle sue mani il potere.”

Il comunismo, ovvero la spartizione della terra, era un ideale che la vecchia setta dei carbonari aveva posto come ultima, segretissima meta. Ora, per arrivarci, in ogni città ed in ogni villaggio della Sicilia venivano agitati gli argomenti più adatti a suscitare la rivolta popolare.

E, dove ci sono rivoluzioni, ci sono pure i personaggi come l’avvocato Lombardo. Essi, in genere, sono uomini in perfetta buonafede, che vogliono un mondo migliore. Ma, peccano di impazienza. C’è troppa adrenalina in loro, per applicarsi con le armi pacifiche della costanza alla realizzazione delle giuste migliorìe politiche. Pretendono da subito la liscia perfezione dei sogni. Molti disastri, per questo, sono nati dalla buonafede.

A Bronte, poi, non mancavano davvero i motivi del malcontento. Pesava su quella comunità di contadini e di pastori il feudo dei Nelson, grande quanto tutto il territorio della frazione di Maniace. Così, mentre il freddo invernale e le male annate falcidiavano i figli dei poveri, troppa terra restava sterile di cibo; terra, per di più, nella quale era severamente punito persino il furto di una fascina di legna, che tenesse vivo il braciere. Oggi, quindi, è facile dedurre che in quel 1860, se c’era spazio per la rabbia e le illusioni, non ce n’era per i ragionamenti. Era l’epoca dei capipopolo alla Lombardo, quella!

Entro certi limiti, naturalmente, poiché altre istanze bussavano per entrare nei libri di storia.

Infatti, il 22 maggio dell’anno prima, nel bel mezzo della guerra tra i franco-piemontesi e l’Austria, era morto Ferdinando II di Borbone. Purtroppo, suo figlio Francesco II, salito al trono, aveva commesso l’errore di non accettare subito la proposta del Cavour di partecipare al conflitto come terzo alleato. L’avesse fatto, forse, anziché un Regno d’Italia, sarebbero nati due regni, uno al nord ed uno al sud, lasciando disoccupato Bossi.

Ma, non lo aveva fatto. Perciò, quando il 25 giugno 1860 si era deciso a proclamare lo statuto (cioè, la Costituzione) e ad aderire all’offerta piemontese, era ormai troppo tardi. Quella vecchia volpe di Camillo Benso conte di Cavour aveva tergiversato, quanto bastava per permettere a Giuseppe Garibaldi di finire il suo lavoro.

Gli storici raccontano che a quel punto iniziarono le trame per un’insurrezione in Sicilia.“Un primo movimento avvenne il 4 aprile a Palermo, nel convento della Gancia, e un altro seguì due giorni dopo a Messina; ma vennero facilmente repressi. Si formarono tuttavia delle bande armate riunitesi poi intorno a Rosolino Pilo. A sostenere e diffondere la rivolta una spedizione fu preparata a Genova per opera di esuli siciliani, principale Francesco Crispi, e coll’aiuto della Società nazionale: prima e dietro di questa era pur sempre l’azione instancabile del Mazzini.

Mazzini, appunto. E con lui tutta la galassia di società segrete che fiorirono nell’Ottocento. La diplomazia era stata efficace per annettere la Lombardia al Piemonte. Ma, l’alleanza tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II non c’era più, se si portava la conquista alle terre meridionali. Era stato, infatti, proprio l’imperatore francese a convincere il re Borbone a tentare di salvare il regno dall’espansionismo dei piemontesi intavolando trattative con loro.

“Un’Italia spezzata in due” aveva pensato Napoleone III, “è forte al punto giusto per dar fastidio all’Austria, senza essere ingombrante per la Francia.”

Da Cavour, al contrario, non era malvista un’azione di forza al Sud e l’unico che potesse realizzarla era Garibaldi.

A patto che fosse ben preparata.

“Onore a Garibaldi!” aveva esclamato l’avvocato Lombardo in casa di don Nunzio Caputo, fidato liberale, nella riunione che aveva preceduto l’insurrezione contadina. “Egli, già a gennaio, ha asserito che, se il Sud è pronto ad insorgere, possiamo contare sul suo aiuto.”

Le notizie sul successo dello sbarco dei Mille avevano elettrizzato gli animi. La setta mazziniana brontese, perciò, si era attivata in tutta fretta. Doveva farsi trovare pronta all’arrivo in paese delle camicie rosse.

“Pretende, però” aveva continuato Lombardo, “che ci siano chiare prove della nostra disposizione all’azione. Troppi patrioti sono morti per aver intrapreso, nell’indifferenza dei meridionali, la liberazione di Napoli e della Sicilia … Bentivegna, Pisacane, i due Bandiera…”

A questo punto, aveva fatto un cenno con la testa verso un bottiglione di vino, che stava pronto sopra il credenzone.

La stanza era in una profonda penombra, dato che la riunione avveniva alla luce di una sola candela e dei pallidi raggi lunari, che filtravano dalle grate dell’alta finestrella.

Nunzio aveva capito al volo ed aveva portato in tavola sei bicchieri, tanti erano i presenti. Poi, finalmente, era arrivato il bottiglione.

“Bisogna preparare il terreno” aveva ripreso Lombardo, senza allungare le mani sul vino. “Questo compito in tutta la Sicilia lo sta già svolgendo Crispi. E’ stato mandato qui in avanscoperta.”

Dopo qualche secondo di pensieroso silenzio, quindi, si era versato un bicchiere di vino e gli altri avevano fatto altrettanto. Il liquido era scuro, denso e di diciassette gradi. Una bella colata di lava nello stomaco. Tutti avevano bevuto d’un colpo, buttandosi alle spalle ogni incertezza.

“Ora” aveva concluso Lombardo, “in molti villaggi la gente si unisce alle camicie rosse, come mai si era visto neppure al Nord. Diciamolo ai nostri villani… Garibaldi vuole abolire le tasse sul sale e sulla pasta e promette di dividere i latifondi e distribuire la terra!”

Così, dal giorno dopo, i contadini avevano sentito i discorsi incendiari di Lombardo, per disgrazia dandogli credito. Alla fine si erano convinti che la parola Italia significava togliere le terre ai cappelli (cioè, ai possidenti), per darle ai berretti (cioè, a loro stessi).

Com’era naturale, però, anche i ricchi avevano preso sul serio quel concetto di Italia, per cui quel giorno avevano paura, una paura paralizzante, che li bloccava a Bronte, a difendere la robba, senza pensare che la vita viene prima e che forse era il caso di scappare.

Paura e rabbia accecavano da tempo soprattutto il notaio Ignazio Cannata. Per questo non ce l’aveva fatta, a tenersi dentro la bile, quando, un mese e mezzo prima di quel 2 agosto 1860, era stato inalberato il tricolore al balcone del Casino dei Civili.

Di contro agli applausi ed agli entusiasmi dei paesani, livido e provocatorio, s’era lasciato uscir di bocca:

“Perché non si leva ‘sta pezza lorda?”

Ora, addirittura, Cannata si presentava con una doppietta, netto nel suo rifiuto delle storiche novità che aveva davanti. I larghi baffi, irti sulle gote arrossate dall’ira, fronteggiavano i villani; i quali, sciolti i lacci del timore, cominciavano a ringhiargli intorno, a chiedergli conto e ragione delle sue ricchezze, a rinfacciargli prepotenze e malefatte…

Era troppa, però, la sua abitudine al comando (e troppo insufficiente la sua intelligenza), per mantenere la prudenza. La duttilità mentale non appartiene a chi ha avuto dalla sorte una condizione di privilegio.

“Sono i tempi di Frajunco, questi” disse al rispettato barone Meli, venuto sopra una sedia, perché sofferente di podagra, con l’incarico di placare gli animi. “Guardatelo, il nuovo caporione di Bronte!”

Il contadino Nunzio Ciraldo, detto Frajunco, era lo scemo del paese e scendeva in piazza con la testa coronata da pezzuole tricolori ed una fèrula come scettro. Già dalla notte, andava in giro, annunciando:

“Attenti, cappelli, che l’ora del giudizio si avvicina!”

Attorno a lui c’era tutto un serpeggiare di movimenti, di risa sguaiate, di minacce; c’era, ancora, un continuo chiamarsi a vicenda, il manifestarsi di rancori vecchi e nuovi, un battere ai portoni serrati.

“Popolo, non mancare all’appello!” urlava Frajunco al popolo, che per risposta gli marciava accanto.

“Volete farci linciare tutti?” sibilò il barone Meli, impressionato dallo spettacolo.

“Me ne porto dietro qualcuno, all’inferno!” rispose Cannata.

L’inferno il notaio non lo vide subito, dato che, un po’ dandogli ragione e un po’ minacciandolo loro per primi, gli altri galantuomini riuscirono a convincerlo a ritirarsi a casa. Lo vide, l’inferno, verso le tre pomeridiane, quando la folla ruppe ogni indugio ed andò a cercarlo dove moglie e figli lo obbligavano a starsene rintanato. Si cominciò da lui, perché era lui che aveva il vizio di dirlo chiaro ed in faccia a tutti, cosa pensava di Garibaldi.

“Scendi, notaio, che prima delle tue terre ci prendiamo la tua carne di porco!” uno sghignazzò alla porta.

“Affàcciati con la doppietta, cornuto!” inveì un altro. “Che forse non t’è bastato tutto il sangue che ti sei succhiato!”

Cominciarono a tirare pietre alle finestre ed il frantumarsi dei vetri fu il sinistro avvio dell’Apocalisse. Mani che impugnavano falci, zappe, asce e martelli si levarono e presero a picchiare sui muri e sulla porta. Di minuto in minuto, la folla s’ingrossava e le intenzioni si facevano più truci. Una fervida impazienza di far male s’impadronì degli assedianti e ne centuplicò le forze. Fu portato un tronco d’albero da una vicina falegnameria e si buttò giù il portone.

Il notaio fu trovato nella stalla, non più tanto sicuro dei fatti suoi. Stava accovacciato in uno sportone di letame, col corpo che la paura aveva reso una tremolante massa gelatinosa.

“Sta in mezzo alla merda!” esclamò chi lo trovò.

“Ora laveremo la pezza lorda di Garibaldi nel tuo sangue di ladro!” latrò rauco un altro, brandendogli un’ascia davanti agli occhi dilatati per il terrore.

Allora, gli strapparono i vestiti e lo legarono per i piedi. Uno, con un secco colpo di roncone, lo evirò.

“Tanto dove vai non ti serve” sentenziò sarcastico, mostrando il pene staccato.

Poi, lo strascinarono sanguinante per le scoscese vie di Bronte, punzecchiandolo coi coltelli, affondando nella carne viva e dolorante calci e bastonate, facendogli “assaporare a centellini gli spasimi della morte (come, poi, raccontò Radice).

Ci fu uno, di Maletto, che, dopo avergli vibrato una coltellata nella pancia, portò alla bocca la lama insanguinata. “Lui s’è succhiato il mio sangue ed io mi lecco il suo!”

Quindi, un certo Bonina, detto Caino, gli aprì il fianco e gli strappò il fegato. “Sentiamo che sapore ha…” gridò e affondò un morso.

Dopodiché, le stragi diventarono come le ciliegie: l’una chiamava l’altra. I cappelli furono tutti cercati, senza sconti, né pietà. Di quelli che trovarono, nessuno venne risparmiato. Il padre di Benedetto Radice, sentendosi chiamare, si affacciò sulla soglia di casa e ingenuamente ebbe fede nella forza della sua coscienza pulita.

“Eccomi” disse. “Se ho fatto mai del male, uccidetemi.”

Vicino a lui, ginocchioni, il figlio del notaio Cannata, aveva soltanto la forza di guaire: “Grazia, vi prego, grazia…”

Gli era accanto la moglie, tutta discinta, che invasata, con l’energia della disperazione, urlava: “Ricordatevi che è padre di due figli!”

Ma, gli insorti non smisero di schiamazzare, chiedendo altro sangue. Partirono i lampi di due schioppettate ed il giovane Cannata stramazzò, mentre il Radice si salvò poiché, svenuto, fu creduto morto.

In tanto scatenarsi di ferocia, apparvero tardivi gli sforzi dell’avvocato Lombardo per placare la belva. A Bronte il sabba della rivoluzione infuriò senza alcun argine per tutta la giornata, guidato soltanto dall’unico sentimento di giustizia sociale che si ha in tali momenti: volere nella polvere chi sta sopra.

E in quel carnevale furibondo, scrisse con impareggiabile poesia Giovanni Verga, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.

Non era la rivoluzione sociale, però, ciò che Garibaldi e i suoi volevano. Almeno, non ancora. Per loro, prima della prosa dei rancori di classe, c’era la poesia del riscatto della patria. I contadini, con quegli ammazzamenti, non coincidevano mica con gli eroi dell’estetica romantica! Eppoi, borghesi e massari accettavano sì l’Italia unita, ma senza alcuna intenzione di dare in cambio la pelle.

Ecco perché, quando arrivarono a Bronte le camicie rosse, su ordine del generale Nino Bixio, l’avvocato Lombardo e quelli che erano stati più in vista vennero arrestati, processati e condannati alla fucilazione.

L’esecuzione avvenne nel piazzale dello Scialandro. Lì, un momento prima di ricevere la pallottola fatale, Lombardo, seppur innocente riguardo alle uccisioni, anzi attivamente impegnato nel cercare di evitarle, pensò al suo antico maestro Vincenzo Natale e sentì di pagare un giusto prezzo.

“Chi lotta per cambiare il mondo” gli aveva detto Natale, “ha l’obbligo di non perdere il controllo della situazione. Dare speranze per le quali non ci sono le condizioni storiche produce due stragi: quella dei reazionari uccisi dalla rivoluzione e quella dei rivoluzionari uccisi dalla reazione.”

Oggi, si può aggiungere che, a proposito delle tasse che s’era promesso di abolire: fatta l’Unità, il ministro Quintino Sella pagò i costi del Risorgimento con la tassa sul macinato, cioè sul pane e sulla pasta. E, di dare la terra ai contadini, non se ne discusse proprio.

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L’ortodossia controriformista nel dipinto “Madonna della Stella” di Giacinto Platania a Militello

C’è stato un tempo in cui l’ambiente e gli individui si assomigliavano. Fu, infatti, proprio in un istituto scolastico, il Real Collegio Capizzi di Bronte, che, sul finire del Settecento, il deputato Vincenzo Natale provò le sue prime passioni forti e, come spesso disse in futuro, sognò di cambiare il mondo.

Da adolescente, Vincenzo parteggiò per i rivoluzionari francesi, vedendone alcuni come dei nuovi Milziade e dei nuovi Leonida; finché, spuntato l’astro napoleonico, poté finalmente ammirare un nuovo Alessandro Magno.

Per il suo carattere, però, un tipo come Robespierre faceva paura. Preferiva l’ironia di Voltaire, o la libertà di pensiero di Diderot e D’Alembert. Fra l’altro, questi erano autori molto presenti in Sicilia, soprattutto nella casa paterna. Ed insieme a loro, in quel periodo di dominante neoclassicismo, c’erano gli scrittori greci e latini, gli storici soprattutto.

Il suo orizzonte, insomma, era chiuso nei libri, una vocazione che gli veniva dall’ambiente di nascita. La mentalità e gli esempi familiari, infatti, lo portarono sempre a considerare la vita e la politica un affare intellettuale. Non poteva, perciò, diventare mai un ammiratore di Saint Just, anche se il mondo che sognava era molto simile a quello del rivoluzionario che aveva mandato a morte il re di Francia.

Ad un modello del genere poteva casomai ispirarsi il suo compagno di banco, Nicola Gangi, che nello studio non andava oltre una dignitosa sufficienza. Ma, il metro e ottanta di muscoli e l’indole generosa gli garantivano l’universale rispetto. Per questo lo chiamavano Spartacus, proprio in omaggio alle idee rivoluzionarie e al forte senso di giustizia.

I discorsi e le elaborazioni teoriche, invece, Nicola li lasciava a Vincenzo.

Ambedue, all’insaputa l’uno dell’altro, finirono, poi, per innamorarsi di Adele Faraci, nipote del loro professore di latino e greco, don Nunzio Longhitano.

Fu, però, Spartacus a dichiararsi ed a sposare la ragazza. Vincenzo, pur pensando che di nessun’altra donna si sarebbe mai più innamorato, si limitò a mantenere irreprensibili e formalissimi rapporti con la coppia. Col particolare che, quando le vicissitudini politiche lo portarono a nascondersi a Bronte, le malelingue parlarono di una sua relazione con donna Franca Faraci, vedova Solimena e sorella minore di Adele.

Per la stretta amicizia tra le famiglie dei Ganci e dei Natale, il giovane Nicolò, nipote di Spartacus, prima di diventare mazziniano, fu un ammiratore di Vincenzo.

I due strinsero i legami negli ultimi mesi del 1850, quando ormai il vecchio politicante aveva abbandonato ogni velleità di carriera e sperava di ottenere una semplice cattedra all’Università di Catania.

Infatti, appena sedicenne, il ragazzo era venuto a vivere a Militello, mandato dal nonno, perché rimasto orfano del padre, colpito dal coltello di un marito geloso.

Il loro dialogo fu intenso e pieno di reciproca stima, anche se non privo di contrasti caratteriali. Come, d’altra parte, risultò chiaro una mattina nella sacrestia della chiesa dell’Immacolata Concezione.

Erano davanti alla secentesca Madonna della Stella dell’acese Giacinto Platania.

“Non guardarlo come l’immagine di una Santa, questo quadro” commentò Vincenzo, indicandoglielo. “Pensalo come il ritratto di una regina che sta splendida e sicura sul suo trono, a mettere ordine nel disordine del mondo. Io l’ho sempre visto quale la perfetta raffigurazione di un programma di governo, che ho sognato di realizzare per quarant’anni e che la litigiosità dei baroni ha impedito.”

“Vedo che lei, nonostante le delusioni, resta un ministeriale” rispose Nicolò. “E ciò le viene dalla sua natura di studioso. Io, invece, non credo alle manovre della politica e preferisco la rivoluzione.”

Per una volta, Vincenzo si accalorò. “Non è possibile la rivoluzione, in Italia. A meno che tu non chiami rivoluzione gli sballati colpi di mano di Mazzini!”

In effetti, bisogna ammettere che la felpata e morbida attività istituzionale in cui Vincenzo eccelse non produceva effetti molto spettacolari. Per tutta la vita, la sua figura restò dietro le quinte, pronta a gettare la pietra della congiura carbonara, ma altrettanto pronta a nascondere la mano.

“Da un amico di Napoli” scrisse, per esempio, al padre, nel bel mezzo della repressione borbonica, dopo il fallimento della rivoluzione carbonara del 1820, “mi si scrive che per incarico di quel Ministero di polizia, dietro inchiesta del Ministero d’affari di Sicilia, fu domandato informo su di me: 1° intorno alla condotta tenuta sotto il cessato regime e del precedente, 2° come risultai Deputato, 3° se apparteneva a veruna setta, 4° se i sentimenti erano di liberale, o attaccato al trono. Ogni quesito fu soddisfatto in modo a me favorevole.”

Come si vede, Vincenzo seppe bene una cosa, soprattutto: che chi è ricco di amici è scarso di guai.

Ecco perché cercò amici in tutti gli schieramenti in campo. Era il suo modo naturale di far politica. Voleva i cambiamenti radicali. Ma, ogni cosa a suo tempo, cioè con nuove leggi e senza contrapporsi alla legge. Preferì travagliare le teste coi libri ed i discorsi parlamentari, senza solleticare i cuori coi proclami. Il che è un ottimo sistema per farsi trascurare dalla storia.

Lo scrisse al giovane Nicolò, nell’autunno del 1854, qualche mese prima della morte. “Come le donne, la storia guarda i muscoli e non la testa. Le idee sono il vento e le azioni le vele delle navi. Chi vede il vento all’orizzonte? Soltanto se ci stai sotto le vele si mostrano strattonate dall’aria che le gonfia. La storia di solito guarda il mare dalla riva: vede il bianco della tela contro l’azzurro del cielo, vede lo scafo che taglia le onde, vede in che direzione va la nave… Ma, non si cura di sapere da dove (e perché) viene il vento, né si sofferma a misurarne la forza.”

“Io, allora” gli rispose il discepolo, a stretto giro di posta, “voglio essere la vela dell’albero maestro.”

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Il “Real Collegio Capizzi” di Bronte e le idee di François-Noel Gracchus Babeuf

Pur nascendo in un paesino come Militello, nascosto nella provincia siciliana più sperduta, don Alfio Natale fu il prototipo di una lunga schiera di silenziosi commis, classe che è poi diventata il vento anonimo della storia moderna. Infatti, le vicende che lo videro protagonista dimostrarono quanto sia falso ciò che s’è creduto vero: la Sicilia borbonica non fu per nulla un mondo immobile, chiuso in un feudalesimo mai messo in discussione.

A Militello, per esempio, era molto presente e potente la categoria dei professionisti. Quando, dopo l’arrivo dei garibaldini, fu votata la decadenza del regime borbonico, in una popolazione che non arrivava a diecimila abitanti, si trovarono a dare il voto favorevole 28 sacerdoti, 6 padri benedettini, 15 avvocati, 12 medici, 5 farmacisti, 4 architetti e 3 notai.

Molti dei professionisti che formavano le classi dirigenti delle città provenivano dal collegio Capizzi di Bronte.

Nell’Ottocento e per buona parte del Novecento, insieme al Pennisi di Acireale, esso fu un pilastro dell’educazione e culla della massoneria isolana. Infatti, divenuto laico dopo l’Unità d’Italia, col nome di Real Collegio Capizzi, ospitò personaggi destinati a farsi un nome, nella cultura e nella politica. Il giovane Luigi Capuana, fra gli altri, lì compose i primi versi, senza contare i rampolli di buona famiglia destinati a diventare personaggi politici – fino ad arrivare, nel crepuscolo della sua esistenza come istituzione, a Marcello Dell’Utri (testa pensante del partito di Silvio Berlusconi) e (perché no?) anche a chi scrive -.

L’edificio stesso era simbolo della sua funzione. Aveva una solennità orizzontale, incastonata negli angoli di pietra lavica. Le pretese di eleganza poggiavano sul gioco delle linee grigio-scure, che incorniciavano porte e finestre. Tutto in esso dava l’idea di una solidità inattaccabile dall’invadenza del mondo esterno, ma plasticamente presente nel tessuto urbanistico.

Era stato pensato così, col nome di Reggie Pubbliche Scuole di Educazione, dal Venerabile don Ignazio Capizzi e costruito in soli quattro anni, dal 1774 al 1778. Vista la generale tetraggine che ha dato ai collegiali nei secoli della sua esistenza (compreso a noi), parrebbe che ogni sua pietra sia stata tirata fuori da uggiose giornate di pioggia.

Quando, però, don Alfio Natale vi portò il figlio Vincenzo, l’istituzione viveva il suo momento d’oro.

“Grazie all’illuminata protezione di sua maestà Carlo III di Borbone” gli disse il Rettore, “il nostro Collegio è diventato un faro del sapere. Nei pochi anni della sua esistenza ha già potuto conquistarsi un’acclarata fama, come centro di sapienza e dottrina. Questo per il rigore delle Regole, che sono quelle volute dal suo Fondatore. Esse prevedono obblighi e doveri, sia per i convittori, che per i professori. Latino, greco ed eloquenza sono per noi le materie regine e disponiamo di un ricco patrimonio librario, in parte proveniente dalla collezione personale dello stesso don Capizzi.”

Il prete non esagerava. Gli ottimi professori che vi insegnavano ben presto permisero a Vincenzo di acquisire uno stile essenziale, chiaro ed improntato alla concretezza; in linea con canoni illuministici ed in sintonia con l’ambiente di appartenenza.

A Bronte, però, Vincenzo Natale ebbe pure il primo contatto con personaggi appartenenti alla galassia dei movimenti genericamente definibili comunisti. Aveva sedici anni e quel giorno aveva avuto il permesso di uscire dal Capizzi, per andare a studiare nella casa di campagna del suo amico Spartacus, in contrada Colla, poco a sud del paese.

Era il giugno del 1797. Le piante, gli animali, le pietre e la stessa polvere sui mobili sembravano immobilizzati dalla cappa del sole. Non c’era un filo di vento e persino l’odore del gelsomino che si arrampicava sul muro esterno, vicino alla finestra socchiusa, aveva un qualcosa di dolciastro, di materia in decomposizione.

I due ragazzi si trovavano impegnati nello studio per gli imminenti esami e quel posto rappresentava l’unico punto, si fa per dire, di refrigerio. Aspettavano il loro professore di latino e greco, padre Nunzio Longhitano, che doveva chiarire alcuni passi oscuri del libro VI delle Guerre del Peloponneso di Tucidide. Una caraffa di limonata sul tavolo rappresentava l’ultima difesa contro una sete inestinguibile.

D’improvviso sentirono lo svolazzare di una tonaca e il prete calò su di loro come un falco sulla preda. Teneva in mano un foglio, probabilmente una lettera appena arrivatagli.

“Hanno condannato a morte Babeuf!” disse, senza salutare.

Vincenzo lo guardò perplesso. Non avrebbe dovuto esserci alcun motivo, per un sacerdote, di agitarsi tanto per la morte di un rivoluzionario ateo. “So che era un senza Dio…”

“Era un giusto!” ribatté padre Longhitano, con gli occhi fuori dalle orbite.

“Voi parlate così?” si stupì Vincenzo. Ma, proprio allora, decise di non stupirsi mai più, di nulla.

“La storia racconterà che a Parigi c’è stata anche la rivoluzione del movimento degli uguali” interloquì Spartacus. “E’ fallita, purtroppo. Sapevo del processo; ma, speravo che non si arrivasse a tanto. Francois Gracchus Babeuf, Filippo Buonarroti e Darthé sono e resteranno la parte migliore della Francia libera.”

“Ci avrei scommesso che anche tu eri rivoluzionario.” disse sorridendo Vincenzo.

“Ambedue facciamo parte del Cenacolo.” confermò padre Longhitano.

Vincenzo lo guardò con aria interrogativa.

“Il modello è quello del Comitatodi Babeuf…” aggiunse Spartacus.

“Non andare oltre!” lo interruppe bruscamente Vincenzo.

Il suo viso, però, si addolcì subito dopo; e, rivoltosi al sacerdote, prese un’espressione cordiale. “Padre, io non so se sono ancora pronto per sentirvi…”

Gli si avvicinò e gli prese la mano, portandosela sul cuore. “Anch’io credo che Babeuf fosse un illuminato. Ma, la sua strategia non è approdata a nulla. La rivoluzione e la prudenza sono due guerrieri che debbono combattere insieme, come gli Aiaci.”

Ciò che non sapevano, né padre Longhitano né Spartacus, era il fatto che Vincenzo si era già documentato sull’azione e sulla struttura del Comitato Insurrezionale del Movimento degli Eguali. Ma, per una legge personale, che non trasgredì mai, lasciava trasparire pochissimo di ciò che pensava e nulla di ciò che intendeva fare. In questo senso, egli, molto più dei suoi interlocutori, era coerente con la mentalità del Comitato di Babeuf, rigorosamente clandestino e al vertice di una piramide organizzativa, i cui membri per lo più non si conoscevano fra di loro.

In ogni caso, un mese prima egli aveva avuto occasione di parlarne con suo padre.

“Noi siamo massoni” gli aveva risposto don Alfio, cambiando subito argomento.

Era il suo modo di trasmettergli il perentorio ordine di dimenticare, per il momento, gli Eguali di Babeuf e, a maggior ragione, la stessa massoneria.

4

Una tipica famiglia di notabili: i Natale di Militello

Al visitatore che si avventura nelle curve che da Scordia salgono a Militello si apre subito uno scenario surrealista. Una foresta di simboli parla della vita della gente che vi abita. Vedi la pietra calcarea sotto il peso del sole, vedi il groviglio dei rovi scortesi e disseccati, vedi le boscaglie di fichidindia polverosi ed opachi, vedi sui muli e sotto gli alberi i contadini piegati dall’imperio di un lavoro senza gioia e senza futuro. Ogni curva è cieca come il destino ed il sole sugli occhi ti dimostra che la luce, molto meglio dell’ombra, sa nascondere il paesaggio. In autunno verrà, poi, un po’ di pioggia. Allora, sarà la sterpaglia che, prima di marcire nella terra, riacquisterà rossori adolescenziali.

Come gli sterpi, per il breve volgere di alcuni anni, a Militello le piccole dinastie di potenti avevano dominato il paesaggio. Da tre secoli e mezzo, dopo che i feudatari erano andati a vivere in città, esse erano costituite da funzionari, cioè il potere presente sul luogo, cioè il vero potere. Nel Seicento comandavano i Russo, divenuti baroni della Nicchiara per meriti professionali. A questi erano subentrati i Majorana, che s’erano presi pure il loro titolo. Subito dopo, in lotta contro di loro, era spuntata la famiglia dei Natale.

L’affermarsi di questa nuova classe dirigente era stato favorito dalla ricostruzione, venuta dopo il terremoto dell’11 gennaio 1693. In pochi minuti erano andate giù la navata centrale e la navata di sinistra della vecchia Santa Maria della Stella, portando via con loro tutto il lato nord del castello normanno. Era rovinata per intero la vecchia chiesa di San Nicola. Erano rimasti sbilenchi, o danneggiati, i monasteri di San Domenico, di San Leonardo, di San Francesco e della Madonna degli Angeli, oltre ai monasteri femminili di San Giovanni e di Sant’Agata. Avevano retto bene, invece, la chiesa del Purgatorio, la chiesa di Sant’Antonino ed il maestoso complesso della chiesa e del monastero di San Benedetto. Nell’insieme, in breve, la città aveva visto andare fuori uso quasi trenta luoghi sacri, senza contare le cappelle private e le chiesette di campagna.

Era stato un colpo micidiale anche per l’economia e per gli assetti sociali del tempo. Infatti, il clero della controriforma non si limitava alla recita dei rosari ed a impartire battesimi ed estreme unzioni. Esso, piuttosto, rappresentava un’organizzazione per mantenere il controllo della città: i cappuccini si occupavano dei popolani, i domenicani con la loro predicazione formavano la morale comune, gli agostiniani curavano l’istruzione, i benedettini gestivano una vera e propria impresa agricola, i monasteri femminili si erano specializzati nei lavori domestici e davano asilo alle orfanelle.

Ciò aveva reso necessario un gran fervore nella ricostruzione. Le professioni, perciò, sempre meno ristrette nelle corti dei principi, avevano acquistato nuove consapevolezze ed avevano cominciato la loro ascesa nella considerazione pubblica. Vincenzo, quindi, era il rampollo di una dinastia del potere locale, che aveva legittimato la sua condizione col prestigio intellettuale del capostipite, Vincenzo Natale il Vecchio (1720 – 1760), medico lodato per l’ottima preparazione professionale e per il notevole interesse per la scienza, attestato dalla ricca biblioteca.

La via di Militello in cui, il 16 giugno 1781, nacque il nostro Vincenzo oggi volgarmente viene chiamata a chiazza lurda, la piazza sporca. Questo perché, fino a qualche decina di anni fa, la presenza di alcuni fruttivendoli comportava il lento putrefarsi per terra di foglie di broccoli, pomodori, gambi di carciofi, cartacce, cassette di legno, cacca e piscio di cavallo e quant’altro è possibile immaginare in termini di afrori.

Allora, ai tempi del Natale, la vita non aveva ritegno ad invadere i nasi. Si potevano persino riconoscere le stagioni dagli odori. L’estate davanti alle case aveva quelli dei peperoni arrostiti e delle melanzane fritte. Verso il finire, poi, prendevano il sopravvento gli aromi dei pomodori e dei fichi, messi a seccare al sole su piattaforme di canne. Ad ottobre era il momento in cui si aspirava la mostarda di ficodindia. E, dopo, l’autunno s’inoltrava dai frantoi, dai trappeti, dalle bisacce sul dorso dei cavalli, degli asini e dei muli con gli effluvi del mosto e dell’olio nuovo. L’inverno profumava di arance (persino nel presepio se ne mettevano); ma, era l’incenso delle salsicce e del lardo che sfrigolavano sui bracieri che comunicava la festa. Infine, la primavera veniva con l’allegro scampanio della Pasqua e si inalavano le frutta, le verdure, le frittate, il mais abrustolito, le insalate bagnate dal verde intenso dell’olio crudo.

Neppure delle salite si aveva paura, allora. Le strade si allungavano man mano che la gente costruiva. E siccome la tendenza era di inerpicarsi sulla collina, anche le strade si inerpicavano, come a cercare l’aria. Così, da quelle ripide discese i carretti ed i carrioli vivacizzavano la vita col rumore delle ruote saltellanti sul basolato. Rumori che s’intrecciavano come voli di rondini con le grida dei venditori e dei monelli.

Sembrerebbe, però, che Vincenzo, come la dea Minerva, fosse nato già bell’e fatto, dato che c’è una spessa coltre di silenzio sulla sua infanzia in quel quartiere popolare. Magari, avrà combinataqualcuna delle marachelle tipiche dell’età e del posto. Che ne sappiamo… avrà rubato i fichi nei campi; avrà bersagliato i ragazzi degli altri quartieri, durante una delle tante timpiate, che erano delle battaglie a colpi di pietre; avrà occhieggiato le abbondanze delle lavandaie al fiume Lembasi.

In verità, ne dubito e mi dispiace per lui. So, comunque, che a scuola si era fatto subito apprezzare per la sua intelligenza (da qui, il mio dubbio di prima).

Vincenzo ebbe due fratelli minori, Felice (nato nel 1785 e morto nel 1861) e Sebastiano (nato nel 1801 e destinato a morire giovanissimo); e tre sorelle, Cristina, Giuseppa e Maddalena. Di nessuna delle tre ci si è curato di tramandare le date di nascita e di morte. A quei tempi il femminismo non esisteva.

Incontreremo ancora il fratello Felice, più avanti. Per ora, è sufficiente dire ch’egli fu molto diverso da Vincenzo, persino nell’aspetto fisico. Questi era di media statura, con uno sguardo acuto, il naso stretto e le labbra sottili. Era, inoltre, fine nel portamento, con un non so che di notarile e di marchesotto e benestante settecentesco..Felice, invece, aveva una figura possente, tanto da essere soprannominato Re di Prussia. Al vistoso vigore fisico, però, non corrispondeva un’adeguata forza intellettuale.

I ricordi su di lui si concentrarono soprattutto sul servo dallo sguardo ebete che lo seguiva, montando una giumenta baia, e sulla cavalla storna, sopra la quale si recava fiero nelle sue proprietà, poste nella parte orientale della contrada Santa Barbara. Il fondo sul nostro esame caduto, così localizzava le proprietà di Felice l’architetto Giuseppe D’Agata in una perizia del 1843, per il frazionamento delle terre del monastero di Sant’Agata, è sito alla banda meridionale e orientale del Comune di Militello. Gli dista circa un miglio. Nomasi S. Barbara. Viene circoscritto da pubbliche trazzere e da fondi di Maria SS.ma, del Convento di S. Domenico di Militello, di D. Giuseppe Ricotto ed altri censisti per tramontana e ponente, da una tenuta di D. Alfio Campisi per Oriente e da diversi fondi di D. Felice Natale…

In pratica, dunque, egli non uscì mai dal cliché del possidente siciliano ottocentesco. Sposò Franca Reforgiato, sorella di don Vincenzo, massimo esponente di una famiglia prima massonica e poi carbonara, fra l’altro da sempre alleata dei Natale.

Un particolare affetto Vincenzo lo provò per l’altro fratello, Sebastiano, spentosi immaturamente nel 1822, probabilmente perché ammalato di tisi.

“Sebastiano va meglio” scriveva Vincenzo al padre, da Catania, il 3 novembre 1821, “sia per la cura sia per l’aria. I medici però tutti convengono che deve sfuggire il freddo e l’umido. Non è quindi possibile che per questo inverno ritorni in Militello.”

Ma, pare che Sebastiano non la pensasse affatto come lui, dato che a sua insaputa aveva chiesto delle vetture per tornarsene al paese. E la cosa non è liquidabile come puro capriccio. Credo, invece, che avesse chiara coscienza della inevitabilità della fine. Era di troppo viva e troppo precoce intelligenza, se già a dodici anni aveva una buona preparazione nelle lingue e nelle letterature latina, greca, italiana e francese. A sedici anni appena, poi, aveva realizzato un sunto del sistema di Linneo e nella chimica aveva avuto un premio dall’Università degli Studi di Catania, per voto del celebre prof. Maravigna.

“Egli è ora nel punto di guarire” scriveva ancora al padre un non rassegnato Vincenzo, il 22 di quello stesso mese, “o di perdersi, è migliorato ma di tanto in tanto lo visita la febbre, e la tosse; dunque il morbo prosegue, né si è impinguato; la sua risoluzione di partire è follia, e contro il parere dei medici, fra i quali il Calvagna, che suppongo il migliore in Catania.”

In verità, ci potrebbe essere anche un’altra motivazione, per spiegare tanta incosciente insistenza da parte di Sebastiano, nel volersene tornare nella nebbiosa Militello: quella ch’egli fosse un medico molto attaccato al suo lavoro.

“A’ giorni nostri” dirà Vincenzo, ricordandolo alcuni anni dopo, “un medico avrebbe avuto Militello da non farci invidiare le altre città principali. Sebbene morto ad appena vent’un anni, ebbe assai prima allievi e in medicina e in chimica, che ne sono oggi professori in Militello.”

Ancora adolescente, infatti, si era laureato in medicina ed aveva dato tali prove della vastità dei suoi interessi, da meritare l’amicizia del famoso conte Brocchi, a cui aveva fatto visitare i dintorni del suo paese ed il lago di Naftia.

Molto più ritirate furono le sorelle, che si mantennero all’interno delle condizioni di vita della classe dei possidenti.

La maggiore, Cristina, fu monaca clarissa, uscendo, poi, dal chiostro in cui si era ritirata.

Giuseppa sposò un benestante di Licodia Eubea, dove andò a vivere. Dovette essere persona molto affezionata alle cose di famiglia, stando alla notizia della sua acquisizione di un’eredità dei Natale a favore dei cugini Baldanza, da questi rifiutata per i troppi legati che la gravavano.

Maddalena, infine, sposò il professionista Giacomo Tamborino di Mineo.

5

Sotto il riformismo del vicerè Domenico Caracciolo

Nel tempo in cui Vincenzo Natale venne al mondo la Sicilia conosceva grandi novità, grazie all’opera del viceré Domenico Caracciolo e del suo successore, il massone Francesco Maria d’Aquino, principe di Caramanico. Essi erano i politici ammirati da don Alfio Natale ed ogni sua parola si rifaceva alle loro idee, come spiegò al figlio, il giorno in cui decise di ammetterlo nella massoneria.

Erano nella libreria della casa di Militello, una stanza a pianterreno, indipendente dal resto della casa, dove don Alfio riceveva clienti e massari. Il locale era ampio e godeva di una certa frescura d’estate, mentre d’inverno per riscaldarlo bastava un piccolo braciere. Per questo, egli vi passava la maggior parte delle ore, studiando e scrivendo. Amante della tranquillità, l’uomo non permetteva a nessun familiare di entrarvi. Soltanto la vecchia domestica poteva andarci, verso le otto del mattino, per un po’ di pulizie. Ovviamente, l’ordine tassativo era di non toccare carte, o libri sparsi sul lungo tavolo. Quindi, il fatto che Vincenzo, in quella fredda mattina di febbraio, vi fosse stato ammesso era un grande privilegio. Fuori, c’era una pioggerellina fine, che picchettava il vetro della finestra e sfocava i passanti chiusi nei loro mantelli neri. Don Alfio ravvivava la carbonella nel braciere posto sotto la finestra, mentre Vincenzo stava seduto a guardarlo.

“E’ un mistero” disse. “Sono ancora in tanti a non capire il perché a Napoli abbiano voluto costringere Caracciolo, che non ne aveva alcuna voglia, a lasciare Parigi per venire in Sicilia.”

Andò allo scaffale dei libri. Senza alcuna apparente premura, trasse fuori un volume. Era un Seneca. Vincenzo lo riconobbe dalla rilegatura in marocchino rosso con le scritte dorate. “Pensa che le resistenze furono tali che Caracciolo si decise a lasciare Parigi un anno dopo la sua nomina. Giunse a Napoli nel giugno 1781, proprio mentre nascevi tu, e sbarcò a Palermo nell’ottobre successivo.”

Trasse fuori dal libro una serie di fogli, alcuni dei quali ingialliti dal tempo. “Senti come si esprimeva col mio e suo amico Ferdinando Galliano. Sono parole ch’egli mi ha trascritto per permettermi di portare a termine la storia delle riforme in Sicilia, a cui lavoro da anni: Eccomi, caro amico, relegato “sur des arides bords de la sauvage Sicilie”, e sono occupato “toto marte” a procurare il bene pubblico. Ma incontro difficoltà grandi e “des entraves” ad ogni passo, forse le più forti derivano da un vizio di governo.”

Posò i fogli sul tavolo. “Il vizio di governo, figlio mio! Capisci perché è nata la massoneria? Bisogna superare il vizio di governo, mettendo finalmente al posto giusto gli uomini giusti. Da principe dei lumi qual era, Caracciolo si diede subito da fare per abbattere gli antichi simboli della superstizione, a partire dal tribunale dell’inquisizione. Così, meno di un anno dopo poté comunicare le sue novità a D’Alembert, come, ancora, l’amico Galliano ha trascritto dal Mercure de France…”

Riprese in mano i fogli e uno lo mise in cima agli altri. “E’ datata 27 marzo 1782… Je me riserve à la fin, pour la bonne bouche, de vous dire, avec un peu de vanité de ma part, l’abolition de l’Inquisition: le jour 27 du mois de mars, mercedi saint, jour mémorable à jamais dans ce pays, pour le roi Ferdinando IV, on a abattu ce terrible monstres.”

Si avvicinò al figlio, solennemente. “E, finalmente, passò al denunciato vizio di governo. Mise mano allo smantellamento del regime feudale. Cercò, in pratica, di levare quanta più terra poteva al clero ed al baronaggio e favorì un’agricoltura libera dai legami del vassallaggio. L’impresa apparve subito delicata, difficile, rognosa…”

Più di quarant’anni dopo, un ormai anziano Vincenzo Natale si ricordò dei giudizi che suo padre aveva espresso sul governo del viceré Caracciolo. Volle aggiungervi, perciò, una vivida rappresentazione dell’epoca, mettendola per iscritto in una lettera indirizzata al principe di Granatelli:

“I tempi del buon Gregorio erano pieni più che mai di sospetti, e stava quegli come suol dirsi tra l’incudine e il martello, baroni e Governo. I baroni, ancorché abbassati dal Caraccioli (sic), non perciò lasciavano di essere potenti, e di avere somma influenza. Lo stesso Caraccioli scrisse al D’Alembert: ho domato la superstizione, e la feudalità, ma sento che questa bestia già mi morde la mano. Il Gregorio scriveva in mezzo a queste ire per obbligo di cattedra e vivea di tale appuntamento. Non avea via di mezzo, o di stare sui riguardi, o di morire per lo meno di fame; non dico di marcire in carcere, come indi a poco cominciò a giuocarsi, dacché fu stampata la sua introduzione. Né potendo trattar bene i baroni, fu necessità di farsi dalla parte del Governo, che che avesse pensato dell’antico. Buono dunque fu il suo animo, il so per prova, perché io ancorché troppo giovane spesso lo avvicinava. Scinà, suo censore, che fu pure suo discepolo, lo trattò con somma ingratitudine, vivo e morto, senza badare al proprio sentimento, che fece chiaro in tutti i suoi scritti, e più di ogni altro nel secondo periodo dell’antica letteratura siciliana. L’articolo morale non era fatto in buona coscienza per Scinà, se vogliamo far valere il sublime amor del vero, né potea essere giudice competente.”

Ma, quando aveva ascoltato suo padre, per come erano andate le cose, Vincenzo aveva visto soprattutto la necessità di costruire una struttura di potere siciliana, che fosse forte abbastanza da riuscire a battere gli antichi privilegi: la massoneria appunto.

“Purtroppo” aveva, infatti, concluso don Alfio, “Caracciolo poté avvalersi soltanto di collaboratori napoletani. In Sicilia il lavoro era ancora tutto da fare e la provvidenza volle che, andato via Caracciolo, come viceré venisse un massone, il principe di Caramanico.”

6

Intrighi e Massoneria: la Regina Maria Carolina d’Austria

Le prime logge di cui aveva notizia risalivano al 1754 ed operavano sotto l’autorità della Loggia di Marsiglia.

Nel 1760 esse ottenevano una nuova Costituzione dalla Gran Loggia d’Olanda. Ma, appena sette anni dopo, passarono al rito inglese, finché non si deliberò di costituire una Gran Loggia Nazionale dello Zelo a Napoli.

Questa, a sua volta, costituì quattro nuove Logge: della Vittoria, dell’Uguaglianza, della Pace e dell’Amicizia. Confermò, inoltre, due Logge dipendenti, una a Messina e l’altra a Caltagirone. In seguito, nacquero anche le logge di Catania e di Gaeta.

Da subito la storia della massoneria borbonica si era intrecciata con gli intrighi di corte.

Così, contro queste logge, il 10 ottobre 1775, era stato emesso un editto, che ne richiamava un altro precedente del 1751, ispirato dal primo ministro Tanucci. Nel documento la Giunta di Stato ordinava di

…procedere come nei delitti di lesa Maestà, anche ex officio, e colla particolare delegazione e facoltà ordinaria e straordinaria “ad modum belli””.

La minaccia, però, non aveva preoccupato più di tanto la fratellanza massonica. I suoi capi erano collocati troppo in alto nella gerarchia di corte, arrivando alla stessa Regina Maria Carolina. Infatti, in cima alla piramide, alla guida della Gran Loggia Nazionale dello Zelo, ci stava il principe di Caramanico, molto vicino alla sovrana.

Se, quindi, Maria Carolina poteva contare sui massoni guidati dal Caramanico e dal Duca di Sandemetrio Pignatelli, di contro erano nate due Logge a lei ostili e quella, dichiaratamente nemica, del principe di Ottajano.

Ne dava un’idea un manifesto del 7 dicembre 1775:

Precisiamo ancora che in questa città si trovano anche due Logge irregolari, che non sono state da noi mai riconosciute. La ragione è d’una parte perché non sono state costituite in concordanza con i veri principi dell’Ordine, volendo essere governate da Superiori esteri, d’altra parte perché nel nostro paese sono atte piuttosto ad ostacolare i veri scopi, i loro membri essendo esclusivamente delle persone che consideriamo indegne di essere da noi accettate. Oltre a queste due, vi è in quest’Oriente ancora una Loggia piccolissima e completamente degradata, sotto la guida del Principe di Ottajano, il quale, pur essendo stato iniziato da noi, in seguito si è lasciato trascinare dal falso orgoglio di voler essere alla guida di una Loggia. Attraverso diversi maneggi egli ha carpito una Patente dal Duca di Lussemburgo, il quale alcun tempo fà era qui presente, quale Grand Administrateur Général delle Logge francesi (…) Egli ha cominciato i suoi lavori irregolari con alcuni Francesi e Napoletani, e persiste tuttora, malgrado il fatto che il Duca di Lussemburgo stesso, dopo aver avuto conoscenza della vera natura delle circostanze, ha riconosciuto la nostra autorità, ritirando la Costituzione da lui concessa. In conseguenza consideriamo la sua Associazione come una Loggia irregolare.

In un clima simile, per mettere nei guai i massoni vicini alla Regina, il 2 marzo 1776 fu organizzata nella villetta Marselli di Capodimonte la finta iniziazione di un nobile polacco (in realtà un servo, al quale era stato promesso un compenso di 200 ducati). Sul posto si erano ritrovate dieci persone, due delle quali non massoni, sei massoni irregolari e due massoni regolari (il professore di matematica Felice Piccinini ed il grecista Pasquale Baffi).

Al cominciare dei travagli, la dimora era stata circondata dalla sbirraglia, al grido di Viva il Re! ed i convenuti erano stati arrestati e portati nella Casa del Salvatore. Veniva, poi, redatto un curioso conto delle spese dell’operazione, destinato al primo ministro Tanucci, datato 30 marzo 1776:

Per l’incarico comunicatomi da V. E. à voce, rapporto a’ Liberi Muratori, dalli 28. del mese di Gennaio à tutto li 2. Marzo cadente, giorno della sorpresa della Loggia sopra Capodimonte, si sono spesi Docati trecento cinquanta Sette, e grana 40. E successivamente dalli 3. Marzo a tutto li 29. detto per mantenimento de’ soldati destinati alla custodia de’ Carcerati nella Casa del Salvatore, e per spese diverse, come di carboni, olio, maniglie di ferro alle stanze, funi, cati, ed altro, per mano di Carlantonio Vittoria Capitano della Giunta di Stato, come dalle note, si sono spese Docati Sessantasei e grana 92. E per vito (sic) ai Carcerati, che sono al numero di nove, dal di 3. Marzo per tutto li 19. detto, si son pagati al Trattore Docati sessantadue e grana 89.

Nel processo contro gli arrestati il Principe di Caramanico e Diego Naselli (anch’egli vicino alla Regina) avevano usato le loro amicizie per arrivare ad una sentenza mite. La difesa, inoltre, era stata affidata al brillante avvocato Felice Lioy, della Gran Loggia Nazionale. Così, la causa aveva preso una svolta sorprendente: l’accusatore, un certo Pallante (quello della sopra riportata nota delle spese), era stato incriminato di messa in scena e, 1’11 marzo 1777, i prigionieri erano lasciati liberi. Pallante era caduto in disgrazia, ed addirittura il ministro Tanucci era stato messo in pensione. Per la verità, però, anche Lioy se n’era misteriosamente scappato, recandosi a Vicenza, dove aveva conosciuto e sposato la figlia del Gran Cerimoniere Francesco Modena, della Gran Loggia di Venezia.

Da parte sua, il gran maestro principe di Caramanico aveva fatto una formale abiura della massoneria, cosa per lo meno poco credibile, per uno che aveva avuto tale nomina a vita. Infatti, nel 1791, mentre era viceré di Sicilia, il suo nome compariva sulla lista dei sospetti, insieme a quello di due dei suoi figli. In quegli anni, infatti, la regina Maria Carolina era ormai diventata reazionaria e fisicamente vicina a un nemico di Caramanico, il mercenario inglese, ministro della guerra, lord Acton.

7

I silenzi dei perdenti: padre Bernardino, fraticello di Ucrìa, e l’orto Botanico di Palermo

Alfio Natale era stato iniziato nella loggia dell’ardore di Catania nel 1779, quando la Gran Loggia Nazionale di Napoli era guidata da Diego Naselli e aderiva al rito dei riformati di Lione. Dopo avere incorporato la loggia degli intraprendenti di Caltagirone, quella di Catania contava diciotto membri. Altre logge in Sicilia erano quella della Vittoria di Trapani (quindici membri), quella della Concordia di Palermo (ventisei membri) e quella de’ Costanti o della Riconciliazione di Messina (quindici membri).

Il salto di qualità nella sua carriera professionale, perciò, avvenne proprio durante il vicereame del principe di Caramanico. Con lui ci fu il rapido diffondersi della massoneria in tutta l’isola. Ciò significò soprattutto la valorizzazione degli intellettuali locali, anche se i funzionari napoletani restarono in molti posti-chiave. Venne, per esempio, affidata al filosofo isolano Tommaso Natale l’elaborazione e la gestione del piano per la concessione enfiteutica dei beni comunali, dandogli i poteri autonomi di regio delegato. A sua volta, Tommaso Natale riunì attorno a sé i migliori elementi del moderatismo siciliano, Paolo Balsamo e Gaetano La Loggia.

Il nuovo clima favorì l’ascesa del militellese Giuseppe Tineo, amico e protettore, prima di Alfio e poi di Vincenzo Natale.

Nato nel 1756, Tineo era figlio di un dottore in legge e contava una lunga sequela di zii preti, piuttosto reputati per la loro dottrina. Per sua fortuna, in quegli anni a Palermo si pensava di far nascere istituzioni di pubblica utilità: il Camposanto, l’osservatorio, le scuole normali, l’orto botanico. Perciò, oltre a diventare cattedratico all’università, egli fu il primo direttore dell’Orto Botanico. Ovviamente, il prestigio gli derivò da quest’ultima incombenza. Essa era davvero importante, se si considera che, per metterlo in condizione di svolgerla, Caramanico lo mandò nelle scuole di Pavia, a spese pubbliche (poi, gli succedette nell’incarico il figlio Vincenzo, che a sua volta adottò come figlio – qualcuno pensò che lo fece perché ne era il padre naturale – il grande architetto Giambattista Filippo Basile. Da Giambattista, quindi, nacque l’indiscusso maestro del liberty italiano, Ernesto Basile).

In verità, come ci raccontò lo storico dell’agricoltura Sebastiano Di Fazio (“Militello Notizie”, rivista del Comune), la creazione dell’orto botanico fu dovuta soprattutto a un padre Bernardino, fraticello di Ucria, nominato professore in sostituzione di Tineo, mentre questi soggiornava a Pavia. Fu il religioso ad elaborare un’accurata catalogazione di tutte le piante, secondo il sistema del Linneo. Tineo ebbe soprattutto la sfrontatezza di copiarla, senza neppure citare la fonte a cui aveva attinto. Tanta arroganza gli veniva dalla sua appartenenza alla massoneria palermitana, nella quale era stato introdotto da don Eutichio Barone. Ciò lo aveva reso ben visto ai componenti la Deputazione degli Studi e principalmente al principe di Caramanico.

Il giorno dell’inaugurazione del nuovo orto botanico, così, nonostante l’inverno precoce (si era appena al 9 dicembre), tutta Palermo si riversò dalle parti di Porta Castrofilippo e di Porta Reale. Era un continuo via vai variopinto di persone vestita a festa e di vetture di gala. Tutti convergevano sulla spianata dove sorgeva l’edificio centrale dell’Orto. I soldati facevano fatica a mantenere libere le vie di accesso.

“E’ uno spettacolo nuovo in questi luoghi solitari” disse il principe di Caramanico alla buona amica che gli sedeva accanto nella carrozza, la baronessa Matilde Carrano di Sorrento.

“La moltitudine di curiosi si ingrossa sempre più” osservò la donna.

Guardò negli occhi il principe, nascondendo male dietro il fazzoletto profumato un sorriso di complice ammirazione. “E’ la sua vittoria finale, caro principe.”

“Già! La piazza è diventata uno scintillio d’armi, di bottoni, di mazze dorate, di decorazioni… un brulicare di teste incipriate e imparruccate, di abiti, di toghe, di pastrani, di uniformi di tutti i colori.”

Mentre il pricipe dispensava saluti e inchini a destra ed a manca, dietro avanzavano i cocchi del Senato palermitano e dell’Arcivescovo Lopez. Seguivano le vetture dei nobili, dei prelati e degli alti dignitari. Tra la folla, molti erano professori, dottori, speziali.

Il corteo si fermò dinanzi al grande scalone del ginnasio dell’Orto botanico. Un’immensa tela copriva la facciata… tutti gli sguardi vi erano rivolti.

Ci fu un suono di tamburi e la tela cadde. Scrosciò un applauso all’apparire di uno sventolio di fazzoletti e di cappelli.

“Viva il Re!” si gridò. “Viva Palermo!”

L’arcivescovo Lopez benedisse gli edifici e la folla si sparse per le sale e per i viali. Si ammirarono le piante più rare, con sul volto un’espressione di orgoglio per quel nuovo prestigio che veniva alla città. In mezzo a tanta gente, non cercato da nessuno, c’era padre Bernardino, a vedere come il frutto del suo impegno veniva colto da altri.

Poche settimane dopo, il frate morì di crepacuore.

8

Massoni, scrittori e imprenditori: Felice Lioy e la Rivoluzione industriale

A Militello tra le famiglie dei Natale e dei Tineo si realizzò una salda alleanza politica. Molte volte, perciò, a Palermo Vincenzo Natale fu ospite di don Giuseppe Tineo e questi, a sua volta, nell’estate del 1800, soggiornò nella villa di don Alfio, il padre di Vincenzo.

La dimora sorgeva ai bordi della contrada di Francello, in un altopiano esposto al vento di tramontana, che scende direttamente dall’Etna. Ma, non era soltanto la frescura ad attirare lì il Tineo. Egli condivideva con don Alfio la passione per la storia. I dintorni di Militello, perciò, erano un richiamo irresistibile, dato che vi si trovavano espressioni delle culture preistoriche. Fu proprio in questa occasione che Vincenzo si avviò allo studio sistematico dell’archeologia, dove poi lasciò qualche traccia di sé.

Tutto cominciò mentre un emozionato Giuseppe Tineo teneva in mano una ceramica neolitica, riconoscibile per le decorazioni impresse Era un vasetto che proveniva da una collezione secentesca, forse quella dello storico Pietro Carrera.

“Così” osservò don Giuseppe, “con queste linee a giro si suggeriva e si esaltava la forma del vaso. In un certo senso, era come se con la decorazione venisse definito l’oggetto, sottolineandone una specie di forma assoluta.”

Col suo enorme pollice da contadino accompagnò le curve del vasetto in una lieve carezza, che a Vincenzo parve di quelle che si fanno sul viso di una bella donna.

“Probabile” disse don Alfio. “Sono presenti molti oggetti di questo tipo a Oxena.”

“Già” confermò Tineo. “In quest’epoca gli uomini mantengono pure un forte legame coi morti. I cadaveri vengono inumati individualmente in una fossa delimitata da ciottoli e pietre. Era un modo di concepire la vita che piacerebbe molto al poeta Ippolito Pindemonte.”

“Forse, qualcosa di più” disse Vincenzo. “Forse era il simbolo della fratellanza tra tutti gli uomini, anche se divisi dalla morte.”

“Può darsi” concesse Tineo, che, però, era preso soprattutto dalle sue descrizioni. “Per le forme architettoniche funerarie più evolute, so che la più diffusa era una fossa quadrangolare foderata con lastroni di pietra. Lì venivano inumati più individui in posizione ranicchiata. Poi, le sepolture diventarono delle fosse allungate, dove i defunti stavano in posizione supina.”

“Un mio giovane amico, il barone don Vincenzo Reforgiato” disse don Alfio, “ha trovato a Oxena un vasetto decorato e graffito dopo la cottura, che secondo lui risale a un’epoca anteriore a quella di Omero.”

“Mi farà piacere vederlo” disse il Tineo.

“Anche perché” riprese don Alfio, “i primi nostri resti consistenti risalgono proprio a quei tempi. Ne sono un esempio le tracce di alcune capanne, delimitate da stretti fossati ed una tomba a pozzetto, che si trovano in contrada dosso Tamburano. Pure sul pianoro prospiciente Fildidonna sono stati trovati resti simili.”

“La morte è riuscita ad attraversare bene i secoli” commentò Tineo.

“C’è da crederlo” confermò don Alfio, “se si pensa che in contrada Annunziata possiamo ammirare altre tombe, che il barone Reforgiato ha collocato nell’età omerica. Altre ancora se ne trovano nel pianoro di Santa Barbara, oppure nella collinetta di fronte alla contrada di San Vito, dove le grotte per sepolture probabilmente sono dello stesso periodo. Reforgiato pensa che questa cultura non ebbe alcuna affinità con quella dell’Italia peninsulare, da cui provenivano i siculi. Se è come dice lui, con essa comincia la civiltà mediterranea.”

Purtroppo, al nostro Vincenzo non pareva possibile che quei popoli remoti avessero una tecnica marinara tale, da far loro affrontare viaggi lunghi. Il suo carattere riservato e prudente, però, come sempre, gli fece scegliere il silenzio. Soltanto oltre quarant’anni dopo, nel suo libro sulla Sicilia antica, espresse questa perplessità, allora taciuta.

Nei giorni seguenti i tre visitarono tutti i luoghi militellesi che, in qualche modo, avessero a che fare con la storia. Chiusero con un’escursione in contrada Catalfaro, tra Militello e Mineo. Lì c’erano i resti di un castello arabo. Questa volta, il professore lo fece Vincenzo, che a quel tempo studiava il medioevo siciliano, sull’onda dello scalpore suscitato dall’abate Vella, che aveva costruito una falsa storia dei musulmani in Sicilia.

“L’ivasione araba” raccontò Vincenzo, quando furono in mezzo ai ruderi, “cominciò a metà di luglio dell’827, l’anno 6335 del calendario greco, come usavano datare gli storici arabi, quando volevano riferirsi al calendario dei Rum, cioè dei bizantini. Arrivò una truppa che, oltre agli arabi, comprendeva berberi della Tunisia, musulmani, spagnoli e forse anche negri sudanesi. Lo sbarco avvenne a Mazzara; poi, la guerra tra cristiani e islamici seguì un percorso di avvicinamento di quest’ultimi verso la capitale, Siracusa. Nell’830/831 conquistarono Mineo, da loro chiamata Minawh.”

“E Militello?” chiese Tineo.

“Con tutta la mia devozione per Pietro Carrera” si inserì don Alfio, “penso che sia meglio abbandonare la sua teoria della nostra origine romana. Militello probabilmente è nata nel medioevo. Il suo castello pare frutto della politica di nuovi insediamenti cristiani, seguita all’arrivo dei normanni nel 1078. Magari fu costruito subito dopo la distruzione della roccaforte araba di Catalfaro. La città dev’essere nata allora.”

“E’ un’ipotesi” disse Tineo, non del tutto convinto.

La visita di Giuseppe Tineo a don Alfio Natale finì nei primi di settembre, giusto in tempo per poter assaggiare qualche grappolo d’uva e, soprattutto, i rinomati fichi di Francello. Anzi, l’ultima sera in cui cenò nella casa dei Natale, il famoso botanico quasi non mangiò altro. Quando, infine, lui e don Alfio, si ritrovarono nel vasto cortile a fumare un sigaro al chiaro di luna, per la prima ed unica volta, nella loro conversazione trapelò la comune appartenenza alla massoneria.

“Mio caro amico” disse Tineo, “oggi ci sono tanti libri nuovi, che promettono di cambiare le teste ed i cuori. Oggi la scienza è culo e camicia con la rivoluzione politica. A patto, ovviamente, che non si faccia madre di inganni e di violenze, come è accaduto in Francia.”

“Anche a Catania” confermò don Alfio, “non mancano gli scrittori impegnati nel combattere l’irragionevolezza, senza pensare a tagliare teste. Avete mai avuto notizia delle utili e piacevoli invenzioni del canonico Martino Zappalà?”

“Io non dovrei saperne nulla. Lei forse sì” disse Tineo, con un sorriso malizioso.

“Diciamo, allora, che io so che lei non dovrebbe sapere.”

“E’ un bell’omaggio a Socrate, il suo.”

“Piuttosto, invece, è un omaggio al valoroso avvocato Lioy…”

“Ah, il difensore dei frammassoni di Napoli?”

“Degli ingiustamente accusati galantuomini napoletani. Non suona meglio così?”

“Direi di sì.”

“Il cavalier Lioy ha dato incarico a don Zappalà di formare un modello di filanda economica, compito ch’egli ha eseguito felicemente. Esso consiste in un tavolino bilatere, a cui siedono quattro donne che somministrano, o il canape, o il lino, o il cotone. La macchina, poi, coll’aiuto di pochissima acqua, fila da sé, avvolge, passa i fili nelle matasse e numera le legature in centinaia o migliaia. Poi, l’acqua stessa cadendo in basso involge il filo delle matasse. Un’oncia d’acqua alta due palmi, può fare agire quattro di queste macchinette e dar lavoro a sedici donne.”

“I nobili letterati, però, certamente non son da meno degli inventori di macchinari” commentò Tineo. “Quel Lioy comincia a darmi qualche perplessità. E’ diventato un po’ troppo… imprenditore. Ma certamente forse questo non è neppure un male! Sbaglio di sicuro, ma a Catania i miei elogi vanno al cavaliere gerolosimitano Giuseppe Gioeni de’ duchi di Angiò, professore di storia naturale all’università. Si è applicato e si applica giornalmente a scoprire tutte le vulcaniche produzioni dei monti del regno. Perciò, mi sa che riuscirà a regalare ai posteri un museo ricco e singolare.”

“Lo conosco bene anch’io” disse Natale. “Nella mia biblioteca, con dedica di suo pugno, c’è una relazione di una nuova pioggia vulcanica dell’Etna, che mi mandò nel 1781, con gli auguri per la nascita di mio figlio Vincenzo. Però, mi permetto di aggiungere, pronta per la sua ammirazione, anche la figura del signor abate catanese Francesco Ferrara, professore primario di fisica nell’università, che ha stampato un’opera intitolata Campi Fleghei della Sicilia, e delle isole, che le sono intorno.

“Che epoca splendida, la nostra, per chi odia la superstizione!” esclamò Tineo.

“Sia nella scienza, che nella politica” disse, finalmente, Natale. “Legga Ragionamento sopra la tortura di Vincenzo Malerba. Il sistema di potere feudale viene messo in discussione e minato dalle fondamenta. Emendare il codice penale è il primo passo per condurre il suddito verso l’affrancamento dal dispotismo.”

“E’ così si è rivelata!” sorrise Tineo. “D’altra parte da tempo è questo il vento che tira in Europa. Ma, non bisogna mai mettere in discussione il principio d’autorità. Riforme sì, ma con prudenza e guidate dall’alto! Ci faccia caso. Nel felice secolo appena trascorso gli stati potevano essere distinti in due grandi categorie: quelli a regime monarchico e quelli a regime repubblicano. Gli stati monarchici, fatta eccezione per l’Inghilterra, sono finiti nell’assolutistismo. Quelli repubblicani, se non hanno avuto la concentrazione del potere nella persona di un sovrano, di fatto sono stati retti da una ristretta cerchia oligarchica, che si comportava alla stregua di una dinastia. I popoli vanno guidati dai pochi eletti che ne sanno perseguire il bene. Le repubbliche rivoluzionarie, come purtroppo abbiamo visto in questi anni, cominciano con le folle briache e finiscono, prima nel terrore e poi nella tirannìa.”

“Mi pare che lei non sia stata da meno, nel rivelarsi” concluse Natale, versando il vino per tutt’e due.

Bevvero, dopo un lieve cenno di brindisi, come era giusto fare tra massoni che si erano riconosciuti e capiti.

9

Lotta alla feudalità e riformismo cattolico: l’ambiente di Salvatore Ventimiglia, il Vescovo dei poveri

La massoneria era il partito degli uomini nuovi, che aspiravano al comando, sostituendo un’aristocrazia ormai decrepita.

La loro crescita in Sicilia era stata favorita da tre fattori:

1) I feudatari avevano spostato la residenza in città, lasciando a dei funzionari le incombenze della gestione amministrativa;

2) l’opera di ricostruzione dopo il terremoto del 1693 aveva valorizzato le competenze specifiche;

3) c’era stato anche qui l’evolversi dell’economia verso quello che qualche storico, parlando del Piemonte, ha chiamato il capitalismo feudale.

L’ultimo punto, in particolare, andrebbe analizzato dagli studiosi.

Sono molto esplicativi, per esempio, i motivi economici che nel 1651 portarono alla nascita della vicina città di Scordia. Il suo territorio, infatti, fu velocemente popolato con il condono dei vecchi delitti ai coloni, che venivano a far fruttificare le fertili terre di quella parte della piana di Catania. Negli anni iniziali della nuova comunità, perciò, si può cogliere un volto inedito della dominazione spagnola in Sicilia, molto meno immobile di quanto s’è detto fino ad ora. La sua classe dirigente, insomma, seppe superare la generale crisi europea in maniera originale, cioè con una colonizzazione feudale interna di territori fino ad allora poco sfruttati.

Nel corso di tutto il Seicento, così, nacquero nuovi centri urbani: Mirabella Imbaccari nel 1681 (309 ab.), Belpasso nel 1613 (3.763 ab.), Mascali nel 1623 (570 ab.); ed, ancora, tutte nate nel 1651, oltre a Scordia, Camporotondo, Mascalucia, Massa Annunziata, San Pietro Clarenza, Gravina. Verso Ragusa vennero fondate Santacroce nel 1605 e Vittoria nel 1616, città, quest’ultima che passò dai 691 ab. dell’anno di fondazione ai 3.950 del 1681, per arrivare ai 5.668 ab. nel 1714.

Allora, successe ciò che spesso succede. Le strutture sociali sono come le carrozze di un treno in viaggio. Restano uguali, ma cambia il paesaggio all’esterno e cambiano soprattutto i passeggeri. Sul treno della feudalità imprenditoriale non poteva tardare a salire altra gente.

Salirono, perciò, e cominciarono a controllare l’economia del luogo, i rappresentanti del ceto dei giurati e dei gabelloti.

Nell’archivio storico di Militello in Val di Catania si trovano decine di carteggi a testimoniarlo. Bando di M.ti delli giurati di questa terra di Militello (…) iniungi et intima a m.ro Gianni Scuderi, Fabio La Rocca e Mario Gambaci e m.ro ant. Fagoni ditti gabelloti della gabella della bucciria di ditta terra che vogliano vendiri la carni di majali a gr. 24 lo rotulo, lu lardo netto a gr. 26 la inzunza netta a gr. 28 lo rotulo e la carni di troja a gr. 23 per ogni rotulo e questo sotto pena di onze 10 per ogni contraventione per ogni contravenienti d’applicarsi li onze 6 allo erario di detta terra onze 1 al cap.no et onze 3 allo denunciatori seu a quella persona che mettirà in chiaro la contraventioni…

Infine, erano saliti a bordo i massari diventati possidenti, cioè coloro che avevano cominciato curando le campagne per conto dei baroni.

Cu manìa nun pinìa. Ha ragione il proverbio” disse, di ritorno a Palermo, Tineo a Vincenzo, costeggiando le rigogliose proprietà di massaro Dominedò, nel biviere di Lentini. “Questa gente, risparmia di qua e ruba di là, si è ingrassata come un maiale. Ora pretende pure di mettersi parrucca e cipria.”

In una scena del romanzo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ambientata sessant’anni dopo, verrà espresso un concetto molto simile: il massaro don Calogero è ormai giunto all’apice, diventando più ricco dell’ex padrone. E’ lui la nuova classe dirigente dell’Italia:

Sarebbe ingiusto affermare che don Calogero approfittasse subito di quanto aveva appreso: egli seppe da allora in poi radersi un po’ meglio e spaventarsi meno della quantità di sapone adoperato nel bucato, e null’altro, ma fu da quel momento che s’iniziò, per lui ed i suoi, quel costante raffinarsi di una classe che nel corso di tre generazioni trasforma innocenti cafoni in gentiluomini indifesi.

10

Il potere delle donne nella Sicilia patriarcale: donna Giuseppa Di Castro di Militello

La famiglia di don Alfio Natale oscillava fra la classe dei possidenti e quella dei professionisti.

Una Teresa Natale, per esempio, fu la madre di Giacinto Baldanza, nato nel 1794 e morto nel 1856, che studiò nel Seminario Vescovile di Siracusa (diocesi dalla quale all’epoca dipendeva Militello), fino a laurearsi in teologia dommatica.

“Del suo valore” disse nell’elogio funebre Salvatore Majorana Calatabiano, che di Vincenzo Natale fu l’erede politico, “sono eloquente esempio la maniera onde disimpegnava la confessione, il concorso alla parrocatura, la sua predicazione, e soprattutto le sue private lezioni, talvolta anche dettate ai padri benedettini di Militello, di domma e di morale.”

Un altro Baldanza, Giuseppe, lo troveremo nel 1837 a frequentare la Scuola superiore di grammatica italiana e latina, premiato da mons. Orlando, vescovo di Catania, come allievo eccellente negli studi di storia sacra.

Ma, per la formazione intellettuale di Vincenzo, il personaggio più importante fu proprio suo padre, don Alfio, nato nel 1757.

Questi era rimasto orfano di padre a tre anni e perciò su di lui aveva avuto un’influenza notevole l’energico esempio della madre, donna Giuseppa Di Castro. Grazie al vivo ingegno, però, ben presto egli aveva lasciato Militello, per andare a fare i primi studi nel seminario vescovile di Catania, scuola su cui allora si rifletteva il prestigio del vescovo, mons. Salvatore Ventimiglia. Già in quegli anni, aveva evidenziato una tendenza che poi comunicò al figlio: quella di analizzare nella loro specificità i problemi, per cui predilesse lo studio della storia e della geografia (naturalmente, preferendo il Guicciardini al Machiavelli).

Si era iscritto, poi, alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Catania, laureandosi a diciotto anni. Successivamente, si era trasferito a Palermo, per approfondire la sua preparazione ed esercitare la professione di avvocato.

Passati appena due anni dal suo arrivo nella capitale, Alfio ricevette una lettera dalla madre.

“Lascia tutto e torna a Militello” ordinava donna Giuseppa.

Non era personaggio a cui si potessero chiedere ulteriori spiegazioni, né tanto meno disobbedire. Alfio, perciò, partì.

“I Majorana hanno messo gli occhi sul nostro patrimonio” gli disse la madre, quando fu giunto a casa. “Vogliono farci fare la fine di Russo, quando gli rubarono anche la pelle di dosso!”

Per accoglierlo, lei gli aveva preparato il suo pranzo preferito, pasta con la mollica ed i finocchi selvatici. Gliela servì fumante e strabordante dal piatto. Mise, quindi, al centro della tavola una zuppiera piena di altra pasta e si sedette, servendosene un paio di forchettate appena. Aveva un gran sorriso compiaciuto, vedendogli la gioia negli occhi.

Gli porse la ciotola col pecorino grattuggiato. “Non mettercene troppo, se no sa solo di formaggio.”

Alfio eseguì l’operazione secondo le indicazioni materne, mischiò il tutto ed addentò la prima forchettata.

“E che fanno di tanto terribile?” chiese.

“Fanno i ladri, come sempre! Con le loro mandrie, vanno pigliandosi i confini della nostra terra, a pezzetti e a bocconi. Pensano che con me sia facile, da povera donna come sono.”

“Credo che a Militello, una sciocchezza del genere, non la pensi nessuno.”

“Peccato che quello che credi tu non lo credono i Majorana. Sei avvocato, o no?… Perciò, resta qui e difendi i tuoi interessi!”

Il tono non ammetteva repliche.

Alfio Natale si versò nel bicchiere il vino aspro dei loro vigneti in contrada Varanna e bevve, con tutto l’orgoglio del padrone. Lasciò parlare a lungo la madre, povera donna, assaporando il suo delizioso impasto di salsa di pomodoro e verdure.

11

Don Alfio Natale e la feudalità morente

Gli impegni familiari, oltre a salvargli la ricchezza, non impedirono ad Alfio Natale di entrare in magistratura ad appena ventuno anni, prima dell’età richiesta. Ricoprì, così, le cariche di capitano giustiziere e di giudice civile, criminale e fiscale. Finì per fare parte, inoltre, di tutte le deputazioni amministrative e fu giudice consultore a Scordia. Una carriera tanto brillante, ovviamente, fu aiutata dall’appartenenza alla loggia dell’Ardore di Catania.

La fratellanza massonica fu addirittura determinante nella sua più prestigiosa vittoria come avvocato. Si trattò della controversia che oppose il barone Alfio Corbino al principe di Butera e marchese di Militello, don Salvatore Branciforti e Pignatelli.

Come si sa, nella Sicilia feudale v’era una lunga serie di angarie e di privative (di fatto, monopoli baronali), che soffocava ogni libera imprenditoria. Si ricordano, per esempio, la gabella della dogana, accompagnata dalla privativa di aggiustare pesi e misure (catapanato); la stadera sulla vendita dei formaggi e delle carni, che gravava, sia sugli allevamenti in città, sia su quelli fuori dalle mura; la linusa sull’olio di lino con l’unita privativa di estrarlo privatamente (parallela alla gabella dell’oliveto e relativa privativa sui trappeti); la aratati, ch’era un’imposta sulle giornate d’aratro; la bardaria, una privativa sulle bardature degli animali; la baglia, che regolava i diritti sull’attività dei ministri e delle forze di pubblica giustizia; La quartarunata, infine, era l’imposizione di sei tomoli di frumento e due di orzo per ogni bue, od altro animale, che arava dentro, o fuori, il territorio.

Sulla quartarunata, appunto, scoppiò la lite tra il barone Corbino ed il principe di Butera. Secondo il secentesco codice del principe Branciforti, infatti, i primari cittadini ne andavano esenti. Perciò, il barone si affidò ad Alfio Natale, per opporsi al pignoramento ordinato dal segretario (allora chiamato segreto) del principe.

Don Alfio non era tipo da pensare che una causa tanto importante si potesse vincere soltanto con la bravura. Andò, perciò, a chiedere i giusti consigli al massone Giannagostino De Cosmi, uomo attorno a cui si raccoglievano le figure dominanti del giacobinismo e del democraticismo catanese. Per don Alfio, inoltre, quell’uomo era colui che aveva condiviso e pubblicamente difeso la politica anti-feudale del viceré Domenico Caracciolo.

“Troppe carte stanno inesplorate negli archivi” gli disse De Cosmi. “Caro Natale, lei è giovane ed ha il dovere di non dare le cose per scontate.”

“Nel nostro caso basterebbe il codice Branciforte e la consuetudine, professore. Il principe di Butera è nel torto, anche limitandoci alle leggi conosciute.”

“Il mondo che sogniamo non si accontenta di applicare le leggi che ci sono; ma, pretende di capirle. Esercita la ragione per spiegarne l’origine ed i motivi che le hanno determinate. Soprattutto, si studia di vedere se quei motivi valgono ancora ai giorni nostri. Ascolti il mio consiglio, Natale. Non limiti la sua indagine alla quartarunata. Veda di rimettere in discussione il principio stesso dei privilegi feudali, svelandone i moventi di rapina.”

“Come farò, da solo, a svolgere la mole di lavoro che lei mi chiede?”

“Non ho detto che debba fare tutto da solo. Ho l’impressione che questa causa risulterà molto più importante di quanto lei stesso non crede. Conosce Emanuele Rossi?”

“Certamente. E’ il più valoroso avvocato del foro di Catania.”

“E’ una testa calda. Pronto a prendere fuoco come la paglia, con tutte quelle idee di rivoluzione che gli frullano dentro. Ma, il cervello ce l’ha fino. Col suo, il migliore che c’è in questa parte della Sicilia. Se lo metta al fianco, amico mio. Magari si cercherà anche un altro giovane giurista. In mente ho già diversi nomi. Insieme potrete portare alla luce quanto basta per vincere, non soltanto il principe di Butera, ma l’intero baronaggio, che è quello che tutti noi speriamo.”

Su consiglio del De Cosmi, quindi, Alfio Natale si unì all’avvocato e politico populista Emanuele Rossi di Catania ed all’avvocato Antonio Ciraulo di Patti. Tutt’e tre fecero accurate ricerche d’archivio ed il risultato fu una sentenza del 1795, favorevole al barone Corbino.

In essa, per di più, venne anticipata l’idea dell’abolizione della giurisdizione feudale in Sicilia (che poi avvenne nel 1812).

Pochi giorni dopo la sentenza sfavorevole, il principe di Butera convocò Alfio Natale nel suo palazzo in via Etnea, a Catania.

“So che ama i libri” gli disse, andandogli incontro sul portone d’entrata, segno di particolare rispetto. “Ha curiosità di vederne qualcuno dei miei?”

“Ne avrei enorme piacere” rispose don Alfio.

Attraversarono il cortile pavimentato con nera pietra lavica e bianca pietra calcarea, disposte a formare decorazioni geometriche. Salirono quindi al primo piano, camminarono per il portico che si affacciava sul cortile ed entrarono nel salone della biblioteca. Poggiato sul tavolo, c’era una pregiata edizione di Diodoro siculo, che attirò molti sguardi ammirati di don Alfio.

“Vedo che ha interesse per la nostra storia antica” disse il principe. “Ho pure la trascrizione di un codice arabo. Ha mai sentito parlare delle imprese di Gohar Al-Sichilli?”

“La mia cultura non è pari alla mia passione e resta mediocre. Anche se qualcosa ho sentito dire di questo condottiero islamico.”

“Anch’io coltivo soprattutto interessi scientifici” disse il principe, prelevando un manoscritto da un cassetto dello scaffale. “Ma, mi affascina un uomo, che nel 970 era caid, cioè capo supremo dell’armata araba ed aggiungeva orgogliosamente al suo nome l’appellativo al-sichilli, il siciliano. Sapeva che è stato lui a fondare Il Cairo?”

“Mi pare che la parola Al-Caihira voglia dire La Vittoriosa.

Il principe di Butera fece un gesto che poteva sembrare di impazienza.

“Per me, purtroppo” disse, “in questo manoscritto ci sono soltanto pagine mute. Non conosco l’arabo.”

“Però lo ama ugualmente, a quanto pare.”

“Diciamo che ne amo le verità nascoste.”

Posò sul tavolo il manoscritto e prese un foglio già scritto che stava sopra la scrivania. Lo firmò e lo porse a don Alfio.

“L’ho nominata mio segreto a Militello” disse. “Delle sue capacità, ahimè, ho avuto modo di rendermene conto di persona. Della sua discrezione, mi ha detto un gran bene il mio amico principe di Castelnuovo, che ha saputo convincermi della bontà delle idee del Caramanico.”

Carlo Cottone, principe di Castelnuovo, apparteneva alla massoneria palermitana ed era molto legato a Giannagostino De Cosmi. Don Alfio, perciò, fece due più due e colse il messaggio del principe. Quella non era un’offerta di lavoro, era un preciso ordine di De Cosmi.

“Non posso che giurarvi l’eterna fedeltà che meritate, per voi e per le vostre amicizie” disse, quindi, accettando la nomina.

“Prendete pure il manoscritto” gli sorrise il principe. “Le verità nascoste vanno prima o poi disvelate… da mani elette, naturalmente.”

“Neanch’io conosco l’arabo.”

“Potete sempre impararlo.”

A don Alfio non rimase altro che inchinarsi e ringraziare del dono.

“Ormai, il tempo appartiene a voi” disse il principe, mentre lo accompagnava all’uscita. “Spero che sappiate fare meglio di noi.”

12

Storia dei dimenticati: il generale borbonico Gennaro Valentini nella testimonianza di Giuseppe Gioacchino Belli

Che fosse davvero giunto il tempo dei massoni, secondo Alfio Natale, non era un fatto così scontato. Nel Regno borbonico, per esempio, dei gran cambiamenti venivano portati da quel ciclone chiamato Napoleone Bonaparte.

Di colpo sembravano superati tutti i riformismi dei Caracciolo e dei Caramanico. Eppure, specialmente con quest’ultimo, si era fatto molto per modernizzare la Sicilia. Con l’ordinanza dell’8 novembre 1788 erano state abolite le angarie (cioè, le prestazioni lavorative obbligatorie e gratuite) e con quella del 4 maggio 1789 si erano liberati i sudditi dalle servitù personali. Inoltre, nella deputazione del regno (nominata direttamente dal viceré e non più dal parlamento) i nobili erano passati da dodici (la totalità) a quattro. Era stata, ancora, introdotta la vaccinazione antivaiolosa e proibita la monacazione dei minorenni e dei figli unici.

Purtroppo, in Sicilia, ad interrompere la disponibilità riformatrice di Ferdinando III di Borbone, erano arrivate le paure suscitate dalla rivoluzione francese del 1789. Anche perché Maria Carolina, la vera padrona del regno, era sorella della decapitata regina Maria Antonietta.

Nacque, così, un generale clima di sospetto, tragicamente confermato il 9 gennaio 1795 dall’improvvisa morte del Caramanico. Si parlò di veleno, dato che chi ci guadagnava era l’amante della regina, lord Acton. Ad aggravare la situazione, in quello stesso anno, durante la Settimana Santa, vi fu un tentativo insurrezionale repubblicano, capeggiato dal giurista Francesco Paolo Di Blasi (poi decapitato il 20 maggio).

Tale contesto da basso impero veniva appesantito dal fatto che l’Acton non era l’unico argomento galante nelle chiacchiere sugli intrighi reali. Il giovane poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli in una lettera raccontò di un suo cugino, il generale Gennaro Valentini, molto amorevole con la regina (In Carlo Muscetta, Cultura e poesia in Giuseppe Gioacchino Belli, Feltrinelli, Milano).

Costui, perciò, si trovò a gestire alcuni dei disordinati momenti che seguirono la discesa in Italia delle truppe napoleoniche.

Lo scritto impressiona molto, perché si vede una viva figurazione del caos in cui si era piombati. La storia del Valentini era la storia di uno dei troppi eroi morti per niente, essendosi immolato con la divisa dei perdenti. Quei retorici rivoluzionari non avevano la grandezza di Omero, che, fra i vinti troiani, aveva saputo render simpatica la figura di Ettore.

Scriveva Belli:

Tu sai che poco dopo scoppiata la sanguinosa rivoluzione di Francia, torrenti di armi calarono in Italia ed inondarono Roma e le più belle provincie (sic).

Fu allora che agli sforzi del Pontefice quelli si accoppiarono della Casa Siciliana, onde liberarsi dalla straniera violenza e Carolina d’Austria in que’ dì moglie di Ferdinando quarto di Borbone spedì da Napoli a Roma il generale Gennaro Valentini giovane valentissimo e di lei molto amorevole, perché segretamente trattasse dei modi più atti a discacciare dal suolo d’Italia la idra formidabile, che a’ danni nostri si vedeva menare le velenose sue lingue.

Il generale dunque, come cugino di mio padre per canto materno, avuto nella nostra casa un misterioso ricetto ne fece il centro de’ suoi consigli, ed il deposito de’ regi dispacci. Né molto andò oltre il segreto; perché giunte da Napoli le formidabili forze, alle quali egli era preposto duce supremo, manifestandosi, uscì esse in campo; e, rotta la piccola guarnigione della Repubblica francese, sgombrò Roma dagli invasori e se ne proclamò giuridicamente comandante interino,, sotto gli ordini di un Naselli sopravvenuto col grosso dell’esercito del Mezzogiorno.

I francesi però ingrossatisi coi presidj che dei loro raccoglievano ovunque, presto ricomparvero più feroci, e con onta e scorno indelebili del nome partenopeo, quasi senza un colpo di cannone né un lampo di spada ritolsero ai nemici la preda. Ottantamila soldati fuggirono avanti a seimila; ed il misero Valentini da tutti abbandonato e solo, non trovò altro scampo alla sua vita, che nella nostra fedele ospitalità.

Ma sempre il suo asilo non poteva rimanere celato: per lo che, aperte negoziazioni col generale francese, al quale già prima da lui battuto aveva generosamente concesso sicurezza di vita, e libertà di persona; facilmente ne ottenne in contraccambio di potersene tornare salvo e rispettato alla sua patria, e ne ricevette in garanzia un autentico passaporto.

In que’ giorni mia madre sovrappresa da un subito terrore per la propria sicurezza, chiarì la sua determinata volontà di abbandonare la sua patria. A nulla valsero le preghiere del marito: a nulla le lagrime de’ figliuoli. Rimase ferma nella sua risoluzione, e conducendo me ancora fanciullo, partimmo subito alla volta di Napoli precedendo di poco il mio cugino il generale Valentini. Le nostre cose più preziose ci seguirono, e delle altre nostre proprietà rimase in Roma custode mio padre, che seco ritenne il mio minore fratello. Era necessaria la di lui permanenza e per le accennate ragioni e per non accrescere troppo con la sua fuga il sospetto, di cui qualche lampo già traluceva nelle autorità governative.

Noi dunque partimmo. Ah, mai non avessimo mosso quel primo passo fatale! Inoridisci qui, o dilettissimo amico, tu, il cui bell’animo così dai tradimenti rifugge. Uscito appena il Valentini dalla città dalla porta di San Giovanni, fu preso, e contro ogni data fede, e ogni dritto delle genti ricondotto a Roma, e fucilato nel seguente giorno sulla piazza di Monte Citorio.

Egli andò al sulplicio da eroe. Rivestito di tutte le divise del suo grado, volle senza benda guardare fermo quelle armi, dalle quali egli stesso invocò il foco e la morte.

Questo accadeva nel 1798. utto ciò00000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000 ed a causa di ciò che, dopo gli interregni dell’arcivescovo Lopez y Rojo e del principe di Luzzi, la Sicilia si trovò ad ospitare il re in persona, che, molto meno eroicamente del Valentini, davanti alle armate francesi, si era dato alla fuga.

13

Napoleone in Italia nella testimonianza di Tommaso Gallarati Scotti

La Rivoluzione Francese”, scriveva il milanese conte Tommaso Gallarati Scotti (La giovinezza del Manzoni, Mondadori, Milano), “contenuta oltre le Alpi per tre anni dal Piemonte, aveva straripato nella primavera del 1796 con l’esercito di Bonaparte. Con trentottomila sanculotti trascinati dal suo nuovo genio nascente, avidi di gloria e di conquista, senza viveri, senza denaro e senza cavalli, ma ricchi di una giovinezza elementare, e infiammati dalla parola magica libertà; battuti gli austriaci a Fombio l’8 maggio e forzata l’Adda a Lodi il 10, il generale era entrato il 15 a Milano, accolto dagli uni con stupito sgomento, dagl’altri come l’annunciatore di un’era nuova. Al sopraggiungere del giovanissimo condottiero corso, piccolo, magro, olivastro, dai lunghi capelli spioventi e dai fatali occhi d’aquila, il vecchio mondo settecentesco era crollato, roso alla radice dall’eleganza molle e dallo scetticismo beffardo. Dove egli passava cadevano troni e altari. Si innalzavano i simbolici alberi della libertà, sormontati dal berretto frigio, nelle piazze cittadine. Nuovi riti si svolgevano intorno alla Rivoluzione. Le folle erano attraversate da un brivido di fanatismo come al nascere di una religione nuova. Codini e tonache volavano all’aria – poiché alla gazzarra delle masse diventate giacobine corrispondeva l’improvvisa metamorfosi di larghi strati della borghesia e del mondo intellettuale, che da noi era stato penetrato dall’enciclopedismo dei Beccaria e dei Verri. Niente più cipria, niente parrucche – alle ortiche anche i titoli – si bruciavano le livree; si scappellavano gli stemmi, le lapidi nei sepolcri nobiliari delle chiese.”

Battaglia dopo battaglia, in poco tempo Napoleone piegò l’intera penisola al suo volere. Sul modello francese nacquero la Repubblica Cisalpina, la Ligure, la Romana e, finalmente, la Partenopea. Non restò che la Sicilia, protetta dagli inglesi, per dare asilo a Ferdinando e rappresentare l’ultimo baluardo della resistenza alla rivoluzione.

“Insomma, c’è in giro una gran scopa!” commentò don Alfio, parlandone col suo amico e discepolo, barone Vincenzo Reforgiato.

Avevano preso l’abitudine della passeggiata quotidiana. A meno che non venisse giù il diluvio, sul far della sera, estate ed inverno, se ne scendevano per la via dei conciatori, subito dopo i resti del castello. Camminavano, discutendo di storia e di politica, nel viottolo che andava verso il pianoro di Santa Barbara, con gli occhi ai fossili di conchiglie ed ai frammenti ceramici che venivano affiorando nel terreno. Così, ambedue avevano messo insieme una collezione, che poi, in casa, era una gioia ordinare e catalogare.

“Dopo tanta pulizia, però, resta da stabilire quali sono gli stracci che debbono volar via…” chiosò il barone, guardando le case di Scordia, ad un paio di chilometri sotto il posto in cui si trovavano.

“Quelli di sempre: i privilegi feudali, tanto per cominciare.”

“Ed anche i falsi baroni, tanto per finire.”

“Così si spera.”

Nelle parole di don Alfio al barone Reforgiato era chiaro il riferimento alla lotta contro i Majorana della Nicchiara, definiti falsi baroni,perché accusati di aver usurpato il titolo alla famiglia Russo.

“I Majorana rappresentano la Sicilia feudale” riprese don Alfio. “Sono un mondo a parte, fuori dalla storia.”

“Distruggerli sarà un lavoro difficile.” osservò Reforgiato e scagliò una pietra, che andò a cadere nel burrone che costeggiavano.

“Un lavoro di pazienza, più che difficile. E tirare pietre non serve, finché non sai in che direzione si trovano.”

“Già! Combatterli fa quasi girare la testa. E’ gente sfuggente, abituata a cambiare casacca, a seconda di chi comanda.”

14

Il clero trasformista: mons. Michele Natale, vescovo di Vico Equense, ed il suo “Catechismo repubblicano”

  1. Il 15 giugno del 1802, cinque giorni dopo la sua udienza col papa Pio VII, mons. Gian Vincenzo Monforte, vescovo di Nola, morì. Gli era stata fatale l’asprezza dei rimproveri ricevuti, anche se insieme ad essi erIa venuta l’assoluzione dall’anatema che l’aveva colpito qualche mese prima. Su di lui, così, cadeva l’ultima conseguenza di un’aggrovigliata catena di fatti, originata dal gesto di un altro vescova, mons. Michele Natale, che aveva abbracciato (anzi, se ne era fatto propagandista) le idee della Rivoluzione Napoletana del 1799.

In quell’occasione, velleitarismo ed ambizioni personali avevano creato uno strano connubio tra Dio e Robespierre, per cui la Chiesa-istituzione s’era trovata a combattere sui due fronti dell’attacco illuminista e della (in fin dei conti, eversiva) mobilitazione di popolo al seguito del cardinale Ruffo.

La storia, infatti, s’incarica sempre di smentire gli schemi ed ha pieghe intricate come un drappeggio ellenistico. Potette succedere, quindi, che mons. Natale scrivesse una sorta di catechismo repubblicano ed una lettera minacciosa di scomunica a dei popolani convinti di combattere per la religione e successivamente che un Papa si facesse vindice dell’impiccagione dello stesso con chi – mons. Monforte, per l’appunto – l’aveva permessa ed avallata col rito della dissacrazione.

Michele Natale veniva da Casapulla, in provincia di Caserta, dov’era nato il 23 agosto del 1751. Non apparteneva alla nobiltà e non fu precoce. Le conquiste della sua vita furono tutte lente e sudate, brani strappati con la ferocia della volontà e di un’intelligenza contadina.

Nel municipio di Vico Equense si conserva ancora un suo ritratto. Vi si indovina la pelle grassa ed i lineamenti, se non grossolani, sono marcati. Il naso è un tronco solido, le guance sono pesanti e ferrigne di peli duri, le arcate sopraciliari spesse e nere, la fronte un po’ stretta. Ma, più di tutto, parlano gli occhi: scuri, grandi, pazienti; eppure, al contempo, fermi e determinati.

Soltanto nel 1771, infatti, egli entrò nel seminario di Capua, usufruendo di una speciale licenza, dato che il limite di età per essere ammesso era di quindici anni. Così, il 23 dicembre del 1775, dopo quattro anni di studio, ne uscì sacerdote, consacrato dall’arcivescovo di Capua, mons. Capece Galeota. A ventiquattro anni, come inizio di carriera, non aveva di certo, come suol dirsi, bruciato i tempi.

Seguì un periodo relativamente oscuro. Nel decennio 1780/90 fu cappellano in una nobile famiglia napoletana. Per due anni, poi, fu cappellano a Capua, finché, nel 1792, per raccomandazione del principe Pignatelli, divenne segretario di mons. Agostino Gervasio, subito dopo la nomina di questi ad arcivescovo di Capua. Era il primo grande salto di qualità, da uomo di chiesa e da uomo di mondo.

Aveva quarantuno anni.

A questo punto, i pareri di coloro che ne hanno ricostruito la vita divergono. Secondo Giuseppe Acocella (Il catechismo repubblicano di Vincenzo Natale, Vico Equense, 1978), il Nostro, accompagnando spesso l’Arcivescovo a Napoli, ebbe modo di entrare in confidenza con Ferdinando IV, tanto da essere nominato precettore dei reali bambini. Invece, Antonino Trombetta (La verità sul catechismo repubblicano attribuito a mons. Natale, vescovo di Vico Equense, Veroli, 1980), pensa ch’egli rimase un semplice cappellano a Capua fino alla nomina a vescovo.

Quale che sia la verità, una buona abilità nel procurarsi la raccomandazione, il Natale dovette averla, dato che, quando nel 1797 il Re ne decise la nomina a Vescovo di Vico Equense, non aveva alcun titolo accademico che lo rendesse idoneo a tale ufficio. Per questo, sostenne da privatista gli esami di teologia presso l’università di Napoli. Uscendone dottore, naturalmente.

Il nuovo vescovo non godeva certamente di floride condizioni economiche, tanto che dovette ipotecare i fondi della mensa vescovile di Vico, per ottenere un prestito.

Per quanto riguarda, poi, la sua attività pastorale, resta testimonianza soltanto del fatto che fece riparare il palazzo vescovile, danneggiato da una rivolta di popolani, come più sotto si vedrà.

In un uomo, tutto sommato, così conformista e poco brillante, quindi, stupisce – o, meglio, non stupisce affatto – l’estremistica scelta politica a favore della Repubblica Napoletana portata dai francesi, il 21 gennaio del 1799.

Già tre giorni dopo, Michele Natale vi aderì ufficialmente ed il 25 gennaio indisse “pubbliche grazie a Dio per aver salvato il Regno dagli orrori dell’anarchia”. Di conseguenza, venne eletto presidente della municipalità di Vico. Nei confronti del re Ferdinando di Borbone, la sua fu la tipica ingratitudine dei beneficiati. O, perlomeno, tale la videro i popolani, che in disprezzo gli saccheggiarono la casa.

In verità, i disordini duravano da tempo.

Lo strenuo accanimento dei lazzari per difendere il regno di un Re che se n’era fuggito in Sicilia non c’era stato soltanto a Napoli.

A Vico Equense, il 19 gennaio, istigati dal prete Giovanni di Napoli, la plebe aveva trucidato i fratelli Ascanio e Clemente Filomarino, del partito repubblicano. Il Natale rispose con durezza. Insieme al Vescovo di Gragnano e Lettere ed al Vicario del Duomo napoletano sconsacrò il Di Napoli e il 16 maggio lo mise a morte.

Gli altri rivoltosi – contadini e pescatori, gli stessi di tutte le rivolte, di destra e di sinistra, che sempre sono i primi, o gli unici, a pagarne le conseguenze – avevano subito la pena capitale già il 6 maggio.

Da marzo, però, il partito borbonico di Vico Equense si era riorganizzato. Nella città regnava la discordia e l’arbitrio. Così (ma, a quanto pare, contro i voti del Natale), da Napoli furono mandati alcuni soldati, francesi e della milizia cittadina.

La mossa risultò contrproducente. Irritati, i partigiani borbonici si fecero tanto pericolosi, che alla fine di marzo il nostro vescovo giacobino dovette fuggirsene a Napoli.

Era la defitiva sconfitta per chi, “richiesto dal Direttorio”, aveva pubblicato un Catechismo repubblicano per l’istruzione del popolo e la rovina de’ tiranni.

A parte il vecchio vizio dei progressisti di imporre il bene al popolo sulla punta delle armi straniere, la nuova escatologia illuministica trovava uno sbocco paradossale – o tragicamente naturale – nello scritto di un prete voglioso di carriera.

Oggi di questi preti ne circolano molti di più – forse, troppi -.

Della fallimentare attività rivoluzionaria del Natale si ha un’ultima notizia, datata 26 maggio, a Casapulla, suo paese natìo, quando in occasione della festa di S. Elpidio, arringò la folla e per poco non ne fu linciato.

Il ritorno dei borboni mise fine alle sue illusioni ed alle sue velleità. Venne catturato nel porto di Napoli, su denuncia di alcuni marinai sorrentini, che lo riconobbero mentre, vestito da capitano cisalpino, tentava di fuggire su di una nave inglese destinata al trasporto dei prigionieri francesi.

Dissacrato dal succitato mons. Monforte il 19 agosto del 1799, fu impiccato con altri sette nel pomeriggio del 20 agosto.

Usciva, così, dalla prosa della sua realtà umana, per entrare nelle alate fantasie della memorialistica.

15

L’icona siciliana della Rivoluzione: Ducezio, Re dei siculi

Le fibrillazioni causate dall’irrompere in Italia delle armate napoleoniche fecero della Sicilia un interessante laboratorio politico. Si costruì in quell’occasione una alternativa moderata alla rivoluzione, proprio quella preferita da Giuseppe Tineo e da Alfio Natale. Questa volta, però, il protagonista fu il nostro giovane Vincenzo.

Egli, su raccomandazione del padre e di Giuseppe Tineo, era diventato uno stretto collaboratore del principe Carlo Cottone di Castelnuovo, che, pur membro di una potentissima dinastia di baroni, divenne il più ascoltato assertore della necessità di uno svecchiamento istituzionale nell’isola. Già da giovane, comunque, aveva condiviso le idee di Caracciolo e di Caramanico, diventando membro della palermitana loggia della Concordia. Ma, il suo vero impegno politico era cominciato quando re Ferdinando III di Borbone si era rifugiato a Palermo.

“Mentre il re” scriveva Vincenzo a don Alfio, dopo un primo colloquio col Castelnuovo, “in quel tempo attendeva alla caccia nei suoi splendidi parchi ed ai fatui bagordi, sciupandosi nella neghittagine, la moglie cospirava contro i liberali; e i processi e l’esilio e le prigioni sbandavano i pretesi repubblicani, responsabili di un gravame estraneo alla legislazione!”

Nel 1802, dopo che la Repubblica partenopea fu sconfitta dalle bande del cardinale Ruffo, i sovrani tornarono a Napoli. Per di più, ad ulteriore scorno dei siciliani, il re non mantenne la promessa di tenere una corte stabile a Palermo, cosa per la quale aveva avuto un donativo di centocinquantamila onze.

Quello stesso anno, alla morte del padre, Cottone entrò a far parte del braccio baronale del parlamento siciliano. Sposò, quindi, Giuseppina Bonanno dei Duchi di Castellana e intraprese un lungo viaggio fuori dal regno.

Nel 1805, a Roma, in un ricevimento conobbe di persona Napoleone Bonaparte.

“Come possiamo leggere nelle splendide pagine di Diodoro Siculo” gli disse questi in italiano, dopo le presentazioni, “la vostra patria ha dato i natali al magnifico Ducezio. Ora, però, le sue ossa, je pense, vedendola governata da un lazzarone, non sanno più se piangere, o ridere.”

Non era stata una gran cortesia, quella di insultare un re. Ma, Napoleone, come tutti gli uomini nuovi, si compiaceva di mostrare una certa brutalità.

“Sono contento che l’eccellenza vostra ammiri il condottiero della Sunteleia sicula” rispose Cottone, trascurando abilmente gli apprezzamenti sul suo sovrano.

“Diodoro di Siciliaè uno scrittore straordinario” sancì Bonaparte.

Guardò poi, uno per uno, quelli che gli facevano contorno e tornò a rivolgersi a Cottone, questa volta con un sorriso affabile.

“Dicono che siete uno studioso di quell’ammirevole generale” disse Napoleone.

“Più che altro, mi onoro dell’amicizia di un giovanissimo scrittore, che promette di andare oltre le conoscenze di Diodoro. Ne sentirete parlare… è l’avvocato Vincenzo Natale.”

“Ducezio” riprese a dire Bonaparte, seguendo il filo dei suoi pensieri, “se fosse vivo, combatterebbe per la rivoluzione. Gli antichi tiranni di Siracusa, i diomenidi, avevano, diremmo noi… oublié le peuple ed in città infuriava la lotta tra i proprietari terrieri ed i mercenari di Trasibulo e di Gerone.”

Quelli del contorno approvarono convintissimi; anche se nessuno di loro aveva mai sentito parlare prima, né di Ducezio, né dei diomenidi, né di Trasibulo, né di Gerone.

“Capisco” disse Cottone, “che l’eccellenza vostra è troppo bene informata e troppo fine stratega… Ma, secondo il mio giovane amico, Ducezio ebbe qualità che non furono soltanto militari.”

“Io capisco, invece, che siete un ottimo diplomatico” sorrise Bonaparte. “Ditemi perciò il punto di vista di tanto straordinario fenomeno.”

“Ducezio era un politico, prima di essere un condottiero. O meglio, come voi, fu un grande condottiero nella misura in cui seppe essere un bravo politico.”

“Voi mi lusingate” sorrise ancora Napoleone, senza nascondere il compiacimento. Non aveva il pregio della modestia.

“Se non intendete tradire voi stesso, certamente sì” disse Cottone, fieramente. “Come voi, Ducezio nacque lontano dal potere costituito. La piccola Menai, nome antico della città di Mineo, allora era abitata dai siculi poveri, sottomessi ai greci. Era quasi un prolungamento dei territori di Katane, di Leontinoi e di Gela. Ma, Ducezio fu capace di raccogliere intorno a sé tutti i siculi, diventando il campione del loro riscatto nazionale. Per realizzare i suoi scopi, quattro secoli e mezzo prima che nascesse Cristo, capì l’importanza degli ideali, che cementò con la religione. Trovò, infatti, un motivo di unità nel culto di due deità sicule, i Palici. Pose il Tempio nei pressi dell’attuale Lago di Naftia, al centro della vallata di Caltagirone, e lo elevò al rango di Santuario, abbellendolo del témenos. Accanto vi costruì la città fortificata di Palikè. Da quel momento nacque la Sunteleia, la sacra alleanza dei siculi.”

“Una massoneria ante-litteram, a quanto pare!” ironizzò Napoleone. “Ce ne vorrebbe un’altra oggi dalle vostre parti, per cacciar via les anglais!”

Cottone non fece alcun commento e Napoleone ritenne di passare ad altri argomenti, con altre persone.

Parve ricordarsi di Cottone soltanto più di un’ora dopo, osservandolo da lontano.

Merde sicilienne…” disse piano a chi gli stava accanto. “Questa gente la massoneria ce l’ha nel sangue!”

16

Lord Bentinck, plenipotenziario in Sicilia ed il modello liberale di governo

Il fatto di aver ammirato e conosciuto il generale corso non parve lasciare una grande traccia sulle idee politiche di Cottone. Quando finalmente tornò sui banchi del parlamento, egli non risultò un rivoluzionario incendiario; ma. un sostenitore del regime costituzionale inglese.

Il momento di una politica più impegnata (e, quindi, l’occasione di battersi in prima persona per i suoi ideali) per Cottone, arrivò dopo la nuova fuga in Sicilia dei regnanti napoletani, nel 1806.

“Miei cari figli, aiutateci!” implorò melodrammaticamente la regina Maria Carolina, rivolta al popolo accorso al porto di Palermo, per vedere l’arrivo dei sovrani.

Ed i siciliani, un po’ perché speravano che con la presenza del re l’isola guadagnasse prestigio, un po’ perché sono fatti così (soprattutto con chi li sfrutta) non mancarono di applaudire.

La delusione, però, non tardò, soprattutto per i baroni. Onori e prebende presso la corte sembravano esclusivo appannaggio dei disertori francesi e degli esuli napoletani, a partire dal governo, formato tutto da ministri continentali. I nomi più prestigiosi erano quelli del cav. Luigi de’ Medici, di Donato Tommasi, del principe Gerolamo Pignatelli di Moliterno, del principe di Canosa, del duca d’Ascoli, del marchese di Circello, di Carlo di Saint Clair.

Il bilancio statale, inoltre, veniva falcidiato per finanziare l’insorgenza antifrancese nel napoletano.

“Soltanto il brigante Fra’ Diavolo c’è costato duemila e cinquecento ducati di rendita!” esclamò Carlo Cottone, in parlamento.

“Se è per questo, l’hanno pure nominato colonnello!” completò suo nipote, il principe Ventimiglia di Belmonte.

La misura fu colma quando al parlamento venne chiesto dai sovrani, prima un donativo straordinario di centomila ducati e poi, nel 1810, un ulteriore donativo di trecentomila onze annue.

Allora, in alternativa, col sostegno di Cottone e del Ventimiglia, venne affidato al giurista Paolo Balsamo l’incarico di elaborare un progetto finanziario, finalizzato a radicali riforme.

“Voglio che vi affianchi un mio protetto” disse Cottone a Balsamo. “E’ figlio di un amico. Vedrete, è un giovane avvocato, che promette di diventare un ottimo politico.”

Si riferiva a Vincenzo Natale, che, proprio nel 1810, si era iscritto al foro di Palermo.

“A decorrere da quest’anno” continuò Cottone, “deve essere abbandonato l’antico sistema tributario fondato sui donativi e bisogna dare inizio alla formazione del catasto, così come è già avvenuto in tutti gli altri Stati italiani.”

Le riforme volute da Cottone non ebbero un’approvazione facile. In prima battuta, la partita fu vinta soltanto in parte, poiché il braccio demaniale e l’ecclesiastico votarono per il donativo chiesto dal re, mentre il militare ne concesse la metà. Ciò autorizzò la richiesta di altri donativi, per il principe ereditario e per la regina.

Il Cottone ed il Ventimiglia cercarono di contrastare tanta voracità, ottenendo la stampa del rendiconto agli atti del Parlamento. Si sperava che si riuscisse a mettere un freno allo sperpero del denaro dei sudditi, rendendo pubbliche le spese di corte. Il risultato, invece, fu che Cottone venne radiato dal parlamento.

La frizione tra il principe liberale ed i sovrani divenne insanabile dopo i tre editti reali del 1811, emessi senza consultare il parlamento. Con essi la corona imponeva la tassa dell’1% su tutti i pagamenti regolati da scritture pubbliche e private; si appropriava dei beni della Chiesa e dei Comuni, mettendoli in vendita per 300.000 onze d’oro; istituiva una lotteria di cinquanta appezzamenti, anch’essi da vendere. Così, il re recuperava abbondantemente tutti i donativi negati.

Cottone e Ventimiglia, un po’ accantonando la loro precedente critica al sistema dei donativi, ma fermi nella difesa delle prerogative del parlamento siciliano, promossero una petizione di protesta, firmata da quarantatrè membri del braccio baronale. Per il corso non interrotto di più secoli e sotto varie dinastie che l’hanno governata, non ha, la nazione siciliana riconosciuto altro modo di soccorrere i bisogni dello stato se non quello dei “donativi” offerto per i suoi rappresentanti adunati solennemente in parlamento…

La corona non gradì e fece arrestare Cottone, oltre ai principi Ventimiglia di Belmonte, Alliata di Villafranca, Riggio di Aci e al duca Gioeni di Angiò (tanto ammirato, se ricordate, da don Giuseppe Tineo e da don Alfio Natale).

Cottone, in particolare, venne deportato nel forte Santa Caterina, nell’Isola di Favignana. Lì, su una parete della cella scrisse:

Hic vinctus, maneo propter patriarum legum custodiam.

In verità, egli aveva già dato dimostrazione della sua forza d’animo, quando offrì il caffè all’ufficiale che lo arrestava, con un solo, semplice commento:

“Non so perché mi si voglia dare tanta celebrità.”

La prigionia di Carlo Cottone non durò moltissimo. A liberare l’isola dalle regali follie, venne mandato a Palermo il trentasettenne lord Bentinck, come ministro dell’Inghilterra.

“C’è preoccupazione da parte nostra” disse il re a Bentinck, affidandogli l’incarico. “Secondo le informazioni che ci manda lord Amherst, il nostro ambasciatore in Sicilia, è probabile che Maria Carolina, per mezzo di sua nipote Maria Luisa, complotti con Napoleone.”

“Il matrimonio di quel tiranno con la giovane Maria Luisa d’Austria comincia a dare i suoi malefici frutti, a quanto pare.”

“Questo lo vedremo! Oggi, ciò che sappiamo è che Bonaparte ha già scritto alla regina, con lusinghiere proposte di amicizia.”

“Come cambia in fretta il giudizio di certi uomini! Fino a non molto tempo fa, Napoleone non perdeva occasione per dire peste e corna dei Borbone.”

Panta rhei, caro Bentinck, tutto scorre… tranne l’impero britannico, ovviamente.”

La prima a rendersi conto del cambiamento di clima fu la regina Maria Carolina. Le sue manie di persecuzioni, esaltate dall’abuso di oppio (con la scusa dei continui mal di testa e mal di denti), non erano diminuite neppure con la nascita del sospirato nipote maschio, il futuro Ferdinando II, meglio noto come il Re Bomba.

“Questo sergentaccio” disse al marchese Circello, sapendo di parlare ad un grande divulgatore dei pettegolezzi di corte, “dovrebbe essere stato mandato qui a far riverenze. Invece, non fa altro che dettar legge!”

Infatti, Circello (da buon siciliano, abituato a giocare con tutti i mazzi di carte) non tardò a riferire a Bentinck.

“Incarcerando i baroni” rispose l’inglese, placidamente e, per intuito, altrettanto consapevole di chi aveva di fronte, “si sono violati gli antichi privilegi dell’isola. Io non detto leggi; mi limito soltanto a pretendere il rispetto di quelle che già ci sono. Se a ciò si aggiunge che i sovrani hanno riempito l’esercito di disertori francesi ed il governo di fuorusciti napoletani, mi chiedo perché si meravigliano del fatto che i siciliani non sono contenti di loro.”

“Basta!” concluse Maria Carolina, quando Circello tornò da lei. “non ci sarà modo di convincere quell’uomo a rispettarci. Chiederò all’imperatore di darmi asilo in Austria. Io non mi curo di convincere il mondo. Ho soltanto il desiderio di non essere più turbata e di concludere in pace i mei giorni. Da tempo il re acconsente alla mia volontà. Egli giudica la mia partenza necessaria, per prolungarmi l’esistenza e per salvarmi dalle persecuzioni dei cosiddetti amici e alleati. Essi con la perfidia e con gli indegni trattamenti lasciano a gran distanza quello che fanno i più accaniti nostri avversari.”

Soltanto il 27 agosto 1811 Maria Carolina poté godere di una momentanea gioia. Bentinck partiva, Salpava verso l’Inghilterra, cercando istruzioni precise e maggiore potere.

“E’ partito!” andò esclamando Maria Carolina per tutto il giorno.

Ma, non era una stupida e, riflettendoci con più calma, capì che, così come dopo ogni fumata d’oppio c’era un nuovo mal di testa, dopo ogni partenza c’è spesso un ritorno. Pensò che per lei probabilmente era prossima la fine.

“Vedo la crisi” scrisse nel suo diario, “avvicinarsi a gran passi; ma mi ci sottometto purché non vi siano mischiati la mia famiglia e i miei amici; dopo il mio sacrificio i veri e arcipochi amici mi compatiscano e rendano giustizia alla mia memoria, sicuri che, se cuore, volontà e mente sono retti, resto un’infelice vittima di penose circostanze.”

17

La cerchia intellettuale di Gian Agostino De Cosmi

Mentre Maria Carolina viveva il suo tramonto, Vincenzo Natale faceva i primi passi nell’alta politica. Era arrivato a Palermo ventinovenne, dopo la laurea presa all’Università di Catania.

“Ho voluto soddisfare il volere dei miei, che intessero farmi diventare un avvocato” disse a Giannagostino de’ Cosmi, colui che, su preghiera di don Alfio e del Tineo, lo aveva introdotto nella cerchia di Carlo Cottone. Oltre che per la cultura giuridica, infatti, era apprezzato per l’ottima conoscenza delle lingue e delle letterature greca e latina, il che lo rendeva caro anche ad un intellettuale del calibro di Rosario Gregorio.

Nelle lettere al padre, così, abbondavano i riferimenti ai libri. Stranamente, però, dal 1810 non fece più cenno a sue frequentazioni col vecchio Giuseppe Tineo. Non ne comunicò neppure la morte avvenuta a Palermo nel 1812. Dimenticanza o imbarazzo, dati i dissidi che, da anni dividevano Cottone e Tineo?

“Tineo era sì un massone, ma all’antica!” disse al padre, qualche anno dopo. “Era legato più all’illuminismo dei principi, che al dinamismo dei popoli.”

“Ma, perché, almeno, non andasti al suo funerale?” chiese don Alfio.

“Impegni politici” egli rispose.

Vincenzo fece in fretta a diventare un politico di razza. Egli, ormai, sapeva coltivarsi gli amici giusti, anche con qualche piccolo omaggio delle delizie culinarie militellesi. Gli insaccati, specialmente.

“Le bacio le mani, caro Padre, con mia signora Madre” scriveva a casa, nel novembre del 1811, “a cui raccomando i salsiccioni, e la salsiccia. Abbraccio i miei fratelli e le sorelle, e mi resto figlio obb.mo Vincenzo.”

Un mese dopo, evidentemente non era contento dei risultati su un argomento di tanto affare. “Li salsiccioni potrà farne la quantità che le piacerà, coll’intelligenza che riuscendo buoni saranno sempre pochi, e se cattivi, il poco diverrà molto. Che voglio dirle perciò? Per evitare però il pericolo di perdervi la fatica e la spesa, ho scritto a Maddalena la ricetta per ben prepararli.”

E col cibo, sicilianamente, mischiava la letteratura. “Colla serva di Blanco ho ricevuto la mostarda, il Vitruvio ed il T. Livio. A quest’ultimo nulla manca fuor di quanto si desidera in tutte l’altre edizioni come rapito dall’ingiuria del tempo. De’ Classici nessuno forse ci rimane intiero. Per Livio quindi abbiamo avuto la stessa disgrazia degli altri. Non so frattanto disapprovare il desiderio suo d’averne un’edizione migliore, trattandosi di uno dei primari storici dell’antichità. Qui in un libraio n’esiste una assai buona, se non la migliore di tutte l’altre di questo scrittore. E’ stata impressa dopo la famosa edizione di Drachenborchio, e curata dal dottissimo Ernesto, da lui anche corredata d’un glossario liviano per maggiore intelligenza del testo. E’ in 3 volumi ben grossi e ne pretende onze 2,12, ma forse si cederà per sole onze 2. La nostra si potrebbe vendere un paio di scudi, quasi che se ne potranno aggiungere altri tre per far quella compra. Se si risolverà, me ne potrà scrivere, e mandarmene il denaro.”

La forza dell’esempio, il tempo che mirava alla rigenerazione politica, il carattere spingevano il Natale allo studio e all’ammirazione dei classici.

L’ellenismo divenìa una passione, educavasi al pensiero dei partigiani della scuola storica che il bello, l’onesto, l’utile, il vero non può rintracciarsi che nei grandi modelli dei genii dei popoli, delle illustri nazioni dell’antichità: così il Natale non a mezzo di moderno sapere di scienza novella indagava lo stato economico morale politico de’ tempi che ci precessero di meglio di venti secoli, ma a scopo di sua attività, a scopo sociale, a modello di sua vita individua e pubblica, di vita degli uomini.

Ed essendovi accanto dell’erronea la parte vera del suo sistema, ei ne raccolse frutti primaticci, poiché ancor giovine erasi inoltrato d’assai nelle lettere greche. Già non tocco il terzo lustro era in corrispondenza letteraria con importanti personaggi.

Questo scriveva di lui, molti anni dopo, Salvatore Majorana Calatabiano.

Il primo successo venne con alcuni scritti in greco antico, che, letti da Giannagostino De Cosmi, furono ritenuti un viatico sufficiente per chiedere per Vincenzo un posto al sole all’Università di Catania.

“Non è poco” scrisse compiaciuto al padre, “se consideriamo che l’invito viene da uno, i cui studi costituiscono un notevole apporto alla scienza dell’educazione, non soltanto in Sicilia, fra l’altro di difficilissima contentatura dal punto di vista del rigore filologico.”

L’apprezzamento trovò conferma nel fatto che i lavori vennero acquisiti dalla biblioteca universitaria di Catania. Ciò aumentò subito il numero dei suoi estimatori (innanzitutto la famiglia dei Gemmellaro di Catania, che gli resterà amica fino alla fine) e gli permise di entrare nel gotha intellettuale siciliano.

18

Un fallito tentativo di unità politica in Sicilia: Luigi de’ Medici

Nei mesi in cui il terremoto politico scardinava la quiete del regno, Vincenzo riuscì a frequentare contemporaneamente il rivoluzionario Carlo Cottone ed i borbonici ministri Luigi de’ Medici e Donato Tommasi.

Tommasi, particolarmente, gli fu d’aiuto nei suoi primi anni palermitani. D’altra parte, anche questi era partito da idee progressiste. Già da studente di giurisprudenza aveva frequentato Luigi de’ Medici, Melchiorre Delfico, Mario Pagano (dirigente della Repubblica partenopea), Antonio Jerocades, Giuseppe Albanese ed il grande Gaetano Filangieri.

Aveva, perciò, aderito alla massoneria col nome di Giano Gioviano Pontano ed aveva dato ottima prova di sé nel 1786, organizzando la loggia illuminata di Napoli, d’accordo con Friederich Munter. Successivamente, le sue qualità erano state ribadite dal buon funzionamento della loggia della Vittoria, alla quale Tommasi era passato, entrando in fratellanza con Nicola Pacifico, Francesco Caracciolo, Domenico Cirillo (altro dirigente della Repubblica partenopea) e Pasquale Baffi (che abbiamo già incontrato nel 1776 nella villetta Marselli di Capodimonte).

Tommasi, ancora, fu ministro e primario rappresentante del moderatismo progressista in Sicilia. Ricoprì, però, le cariche pubbliche più importanti a Napoli, a partire dal 1815. Fu ministro di grazia e giustizia e dei culti e, nel gennaio 1830, alla morte di Medici, divenne presidente del consiglio dei ministri. Per i suoi servigi fu, inoltre, creato marchese di Casalicchio.

Come ministro dei culti, ebbe una parte notevole nel preparare il concordato del 15 settembre 1818 fra la Santa Sede ed il Regno delle Due Sicilie. Inoltre, assieme a Luigi de’ Medici, fu uno dei principali fautori della cosiddetta politica dell’amalgama, consistente nell’integrare nella legislazione del Regno delle Due Sicilie i codici e le riforme messe in atto nel decennio di occupazione francese.

Con Donato Tommasi, Vincenzo condivideva il perbenismo borghese, agli antipodi del libertinismo aristocratico. Li rendeva somiglianti, inoltre, un certo cinismo. Così, nel novembre del 1811, a proposito di un progetto per ottenere in censuazione l’ex feudo di Francello dal comune di Militello, il nostro protagonista scriveva a don Alfio:

“L’offerta dovrebbe camminare sopra i contratti con qualche augumento.”

Infatti, come tanti, ieri e oggi, egli aveva cercato santi in paradiso, rivolgendosi al ministro. Spero soltanto che la parola augumento non debba leggersi col sospetto con cui la leggerebbe un magistrato di mani pulite. Sono sicuro, comunque, che Vincenzo Natale, oggi nel paradiso dei politici, è contento di essere vissuto in un’epoca senza intercettazioni telefoniche.

Non era la prima volta, fra l’altro, ch’egli ricorreva all’attenzione speciale di Tommasi. Nel gennaio del 1811, la badessa del monastero di San Giovanni di Militello aveva mandato un memoriale a Palermo, per denunciare il fratello Felice Natale e la sua banda. L’accusa era che sconcertavano le educande.

“Egli spinse la cortesia fino a lacerare quel memoriale” scrisse compiaciuto Vincenzo, riferendosi al ministro.

L’anno successivo (febbraio 1812), però, la questione non era ancora chiusa. Il che fa pensare che lo scapestrato fratello e compagni non si limitassero a sconcertare le ragazze.

Poco male, dato che nel frattempo Vincenzo entrava nella stanza dei bottoni. Ora, finalmente, poteva esibire in prima persona una certa arroganza.

“Stia sicuro” infatti scriveva al padre, “ per i ricorsi contro Felice al governo. Per ora non ci sono, e se ci fossero bisogna dire che V. S. sia tutto nuovo alla gran metamorfosi avvenuta nel governo, per la quale si tengono ora altri sistemi, e non deve più temere.”

Lord Bentinck tornò in Sicilia il 7 dicembre 1811 e chiese perentoriamente l’allontanamento dei francesi e dei napolateni dalle leve del potere. L’aria era cambiata e gran novità erano dietro la porta. Lo notò, fra i primi, il nostro Vincenzo Natale e cercò adeguati contatti per ingraziarsi i nuovi padroni. Ne dette relazione in famiglia con una lettera del 6 febbraio 1812. “Questa sera torno da bordo di una corvetta Inglese, dove un fratello del nostro don Mario Gemmellaro trovasi primo assistente, e per di lui riguardo sono stato a tavola degli Officiali, che mi hanno fatto bevere un poco di vino, e mi sento la testa riscaldata.”

Ferdinando di Borbone, da parte sua, convinto dal Bentinck, passò la mano al figlio Francesco. Così, Carlo Cottone con gli altri vennero liberati.

“Il nostro Sovrano” scriveva, allora, Vincenzo a don Alfio, il 20 di quello stesso mese, “sabbato (sic) scorso ha eletto per vicario generale nel Governo il principe Francesco suo figlio, attese le sue infermità che non portano di assiduamente sovrintendere agli affari; ma questa elezione è stata fatta amovibile ad nutum. Ha eletto generale dell’armi il Ministro inglese Bentinch (sic); e il Principe Ereditario la prima mattina del suo governo ha dispensato onori, cioè chiavi, e fasce, ed ha concesso la grazia ai baroni esiliati di ritornare.”

I baroni esiliati ritornarono e contemporaneamente andarono via i ministri della regina Maria Carolina: il duca d’Ascoli, il cav. De’ Medici, il colonnello Castrone. Venne, inoltre, abolita la tassa ferdinandea dell’1%, una guarnigione inglese fu posta nella capitale e Bentinck prese il comando supremo dell’esercito siciliano.

Vincenzo Natale stimava Luigi de’ Medici, uomo di cultura illuminista, ma indulgente quanto bastava, per cercare la pace fra i sudditi. Egli non pretendeva di cambiare troppo in fretta il mondo. Quando giunse notizia del siluramento, Vincenzo, per la prima volta in vita sua, si espose, andando da lui, per salutarlo.

“Le dico in conclusione” disse a Vincenzo un Medici amareggiato, “di essermi ingannato, credendo che i siciliani siano tenacemente attaccati a quella forma di politica rappresentanza, di cui cotanto con le parole sono usati a far vanto.”

Guardò dalla finestra il Piano del Palazzo Reale, dove, come sempre, i cocchieri si facevano largo a furia di insulti e bestemmie; certe donne e i venditori di tutto trafficavano, come sempre; la sbirraglia faceva la faccia feroce, come sempre, e consumava a sbafo.

“Sarà lo spirito del secolo che genera nel cuore di ognuno l’egoismo” continuò Medici. “sarà che i siciliani, mentre parlano di libertà a gole gonfie, non ne hanno alcun sentimento…”

Si voltò di scatto a guardare Vincenzo. “Ma, mi senta bene, Natale. L’esperienza dei suoi amici baroni, per gli applausi, che ho sentito venire sempre dalle stesse mani… ieri, quando il re li mandava in esilio e oggi che Bentinck li fa tornare da eroi… Quell’esperienza mi dice che se il re, o chi per lui, si noiasse del parlamento, non è difficile che i siciliani umilissimamente lo supplicherebbero di chiuderlo!”

Si avvicinò e mise una mano sulla spalla di Vincenzo. “Adesso tocca a voi. Dovrete avere a che fare coi siciliani, col loro groviglio di odi e di servilismo. Vedremo cosa riuscirete a combinare con le vostre virtù rivoluzionarie. Se ne ricordi, però: è infinitamente più agevole far male ai siciliani che far loro del bene.”

Quando si congedarono, lo salutò esclamando:

“Mal si abbia chi vuol far bene ai siciliani!”

19

La Sicilia liberale nella tenaglia: il riformismo di Carlo Cottone e l’estremismo di Emanuele Rossi

Quando Bentinck prese in mano la situazione siciliana, la regina fu confinata nella tenuta di Castelvetrano ed il re in quella della Ficuzza. Vennero, quindi, portati al governo i liberali ed il parlamento non si limitò più a votare donativi ed a chiedere grazie. Arrivato al potere, il principe Carlo Cottone di Castelnuovo dette inizio al suo programma di realizzare un vero e proprio rimpasto degli ordini del regno.

“Sotto gli influssi del Ministero novello” scriveva, al riguardo, Vincenzo Natale a don Alfio, “le elezioni del Braccio demaniale hanno messo in luce i caldi e conosciuti patrioti. Ora speriamo che i nobili membri del Braccio militare e del Braccio ecclesiastico vengano ad adunarsi a Palermo, inclinati e disposti non soltanto alle novità, ma pure ai sacrifici inevitabili.”

Giunsero, così, le riforme per fare uscire la Sicilia dal feudalesimo, cominciando con l’abolizione delle primogeniture e dei fedecommessi. Ma, in questa occasione, purtroppo, avvenne pure la rottura tra Cottone ed il nipote Ventimiglia, principe di Belmonte.

“Sarebbe preferibile rimandare la legge” allora suggerì Vincenzo a Cottone.

Era un consiglio che poteva permettersi, essendo diventato uno dei suoi più fidati collaboratori.

“E darla vinta a mio nipote?” si meravigliò il principe.

“La chiami una ritirata strategica. Lei, nel frattempo, avrebbe il tempo di preparare la camera dei Pari a darle un risolutivo appoggio.”

Cottone allargò le braccia. “Non avrebbe torto, se non fosse che il braccio demaniale non intende aspettare oltre.”

Davanti a quella premura, perciò, Cottone decise di rompere gli indugi, sfidando il parere del Ventimiglia, favorevole al mantenimento di adeguati appannaggi.

Tra zio e nipote divenne inevitabile l’ostilità. I bracci demaniale ed ecclesiastico votarono per l’abolizione del fedecommesso. Il Braccio baronale combatté ad oltranza, per mantenere inalterati i privilegi di casta legati alla primogenitura. Inoltre, i nobili non volevano perdere il mero e misto impero, che faceva del castello feudale un ente con poteri sconfinati.

In quei tormentati giorni Vincenzo Natale frequentava pure Emanuele Rossi, il rivoluzionario amico di suo padre (si ricorderà che insieme avevano vinto la causa contro il principe di Butera).

La mattina del 13 aprile 1812, perciò, si ritrovarono a parlare davanti alla Macchina ad acqua, che stava in piazza Pretoria, sulla quale si affaccia il Palazzo senatorio.

“Voi Natale siete nati moderati” gli disse Rossi.

Non riusciva a rinunciare a stuzzicare quel giovane, che aveva, come usava digli, una flemma travolgente, almeno nella misura in cui egli stesso aveva una passionale verve.

“Invece, almeno io, sono uno che sa fare i conti con la vita” rispose Vincenzo. “E’ bene chiedere soltanto ciò che si ottiene davvero Avevo un amico, quando studiavo in collegio a Bronte, che sognava la rivoluzione di Babeuf e chiamavamo Spartacus. Ora amministra da galantuomo il feudo dei Nelson.”

“E’ una peste che gira, l’accomodarsi col baronaggio” sospirò Rossi. “Spero che non contagi anche lei.”

“La vera peste” disse placidamente Vincenzo, “è la necessità di mangiare ogni giorno e di non lasciare la testa sul patibolo. Spartacus ha fatto benissimo ad entrare al servizio dei Nelson. Tanto più che non mi pare che abbia rinunciato alle sue idee.”

“Sa bene a che servono e dove ce le possiamo sbattere, le idee che restano nella testa dei rivoluzionari!”

“Quelle idee servono a restar vivi… per farle poi diventare realtà, quando arriva il momento giusto. In Francia, nell’89, insieme a troppi uomini, sono morte troppe idee buone.”

20

Paolo Balsamo e la Costituzione siciliana del 1812

Per Vincenzo, quelli che visse nel 1812, furono anche momenti di paura e di incertezza. Le riforme politiche dipendevano troppo dalla presenza inglese, che non sempre era assidua, a causa della guerra contro Napoleone.

“La flottiglia Inglese che si trovava nel nostro porto” scriveva una sera al padre, “è partita improvvisamente non si sa per dove, né perché… e sono quattro giorni che non è arrivata alcuna notizia. Varii rumori si sono sparsi circa ai movimenti degli inimici. Si parla di flotta di Tolone, di legni nel golfo di Napoli, di legni nell’Adriatico, di truppe in Calabria. E non si sa che giudizio formare di tante dicerìe. La città perciò è in grande aspettazione.”

Per fortuna, le sue ansie risultarono esagerate, dato che, il 19 luglio di quell’anno, venne varata la maggiore riforma dei nuovi governanti: la Costituzione siciliana. Vincenzo, diventato deputato e segretario del parlamento, ne discusse ogni punto col giurista Paolo Balsamo, che aveva preso a modello la Costituzione inglese. Il documento fu approvato dopo venti ore di discussione.

“Tra le caratteristiche principali della nuova costituzione” relazionò Vincenzo a don Alfio, “spicca la Camera ecclesiastica assorbita dalla Camera dei pari. Le città demaniali vengono messe insieme con quelle reali nella Camera dei comuni. Le Camere debbono riunirsi ogni anno con il potere di legiferare e imporre tasse, subordinatamente al consenso del re e i ministri saranno responsabili di fronte al parlamento. In materia finanziaria la legislazione spetta ai Comuni. Il re, tuttavia, conserva il potere esecutivo, insieme col diritto di veto e quello di sciogliere il parlamento. Nessun pari può avere più di un voto. Viene adottato il sistema giuridico, per cui tutti debbono essere uguali di fronte alla legge e nessuno deve essere imprigionato senza un regolare processo. La tortura è stata abolita e con essa tutte le giurisdizioni private e i Fori, eccetto quelli della Chiesa e dell’esercito. La stampa deve esser libera, tranne per quanto concerne le questioni religiose. La Sicilia sarà completamente indipendente. Nel caso il re ritorni un giorno a Napoli, suo figlio maggiore resterà nell’isola come sovrano indipendente. Al sovrano viene comunque vietato, come lo era stato nel 1296, di lasciare l’isola senza il consenso del parlamento.”

Tanto entusiasmo descrittivo, pur se non era del tutto ingiustificato, restava un tantino eccessivo. Infatti, l’art. 1 della Carta, a compensazione delle audacie progressiste in materia legislativa, inequivocabilmente stabiliva che la religione dovrà essere unicamente, ad esclusione di qualunque altra, la cattolica apostolica romana. Il re sarà obbligato a professare la medesima religione, e quante volte ne professerà un’altra, sarà ipso facto decaduto dal trono. I concetti moderati erano, ancora, ribaditi: dall’art. 3, il potere esecutivo risiederà nella persona del re; dall’art. 5, la persona del re sarà sacra ed inviolabile; dall’art. 9, sarà privativa del re il convocare, prorograre e sciogliere il Parlamento, secondo le forme ed istituzioni che si stabiliranno in appresso.

21

1813: Ferdinando di Borbone in conflitto con gli inglesi

Il 6 febbraio 1813 ci fu un tentativo di Ferdinando di ritornare al potere, ovviamente istigato dall’energica Maria Carolina. Prima, dalla residenza appartata della Ficuzza il re si trasferì nella villa della Favorita, vicino Palermo. Poi, il 9 marzo, entrò nella capitale e chiamò nella Cappella palatina di Palazzo dei Normanni alcuni dei più influenti ministri e deputati.

“Siamo guariti” disse, “e ci sentiamo pronti a riprendere il nostro posto.”

Tutti si guardarono fra loro, piuttosto perplessi. Nessuno osava obiettare al re. Ma, nessuno era entusiasta alla prospettiva di obbedire al re.

“Abbiamo già preso accordi con lord Bentinck” continuò il navigato sovrano. “Ci ha assicurato che il governo britannico non frapporrà ostacoli…”

Ci fu un silenzio imbarazzato, perché poco convinto. “…Purché rispettiamo la costituzione. Ci recheremo, perciò, già domenica prossima nella chiesa di San Francesco, per ringraziare Dio della ritrovata salute… e per riprenderci il posto che ci spetta.”

Si fece avanti Vincenzo, per le mani del quale, nella sua qualità di segretario del parlamento, passava molta della corrispondenza interna e, quindi, era reputato uno degli uomini più influenti del Regno. Nonostante le idee costituzionaliste, inoltre, per i suoi atteggiamenti moderati, non era sgradito alla regina. Ferdinando, invece, forse non ne ricordava neppure il nome. Se l’era trovato nella riunione su invito della moglie.

“Chiedo scusa alla maestà vostra” disse Vincenzo, con un inchino. “Su incarico della regina ho dovuto verificare proprio oggi le reali intenzioni di lord Bentinck… Sapete bene quanto brutali possano essere le reazioni di quell’uomo e quanto la benevolenza inglese risulti mutevole e legata al variare delle esigenze militari…”

Guardò il re, ora un poco preoccupato per una più che probabile reazione. Ferdinando, invece, restò una sfinge. Era troppo esperto di vita e di traccheggi, per ignorare il precetto che vuole che si ascolti, prima di reagire.

“Purtroppo” continuò Vincenzo, “l’ammiraglio vi proibisce di tornare al governo, senza l’esplicito consenso dell’Inghilterra.”

Abbassò lo sguardo, mostrando imbarazzo. “E, inoltre, vi ingiunge di allontanare dall’isola la regina.”

Ferdinando sbiancò in viso. Ebbe perfino un impercettibile movimento della mano, quasi un accenno del gesto di sfoderare la spada, pronto ad aggredire l’insolente.

“Non riconosco agli inglesi il diritto di ingerirsi negli affari interni del regno e della famiglia reale” disse, invece, calmo, scandendo le parole; ma, dimenticando di usare come prima il plurale maestatis.

Quindi, voltò le spalle a tutti ed uscì.

Nonostante l’ira, il re prese la saggia decisione di rinunciare alla manifestazione popolare che i fedelissimi avevano in programma, per festeggiare la sua ritrovata salute, limitandosi ad una messa nella sua cappella privata. Chiese, quindi, chiarimenti, con una nota spedita a Bentinck.

“Mi è dolorosamente impossibile” ribadì l’ammiraglio, in risposta, “permettere un ritorno al governo di Vostra Altezza Reale, se non mi arriva un esplicito permesso dall’Inghilterra. Purtroppo, a ciò debbo aggiungere l’invito a voler disporre un allontanamento della Regina dalla Sicilia. La guerra contro Napoleone non permette tentennamenti e, date le perplessità del governo britannico sugli ultimi atteggiamenti della Vostra Augusta Moglie, si impongono decisioni drastiche.”

“Mia moglie non è uno stalliere!” esclamò, ricevendo la lettera, Ferdinando, al colmo dell’indignazione. Con la solita prudenza, però, a quell’ingiunzione oppose soltanto il silenzio.

Evidentemente, non era questo il miglior comportamento per salvare la dignità; e, sul momento, neppure se stessi. Ben presto, a stringere d’assedio il re, arrivarono le dimissioni dei ministri Cottone, Ventimiglia e Settimo. Seguì un ultimatum di Bentinck.

“Vi si concede soltanto un giorno per restituire a Sua Altezza Reale Francesco I, vostro vicario, il potere sull’isola” scrisse l’inglese, senza ulteriori complimenti.

A Ferdinando non restò altro che riunire un consiglio di famiglia, convocando il figlio ed il duca d’Orleans, suo genero e futuro re di Francia.

“Se cedo agli ordini di quel sergente” disse, rivolto al figlio, “voi siete destinato a restare prigioniero dei suoi arbìtri.”

“I tempi cambiano” si inserì il duca d’Orleans. “Probabilmente, neppure gli inglesi sono eterni. Se vinceranno la guerra contro Napoleone, la Sicilia perderà molto della sua importanza strategica. Penso che andranno via e la vostra famiglia conserverà il trono, o con voi, o con Francesco. Se vinceranno i francesi, invece… allora sì che sarebbe un guaio!”

“Bisogna tagliare le radici della rivoluzione” aggiunse Francesco. “E’ necessario, perciò, smorzare il malcontento. Non conviene mettere in discussione la costituzione.”

“Il mio consiglio è che cediate” concluse il duca d’Orleans. “Verranno tempi migliori.”

“Deciderò stasera” disse Ferdinando, congedando i due.

In effetti, aveva già deciso, dato che nel primo pomeriggio scrisse al Bentinck:

“Ho già disposto la restituzione di tutti i poteri a mio figlio.”

Il 23 marzo 1813, il re fece ritorno alla villa della Favorita. Da qui scrisse alla moglie, comunicandole la necessità ch’ella andasse in esilio. Più che dalla lettera del marito, però, Maria Carolina fu convinta a partire per Vienna da cinquemila uomini che, agli ordini del generale Macfarlane, circondarono il suo rifugio.

“Parto dalla Sicilia per sempre” scrisse lei all’amico principe di Trabia. “Non voglio lasciarla senza darvi un eterno addio e vi rinnovo qui l’assicurazione che ho sempre amato e desiderato il bene della Sicilia, che sono stata sconosciuta, ma che sono e sarò sempre la sacrificata, ma leale, onesta Carolina.”

Partì il 14 giugno. Quell’anno l’estate siciliana avanzava più secca e feroce del solito. Il vento faceva crepitare gli sterpi sui fianchi del monte Pellegrino. L’orizzonte era una linea bianca e incandescente, che fondeva cielo e mare. Il respiro portava vampe nei polmoni e ogni gesto risultava lento e pesante, in quell’aria diventata una melma di odori.

Con Carolina c’era il figlio Leopoldo ed i fedelissimi: il marchese di Saint-Clair, il principe di Hassia Philippsthal, la contessa di San Marco.

22

Il Parlamento del 1813 in Sicilia: Cronici, Anti-cronici ed il governo Ferreri

I cambiamenti politici del ’12, sfortunatamente, non garantirono la salute del governo siciliano. Non si riuscì a togliere le imposte e i ministeri erano sistematicamente attaccati da sinistra, con le critiche di Emanuele Rossi, anche lui diventato deputato. I rapportii tra il moderato Vincenzo e Rossi, però, restarono ottimi e spesso i due restavano a chiacchierare, anche dopo la chiusura dei lavori parlamentari.

Ci fu un giorno in cui un intervento di Rossi fu particolarmente duro nei confronti di Cottone e Vincenzo nello scambio di opinioni post-dibattito si sentì in dovere di farglielo notare. “Sa la mia stima per lei, caro don Emanuele. Ma, alle volte, a furia di contrastare il gallo del pollaio, si rischia di metterci dentro la volpe. Capisco che la politica del principe di Castelnuovo non sia esattamente quella che lei vuole. Ma, nel nostro lavoro valgono i piccoli successi. Credo che il primo dovere di un parlamentare sia l’esercizio della pazienza.”

“Lei è giovane” rispose Rossi. “Ma, ho l’impressione che abbia i nervi ancor più saldi di quelli, già saldissimi, del nostro caro don Alfio!”

“Sono figlio di mio padre.”

“Uomo di pochissime parole! Capace di ascoltarti per ore, per poi tirar fuori la soluzione in una battuta! Ma, lei è riuscito a farmelo sembrare un avventato! Come non le monta il sangue in testa, davanti a quell’ipocrita di Cottone? Cane non mangia cane, se lo ricordi! Quello, principe è… e soltanto all’interesse dei principi pensa!”

“Dov’è il male, se l’interesse dei principi coincide con quello del popolo? Lei, Vaccaro e gli altri amici democratici, per troppo amore, per troppa premura… rischiate, come si dice, di buttar via il bambino con l’acqua sporca!”

Il senatore palermitano Giuseppe Vaccaro ed un nutrito gruppo di demagoghi erano, infatti, gli alleati di Rossi nell’attacco a Cottone. L’occasione era venuta da un discorso del presidente della Camera dei Comuni, Cesare Airoldi, in cui i deputati venivano esortati ad occuparsi prima di tutto delle dissestate finanze del Regno. La loro azione, purtroppo, era resa ancor più efficace dal convergente attacco, che veniva dai moltissimi realisti ferdinandei eletti nel nuovo parlamento, apertosi il 18 luglio 1813.

“Parlare di finanza, senza aver risolto i problemi costituzionali, è un attentato contro l’indipendenza e la libertà della camera!” esclamò Rossi. “Cottone e i suoi compari usano i problemi di bilancio come un diversivo per continuare a comandare. Cane non mangia cane, le ripeto!”

“Con tutto il rispetto, quando hanno fame, i cani mangiano di tutto, anche le schifezze. Cottone è un cane, però, che sa annusare l’aria… I baroni siciliani hanno comandato per secoli, perché, appena hanno visto la carta mal pigliata, hanno saputo farsi massari. E’ Cottone il vero erede di quei baroni e sa che, con l’aria rivoluzionaria che tira, o si diventa un po’ giacobini, o si muore. Ma, ogni cosa va fatta al momento giusto. Solo in questo Cottone e lei siete diversi…”

“Io so che mio padre, quando non voleva darmi una cosa, mi diceva sempre: poi vediamo, figlio mio, quando avremo più soldi… Ma, a mio padre il gioco riusciva perché ero un bambino e perché era mio padre. Le riforme che non si fanno subito sono riforme che non si faranno mai.”

“Se non la offende troppo, le dirò che questa idea sulle riforme, proprio ieri, l’ho già sentita dire al tanto antipatico, per lei, ministro Cottone.”

Rossi lo guardò con la faccia di chi pensa sentiamo dove va a parare.

“Ne parlava” continuò Vincenzo, “mentre eravamo col re, con Airoldi e con alcuni dei primari della camera dei Pari. Diceva che se non si adottano subito riforme radicali per liberare le terre, togliere le imposte e favorire i commerci, la Sicilia è condannata alla decadenza ed ai disordini sociali. Sa cosa gli risposero in coro?”

“Posso immaginarlo” ghignò Rossi.

“Avete indovinato! Gli dissero: poi vediamo, figlio mio, quando avremo più soldi…”

Il potere di Carlo Cottone era un veliero che sbandava paurosamente nel bel mezzo della tempesta. Da un lato c’erano i cavalloni dei populisti di Emanuele Rossi e dall’altro quelli, se possibile, ancor più alti e violenti dei baroni restii alle novità.

Così, puntualmente, secondo le previsioni di Vincenzo Natale, arrivarono i disordini, proprio a Palermo, nella notte del 18 luglio. A questo punto, il principe di Castelnuovo dovette lasciare il governo.

Col nuovo ministero del marchese Ferreri i fermenti, lungi dal placarsi, portarono a contrapposizioni fra deputati, divisi in cronici ed anticronici. I primi erano i costituzionalisti, sostenuti dal giornale “La cronaca di Sicilia”; i secondi erano i loro avversari. Data la rivalità tra Cottone e Ventimiglia, un altro modo di chiamare le due fazioni era quello di villermosisti (dato che Cottone era principe di Villermosa, oltre che di Castelnuovo) e belmontisti (essendo il Ventimiglia principe di Belmonte).

Nell’orgia della lotta politica, all’austero ed onestissimo Cottone non venne risparmiata neppure l’accusa di aver elargito denaro all’Inghilterra, per ottenere l’intervento armato in Sicilia.

Disgraziatamente, inoltre, le simpatie inglesi verso il regime costituzionale erano troppo asservite alle variabili della guerra a Napoleone, per rappresentare un forte baluardo a favore delle argomentazioni dei cronici villermosisti.

Vincenzo Natale, chiaramente, stava coi cronici e ne condivideva le ansie, mostrando pure una genuina avversione per i francesi, che, oltre ad essere portatori del virus rivoluzionario, rivelavano sempre più una rapacità insaziabile. Per sua fortuna, col ritorno di Bentinck dalla campagna di Catalogna, il parlamento venne sciolto e Cottone fu richiamato al governo.

Questa volta, però, si volle mettere insieme la sinistra villermosista e la destra belmontista. Si tentò, cioè, quello che oggi si chiamerebbe inciucio, o governo di larghe intese.

Cottone e Ventimiglia, perciò, divennero consiglieri di Stato coi principi di Fitalia e di Cattolica. Al dicastero degli Esteri andò il Villafranca, alla Guerra l’ammiraglio Ruggiero Settimo, all’Interno ed alla Giustizia il principe di Carini, alle Finanze Gaetano Bonanno.

Ma, com’era prevedibile, ciò non bastò a placare i continui dissidi tra deputati. Già i siciliani sono nati litigiosi. Se poi sono siciliani e pure deputati, è facile immaginare il caos. La conclusione fu la più ovvia: nel 1814 il Ventimiglia finì per invocare il ritorno al potere di Ferdinando.

“Il mio affare è fatto: si richiami il re e torno alla mia vita privata!” esclamò Cottone in parlamento, per tutta risposta.

Figurarsi se il branco parlamentare perdeva un’occasione così ghiotta di liberarsi di un leader! Il re venne richiamato e successe ciò che il ministro Medici aveva pronosticato a Vincenzo Natale: il siciliano preferisce perdere nel modo peggiore, pur di non darla vinta ad un avversario migliore.

23

I fatti di Militello del 1814

Tramontato l’astro di Napoleone, la Sicilia perdette ogni interesse strategico per l’Inghilterra (per le basi navali, Malta era più che sufficiente). L’11 luglio 1814, al posto di Bentinck, venne William ‘A Court. Il Regno di Sicilia non ebbe neppure rappresentanza al Congresso di Vienna. Quello stesso anno anche il Ventimiglia usciva di scena, morendo a Parigi.

Il 18 luglio 1814, Ferdinando ordinò la riapertura del parlamento. Ma, davanti alle posizioni costituzionaliste della Camera dei Comuni, egli lo sciolse subito dopo. Si chiudeva, così, la prima avventura parlamentare di Vincenzo Natale.

In quei giorni ci furono torbidi in molti paesi della Sicilia. Lo storoco Giuseppe Giarrizzo riportò i documenti di fatti particolarmente gravi accaduti a Militello (in “Militello Notizie”, rivista del Comune), dove non vollero star tranquilli gli amici e partigiani di don Alfio Natale, sostenitori del partito dei Cronici e, quindi, nemici degli anticronici e filogovernativi Majorana della Nicchiara.

“Il capitano giustiziere ed il regio prosegreto di Militello Val di Noto” da Palermo scriveva al tribunale il duca di Gualtieri, il 16 agosto 1814, “chiedono con le rispettive a loro avvolte rappresentanze a carico di quei mal’intenzionati che hanno suscitato una commozione e premeditato d’assassinarli; ed io d’ordine di Sua Maestà le passo a Vostra Signoria affinché l’abbia presenti nell’eseguire l’incarico datole con real ordine dell’1 del corrente.”

I delitti dei malintenzionati risalivano al 10 luglio, con la notizia che re Ferdinando era di nuovo nella pienezza dei suoi poteri. Vittima principale ne fu il capitano di giustizia Giuseppe Russo e Scirè, che aveva convocato il consiglio civico per disporre tre giorni di festeggiamenti.

“E’ volere del Santissimo e Divinissimo Salvatore” disse Russo, davanti ai primari cittadini, “che il nostro Regno ritrovi pace ed ordine, ora che è di nuovo sotto la sapiente guida della Sacra Real Maestà di Ferdinando.”

“Il volere di Maria Santissima della Stella, invece” ruggì il barone Vincenzo Reforgiato, “è che, prima di festeggiare, siano tolti gli ingiusti dazi della rendita nazionale! D’altra parte, Sua Maestà il re Ferdinando ha già deciso di abolirli!”

Troppe teste approvarono senza nascondersi, per cui Russo finse di non aver colto il tono minaccioso.

“So dei disagi che travagliano i galantuomini di questa città” riprese Russo, tutto miele. “Già ieri, quando convocai il Consiglio Civico, ne ero consapevole e solidale interprete. Vorrei venirle incontro, mio caro barone. Ma che volete, amici? Dura lex, sed lex. I dazi non posso toglierli, se non mi arriva un esplicito ordine superiore.”

Il barone Reforgiato si alzò in piedi. “Ho paura che proprio lei quei dazi non potrà né toglierli, né metterli!”

“E’ una minaccia?” sbottò Russo, scurendosi in faccia, cioè tornando capitano di giustizia, pronto ad impugnare la scimitarra e a buttare alle ortiche il fioretto della diplomazia.

“Per saperlo, è sufficiente che lei continui a comportarsi come si comporta.”

“Signori!” interloquì don Alfio Natale. “Mio figlio Vincenzo mi racconta spesso della vivacità dei discorsi nel parlamento di Palermo. Ma, voi promettete di farne una replica assai più violenta. Lei, caro barone Reforgiato, non può usare il venerato nome della Madonna della Stella per trattare le miserie della politica. E lei, capitano, non deve restare sordo a uno sdegno che accomuna tutti i presenti.”

“Il nome della nostra patrona” disse Reforgiato, additando Russo, “l’hanno mischiato proprio loro con le mene politiche, quando ci hanno chiuso la chiesa per decreto regio!”

Con questa frase veniva fuori un motivo dell’animosità di Reforgiato, forse più profondo di quello dei dazi. Militello era una città letteralmente spaccata in due, come se ci convivessero due etnie contrapposte. Da un lato c’erano i parrocchiani della Chiesa del Santissimo Salvatore e dall’altro quelli di Santa Maria della Stella. Don Alfio Natale ed i suoi seguaci stavano con quest’ultima, mentre i Majorana della Nicchiara parteggiavano per la prima.

Al riguardo, lo storico secentesco Pietro Carrera aveva narrato che fino al 1500 l’unica parrocchia della città funzionante era la chiesa di San Nicolò. Santa Maria della Stella aveva assunto il titolo di parrocchia soltanto ai tempi del signore Blasco II Barresi e del nipote Giovan Battista Barresi. In conseguenza di questo fatto si era aperta una lotta per la preminenza, che aveva portato a un’autentica guerra municipale.

Nel 1710, per superare la diatriba, che aveva già provocato l’esodo di più di cinquecento famiglie, si era pensato di unire le due chiese in una collegiata. Se non che, quando le cose sembravano aver preso la giusta piega, su delazione del canonico don Giuseppe Malacrìa, la collegiata era stata denunciata come illegittima.

Erano avvenuti, poi, fatti incresciosi, il più grave dei quali era stato l’assalto nel giorno del Corpus domini del 1781 all’arciprete di San Nicolò, don Paolo Sciacca. Perciò, il viceré Caramanico non aveva tardato a considerare tale situazione una sopravvivenza medievale da eliminare, per cui, informato il re dei continui scandalosi litigii tra le Chiese di San Nicolò e di Santa Maria la Stella di Militello Val di Noto, indipendenti tra loro, determinò con Reale Dispaccio del 28 luglio 1787 che le dette Chiese si sopprimano, e che delle due se ne formi una (…), con sopprimersi ed estinguersi i titoli d’ambe le Chiese ora esistenti, per togliersi alla radice ogni fomento dell’antica divisione di Parrocchiani, dovendosi denominare la Chiesa del SS. Salvatore quella che sarà designata per Matrice ed unica Parrocchiale e l’altra la Chiesa dell’Immacolata Concezione che dovrà rimanere in qualità di Chiesa privata.

L’occasione, fra l’altro, forniva al viceré la giustificazione per un ulteriore attacco alle rendite parassitarie della Chiesa. Con quell’editto, secondo gli indirizzi del laicismo massone, la corona poteva incamerarsi parte dei beni delle parrocchie chiuse.

Purtroppo, sempre secondo gli indirizzi del laicismo massone, Caracciolo fece l’ingenuità di scegliere la chiesa di San Nicolò come sede del SS. Salvatore. Scelta razionalmente ineccepibile. L’edificio era il più grande della città e si trovava in un quartiere centrale. Ma, nelle questioni campanilistiche non è detto che la razionalità sia la scelta migliore. Ci sono ragioni che la ragione non può capire, disse Pascal.

Infatti, da quella soluzione erano scaturiti soltanto due risultati, ambedue negativi. Il primo era stato quello di cambiare i devoti di San Nicolò in devoti del SS. Salvatore, dato che il loro interesse era più per la chiesa che per il Santo, legandoli al potere costituito. Il secondo era stato che i mariani erano diventati ancor più mariani, col gusto delle congiure clandestine ed eversive.

Tutto questo il capitano di giustizia Giuseppe Russo e Scirè lo sapeva benissimo. Senza evitare di surriscaldare un clima di già incandescente, quindi, si alzò.

“Vedremo domani, quando l’oratore del municipio leggerà il mio bando, come andrà a finire!” disse ed uscì.

L’indomani, ovviamente, scoppiò la rivoluzione.

Era un pomeriggio in cui il caldo ed il vento di scirocco avrebbero dovuto mangiarsi ogni energia. Nella piazza della Matrice il capitano Russo ed il prosegreto della città stavano circondati da impiegati e guardie in armi ed avevano dato inizio alla solenne lettura dell’avviso sulla ritrovata salure della Sacra Maestà Reale. Ma, di fronte non c’erano facce sorridenti e mani plaudenti di cittadini. Si vedeva, invece un via vai di ceffi e sguardi esaltati, che il coltello e la pistola li portavano impressi in fronte.

Era una folla di cinque/seicento individui, che non prometteva nulla di buono. Ben presto, come ebbe a scrivere lo stesso capitano nella sua relazione, molti tirarono fuori brogni, ossi di bue, tamburi, campani di bue e armi.

“Assassini del popolo!” si gridò dal fondo.

“Sanguisughe!” fece eco una voce nel mucchio.

Don Alfio Natale ed il barone Vincenzo Reforgiato, spalleggiati dalla folla, stavano in prima fila, mostrando facce preoccupate.

“Bisognerà rimetter mano al patibolo” esclamò, a un certo punto, Regorgiato.

“Per chi?” chiese il capitano, visibilmente nervoso.

“Per chi affama il popolo!” urlò il farmacista don Alfio Campisi, da dietro.

“Per chi non rispetta il volere di re Ferdinando” corresse Alfio Natale, col tono di voler mettere pace.

“Infatti io, don Alfio, ne eseguo fedelmente gli ordini” fece piccato Russo.

“Già!” sghignazzò Reforgiato. “Voi e quell’altro barattiere del prosegreto!”

Si voltò verso la folla, nero in viso, col sorriso di uno squalo. “Peccato, però, che, come sanno tutti, il re ha già deciso di abolire i dazi che questi signori pretendono.”

“Non mi è arrivato alcun ordine esplicito” insistette Russo guardando in faccia Alfio Natale e ignorando ostentatamente il barone Reforgiato.

“Basta con le chiacchiere!” esclamò il farmacista Campisi. “A morte il capitano ed il prosegreto! Viva il re!”

Fu il segnale per l’inizio del linciaggio. Prima vennero fischi e suoni, di campane di bue, di tamburi, di brogne. Poi, cominciò una sassaiola, che ben presto si fece fitta e scrosciante, come la grandine agostana. Né Russo, né il prosegreto, allora, persero tempo per cercare la salvezza. Si trincerarono dietro le poche guardie e, armi in pugno, arretrarono fino ai margini della piazza, dal lato che dava sulle viuzze che portavano verso i ruderi di Santa Maria la Vetere. Si trattava di un vero ee proprio dedalo di scale, casette e cortili, per cui cui non fu difficile per le forze dell’ordine scomparirvi dentro.

I rivoltosi diventarono subito un branco di cani scatenati e cominciarono gli inseguimenti. Ma, per fortuna, sia il capitano che il prosegreto, anche se con fatica, riuscirono a rifugiarsi in casa. Il capitano, dopo essersi chiuso dentro, cadde svenuto per più di un’ora.

Purtroppo, non era finita.

Calata la notte, sentendosi sfuggire dalle grinfie le prede, la folla dei dimostranti si impadronì delle vie cittadine. Catturò l’esattore, il collettore ed il messo municipale e li portò in giro, al seguito di una carrozza piena di uomini vocianti, frustandoli e deridendoli sguiatamente.

“Eccovi pagato anche l’anticipo per l’anno prossimo!” diceva uno, colpendoli con un lungo osso di bue.

“Chiamate l’aiuto del capitano, carogne!” aggiungeva un altro, che aveva preso la frusta del vetturino e la faceva roteare, senza badare troppo a dove colpiva.

Qualche altro dava calci e molti usavano i pugni. I poveretti si trascinavano sotto la gragnucola delle botte, guaiendo come cagnolini.

“Sono padre di cinque figli!” ripeteva l’esattore.

“Santissimo Salvatore aiutami tu!” implorò il messo.

“La Madonna della Stella devi chiamare, scemo!” gli urlò il calzolaio Compagnino, fervente mariano.

“Madonna mia bella, io che ti feci?” gli chiese prontamente il messo.

Ci fu una risata generale.

“Viva Maria!” urlò il messo e, approfittando della momentanea allegria, scomparì in un lampo.

La furia della gente, però, ben presto tornò a chiamare sangue. Così, tutti si ritrovarono davanti alla casa dell’oratore che aveva letto il bando. Fra l’altro, questi aveva la colpa di essere fratello del prosegreto. Cercarono, quindi, di buttare a terra la porta a spallate, in mezzo ad un inferno di fischi, schiamazzi e suoni.

“Non c’è nessuno in quella casa!” urlarono alcuni vicini, sperando di allontanare quell’orda feroce.

“Ci sono, invece! Eccome se ci sono!” rispondevano i rivoltosi.

Volarono le pietre, a fracassare i vetri delle finestre. Tirarono pietre pure sul tetto, rompendo alcune tegole. Un certo Salvatore Borrello, un villano che tutti chiamavano Malusangu, spuntò addirittura con una scure e cominciò a menare dei gran colpi.

Dentro la casa il poveretto e la moglie incinta cercavano di nascondersi da qualche parte. Ogni lume era spento ed il buio pesto della notte sembrava l’anticipo di un’imminente fine. Lo spavento fu tale che la donna abortì e perse i sensi, mentre moriva per l’abbondante emorragia.

Non bastò. I rancori erano troppi, per fermarsi davanti ad una sola morte. A distrarli da quella casa, ci fu la novità che dietro una cantonata – sudato, con gli occhi dilatati dal terrore, tremante come una lepre – trovarono il figlio ventenne del capitano di giustizia, mentre spiava l’evolversi degli eventi. Cento e cento mani, allora, lo gettarono a terra, riempiendolo di calci.

“Tuo papà verrà presto a trovarti!” disse infine Malusangu, calando la sua scure sulla fronte del giovane.

Si diressero, poi, verso l’abitazione del padre, che però riuscì a respingere l’attacco, sparando all’impazzata da una finestra.

Furono, perciò, costretti a cambiare direzione e andarono dal prosegreto. La porta fu presto buttata a terra a colpi di scure. Ma, l’uomo fuggì da un sotterraneo. Dapprima, tentò di entrare nella chiesa di Santa Maria. Vi rinunciò per il sopraggiungere dei suoi potenziali assassini, che per sicurezza malmenarono il sacrestano, nel caso avesse avuto l’intenzione di aprire.

Fortunatamente per il prosegreto, quella momentanea diversione gli fu sufficiente per scappare nella vicina campagna, oltre il quartiere detto Tripunti, ricca di grotte ed incavi, dove potersi nascondere. Dalla cima del monte Caruso, che di recente aveva cambiato il suo nome in monte Calvario, proprio all’entrata sud-ovest del paese, un uomo lo vide e lo riconobbe. Sorrideva, mentre con andatura agile si affrettava a raggiungerlo.

Gli insorti, nel frattempo, tornarono davanti alla casa dell’oratore, al seguito del muratore Nunzio Adamo, detto Cacasicchia, che teneva in mano una cantarella piena di pece. Giuntivi, Cacasicchia spalmò di pece i brandelli di porta sopravvissuti al precedente attacco e vi appiccò il fuoco.

Entrarono in massa, mentre da qualche parte arrivavano una decina di uomini, portando un cataletto ed una croce. L’intenzione era che, una volta uccisolo, l’odiato oratore venisse portato in processione per la città. Giunsero davanti ad una porta, che immetteva su una sala, dove il disgraziato s’era rinserrato. Partirono i colpi di scure e volarono le schegge di legno.

L’oratore, vedendosi perduto, con un bastone allargò un’apertura che nel primo assalto s’era fatta sul tetto, per la rottura delle tegole causata dalle sassate.

Scappò da lì, saltando di tetto in tetto, fino ad arrivare in una viuzza della Curdarìa, dietro il convento di Sant’Agata.

Da dietro un portone spuntarono tre ombre, che immobilizzarono il fuggitivo. Una mano gli tappò la bocca.

“Non faccia strepiti” s’udì la voce di don Alfio Natale. “Altrimenti non garantisco sulla sua salvezza.”

L’oratore assentì con la testa, per quel poco che gli permettevano le braccia che lo tenevano stretto.

“Lasciatelo libero!” ordinò Natale ai compagni.

“Mi vogliono uccidere” seppe dire soltanto l’oratore.

“Lo so, purtroppo” disse Natale. “E non c’è nulla di peggio della plebaglia scatenata. E’ giusto abolire dei dazi che ci soffocano… ma, la rivoluzione no! Quella non la vuole nessuno! Bisognerà che lei si metta in salvo. Ci sarà tempo per far pagare agli assassini i loro atroci delitti.”

“Ma, quelli che mi perseguitano sono tutti amici suoi!” esclamò l’oratore, che ricominciava a ritrovare un po’ di coraggio. “Ho lasciato mia moglie in un lago di sangue. Non so neppure se sia morta.”

“Speriamo di no” disse Natale. Si volse ad una delle ombre. “Corri a vedere, Peppino! E, se sarà il caso, cerca di portare aiuto.”

Quegli partì subito.

“Non sono amici miei” continuò Natale. “Sono i miei peggiori nemici! Il mio ideale politico è un governo di galantuomini, giusto e ordinato. E la folla omicida è la negazione dell’ordine!”

Tese le orecchie. Da lontano cominciavano a sentirsi rumori e schiamazzi. “Ma, non c’è più tempo per le discussioni… venga con me.”

Si volse verso i compagni. “Voi tornate in paese. Se vi sarà possibile, fate in modo che non si compiano altri delitti.”

S’inoltrarono in un fitto uliveto.

“Penseranno che lei voglia fuggire a Scordia” disse Natale. “Noi, invece, andremo a Palagonia. Raggiungerà così suo fratello. Ho mandato il barone Reforgiato a metterlo in salvo ed a portarlo lì.”

“Quell’infame incendiario!?” esclamò l’oratore.

“Ha la lingua un po’ vivace” concesse Natale. “Ma, è un galantuomo ed odia i disordini almeno quanto me. Vedrà che suo fratello non poteva capitare in mani migliori.”

I calcoli di Alfio Natale, però, si rivelarono sbagliati. Infatti, superato Francello, nella discesa che portava a Palagonia, videro numerose torce macchiettare il buio. Si resero subito conto che le luci correvano in loro direzione. Si nascosero, allora, in un fichidindieto che rivestiva i fianchi della vallata sottostante. Gli inseguitori passarono senza vederli.

Quando tornò il silenzio, ormai, mancava poco all’aurora. Poterono, quindi, a stento beneficiare degli ultimi minuti di buio per entrare non visti a Palagonia.

Alfio Natale andò subito a bussare al portone del medico Giuseppe Tutino, fidato ed antico fratello della loggia massonica catanese. In quella casa i due trovarono ad attenderli, arrivati almeno tre ore prima, il barone Reforgiato e un prosegreto che ancora tremava tutto.

“Bisognerà che domani notte partiate per Palermo, a far relazione al governo di ciò che è successo” disse Natale ai due fratelli.

“L’avevo già previsto” disse Tutino. “Il mio servo preparerà la carrozza stasera.”

“Bene” sorrise don Alfio Natale. “Anche questa è fatta. Accetterei, adesso, un buon bicchiere di vino, se il nostro ospite avrà la compiacenza di offrircelo.”

Quando arrivarono i bicchieri colmi, guardò il prosegreto. “Voglio che nella vostra relazione non ci sia alcun cenno del ruolo che io ed il barone Reforgiato abbiamo avuto nella vostra fuga. Parlatene soltanto a voce.”

“Perché?” chiese il prosegreto.

“Diciamo che, se vi abbiamo dimostrato di essere vostri amici, non vogliamo mostrare di essere nemici dei vostri nemici.”

Bevve e posò il bicchiere con l’aria di chi non intendeva tornare più su quell’argomento.

24

La nascita del Regno delle Due Sicilie e l’eredità classica siciliana nella collezione Vagliasindi di Randazzo

La carriera politica di Vincenzo Natale sembrava ormai finita con la restaurazione ferdinandea ed il ritorno al governo di Luigi de’ Medici. Alla sua caduta da deputato, poi, seguirono altre cadute di amici e protettori. Le elezioni del 22 ottobre 1814, infatti, furono vinte dagli anticronici. In questo clima a lui favorevole, il re prese a pretesto la mancata approvazione di un contributo straordinario e il 15 maggio 1815 sciolse definitivamente il parlamento. Con la legge dell’8 dicembre 1816, infine, re Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia divennne Ferdinando I re delle Due Sicilie.

Con il vecchio sovrano, più realista del re, tornò (indovinate un po’!) l’incendiaro deputato Emanuele Rossi. E questa è storia universale, non soltanto siciliana.

Vincenzo andò a trovarlo nella sua casa di Palermo, dalle parti di Porta Felice, accanto al Teatro marmoreo. Per essere l’abitazione di un tribuno del popolo, non era una sistemazione malvagia. Li, infatti, le case guardavano una piazza che dava sul mare, per cui la brezza portava frescura d’estate e calore d’inverno. Per questo, il posto era meta di numerose passeggiate.

“Cosa succederà?” chiese Vincenzo a Rossi.

“Succederà esattamente ciò che hanno voluto i suoi amici cronici.”

“I Cronici sono stati vittime delle impazienze e delle ire partigiane degli Anticronici! Accecati dall’odio di parte, tutti siete stati dei veri eversori, al punto che, attaccando baroni e borghesi, avete finito per accusare perfino il principe vicario Francesco I, l’erede della Corona!”

“Beh, finalmente vedo che sa pure scaldarsi, mio giovane amico! Le regalo un consiglio, quindi. Vada a trovare quel suo amico di Bronte. Magari senza farlo sapere a nessuno. Nemmeno a me.”

Nel suo esilio brontese, da fine politico, Vincenzo fece un’analisi lucida di ciò che gli accadeva intorno e la affidò ad alcune pagine, destinate a restare segrete.

“Mi era già nota l’intelligenza di Medici” annotò. “Ora cerca di giustificare la soppressione del parlamento siciliano, almeno di fatto, poiché di diritto le leggi dell’8 e dell’11 dicembre ne riconfermano l’esistenza. Per questo lo presenta come una roccaforte della nobiltà. A tal fine, si serve di tutta la pubblicistica napoletana volta a sminuire il valore rappresentativo della nostra tradizione parlamentare. E’ noto, infatti, che nel periodo dei viceré illuministi, a Napoli erano stati scritti molti libelli contro il parlamento siciliano. Peccato, però, che il parlamento appena soppresso non assomigli per nulla a quella istituzione feudale. Il nostro era un parlamento moderno, organizzato alla maniera britannica. Veniva da elezioni a suffragio diretto nella camera dei comuni ed ereditario nella camera dei pari. Non traeva origine e prestigio da consuetudini antiche, ma dalla costituzione e dalle elezioni. La polemica antiparlamentare del ministro Medici, pertanto, si rivela per quella che è: un maschera colorata di ragione per nascondere una testa colma di pregiudizi.”

Col passare del tempo, però, Vincenzo dimenticò di annotare che i fatti lo smentirono. Medici ed il suo collaboratore, Tommasi, si attennero alla politica dell’amalgama e ne dettero una lampante prova qualche mese dopo il loro insediamento. Proprio a lui.

Un pomeriggio Vincenzo stava insieme a Spartacus, Adele ed un ormai settantatreenne padre Longhitano. La donna andava e veniva dalla stanza, impegnata nei lavori di casa.

“Voglio presentarle mia sorella Franca” gli disse Adele, spuntando in compagnia di una giovane signora.

Vestiva, secondo la moda parigina di quegli anni, un mantello marrone scuro, che gli arrivava alle caviglie, allacciato con alamari di spighetta, fermati da bottoni alla Brandeburgo. Ad impreziosire il tutto, dall’orlo delle mantelline sulle spalle spuntava una gala di pizzo, che veniva richiamata sui polsi nelle lunghe maniche e sul collo dall’alta gorgiera. Sulla testa portava una cuffia verde, guarnita da nastri bianchi e verdi.

Vincenzo si inchinò in un galante baciamano.

“Normalmente, ella vive nella capitale, come lei” riprese a dire Adele. “Pare, però, che questi ultimi avvenimenti l’abbiano consigliata a ritornare al suo paese… per la gioia della dimenticata sorella.”

“Mai consiglio fu più opportuno…” disse Vincenzo.

Poi, si volse alla giovane. “E più provvido, anche per chi non ha la fortuna di esserle parente.”

Franca sorrise. “Ho chiesto io di conoscerla. Il suo egregio lavoro nel parlamento, pur nel disastro generale, è stato universalmente apprezzato.”

Attento com’era alle trappole, Vincenzo si pose subito in guardia. In quei giorni la Sicilia pululava di avventurieri e di informatori della polizia. Nulla di più facile, quindi, che Franca non fosse soltanto una signora elegante. Anzi, a pensarci bene, era troppo elegante, per essere una semplice signora. Su di lui non pendeva ancora alcun procedimento giudiziario. Ma, chi poteva mai sapere come nel frattempo era andata evolvendosi la situazione, a Palermo?

Alzò gli occhi sul viso di Franca. Aveva gli stessi occhi verdi della sorella Adele. Resi più splendenti, però, per lo straordinario contrasto che facevano con la pelle bianchissima e i capelli neri di seta.

“Quasi, quasi” pensò Vincenzo, “val la pena di perdersi per una bellezza simile.”

“Vi preparo del cioccolato caldo” disse Adele. “Credo che Franca ne abbia bisogno. Mi sembra intirizzita. Voi, cari uomini, tenetele compagnia!”

Adele uscì dalla stanza e Franca, per accomodarsi, si tolse il mantello, mettendo in mostra un vestito marrone chiaro, con cinque balze increspate all’orlo, che lasciava intravedere le calze bianche e le basse scarpette nere. Una vera e propria delizia, su un corpicino dalla vita sottile di vespa.

Vincenzo, la cui prima ed ultima delusione era stata l’amore per Adele, riprovò fremiti interiori che credeva dimenticati. Troppe femmes pour la nuit lo avevano ormai reso un libertino. La donna, per lui, era un indispensabile trastullo, a patto che non lo distraesse troppo dai suoi studi di storia antica e dalla politica.

“Mia cognata” disse Spartacus, “è vedova di Donato Solimena, uno sfortunato nipote del professor Pasquale Baffi…”

Calcò la voce su quest’ultimo nome, quasi a trasmettergli un messaggio cifrato. Come si ricorderà, abbiamo già incontrato un paio di volte Pasquale Baffi, parlando della massoneria.

“Era il nonno di mio marito” disse Franca. Fu lui che volle che lavorasse al servizio del ministro Tommasi.”

Ecco, i sospetti di Vincenzo trovavano conferma… Probabilmente Franca era un’emissaria del ministro del restaurato governo di Ferdinando. Egli, in ogni caso, non era il tipo da scoprire le sue carte. Pensò che, forse, era meglio partirsene l’indomani. Magari, insalutato ospite. Forse.

Decise, però, che in quel momento era preferibile lasciar parlare la donna. D’altra parte, che si poteva fare di diverso?

“Posso confermare di persona le grandi qualità del ministro Tommasi…” disse Vincenzo, in attesa.

“Ed io posso confermarle ch’egli ha usato espressioni simili, parlando di lei… e di suo padre.” ribatté Franca.

Vincenzo si chiese cosa diavolo potesse volere da lui il ministro. Probabilmente, che egli rendesse noti i luoghi dove i liberali più compromessi si erano nascosti. Ma, non li sapeva. E ne era contento. Né pensava che fosse onorevole collaborare col nuovo governo. Almeno, non in maniera troppo scoperta. Ad ogni modo, da uomo prudente, cercava il giro di parole giusto per poter non dire di no, senza dover dire di sì.

“Voglio parlar chiaramente con lei” disse Franca.

Sorrise. “Se no, a furia di congetture, le verrà un gran mal di testa.”

Accennò con la testa a padre Longhitano. “D’altro canto, l’ho già fatto con mio zio, che addirittura, senza neppure comandare, ha saputo compromettersi peggio di lei… dando seguito a certe esagerazioni, che il suo maestro Emanuele Rossi si è guardato bene dall’avvallare.”

“Finché non matureranno i tempi della rivoluzione!” puntualizzò padre Longhitano. “Ora, purtroppo, non ho scelta e devo stare agli ordini.”

“Lei” disse Franca, tornando a rivolgersi a Vincenzo, “era già nel cuore del ministro Tommasi. Fra l’altro, sia lui che Luigi de’ Medici ammirano la finezza intellettuale di suo padre, don Alfio. Hanno molto apprezzato il coraggio… e la prudenza… ch’egli ha mostrato durante i sanguinosi disordini del luglio scorso a Militello. Volevano già, insomma, darle un segno tangibile di amicizia. Quando ho ricevuto la lettera dove mio cognato Nicola mi chiedeva di intercedere per lei, mi è stato facile trovare orecchie pronte ad ascoltarmi.”

Vincenzo guardò il suo amico, che abbassò gli occhi, quasi vergognoso di aver tentato di salvarlo a sua insaputa. La cosa poteva risultare rischiosa. “Vorrei tenermi lontano dalla politica.”

“La gente come lei è preziosa per il suo sapere, politica o non politica” sorrise Franca. “Il ministro Tommasi mi ha detto che voi Natale avete una straordinaria conoscenza dei fatti siciliani antichi.”

Nelle sue guance spuntarono due fossette vezzose. “Ci crede, che, pur essendo nata in questi posti, non so quasi nulla della loro storia?”

“Avete mai sentito parlare di Vagliasindi?” chiese Vincenzo.

“No.”

“E’ un mio amico. Ha una collezione archeologica straordinaria, qui vicino, a Randazzo.”

“Perché domani non mi porta a trovarlo? Scommetto che sarà un cicerone impareggiabile.”

Vincenzo, galantemente, inchinò il capo.

“Lei è un uomo nato per servire le istituzioni!” esclamò Franca. “Ha ragione il ministro Tommasi. Questo è il prestigioso futuro che l’aspetta, se vuole.”

Entrò Adele, col vassoio sul quale fumavano le tazze di cioccolato. Tutti sorrisero al pensiero della bevanda calda e portarono la conversazione sugli argomenti più frivoli del mondo.

25

La “politica dell’amalgama”: i Lavori pubblici dei Borbone: l’epoca degli ingegneri

La storia non ha binari e l’umanità non è un treno. Non ci hanno mai convinti, quindi, le interpretazioni complottiste degli eventi.

Non crediamo possibile che una cupola mondiale possa tenere sotto controllo le azioni di tutta la gente del mondo. Gli abitanti di questo pianeta sono troppi e troppe volte hanno reazioni imprevedibili. La storia, diceva Sciascia, non è maestra di vita. E’ assurda come la vita.

Nel lungo – lunghissimo – periodo pensiamo che ci possa essere una qualche logica nei fatti. Abbiamo l’impressione che nell’arco di pochi anni le società seguono la legge darwiniana della lotta per la sopravvivenza. Tutto è zuffa, confusione e mischia. Ma, alla fine, alzatasi la polvere, si scopre che hanno preso il sopravvento, non le mentalità migliori, ma le meglio armate, o le meglio organizzate, o le più fortunate.

Nulla è eterno, però.

Per ogni assetto sociale c’è pronta una generazione di rivoluzionari (che, quando vince, magari, finisce per recuperare idee e uomini dai perdenti, se utili al mantenimento del potere).

Così, nuovi e al contempo vecchi modi di vivere entrano nella lotta, finché un’altra generazione non ingaggia una nuova lotta, in nome di un’altra gerarchia.

Sappiamo che questa non è un’idea di grande originalità. Più o meno, abbiamo esposto la dialettica hegeliana. Qui, però, ci premeva dire che la storia è irrazionale nel breve periodo e razionale nel lungo.

La storia è come quell’ubriaco che dalla taverna voleva andare a casa: camminava a zig zag, barcollava, cadeva, sbagliava strada e tornava indietro.

Ma, quando l’ubriaco riuscì a coricarsi nel suo letto, chi potrà mai sostenere che, date le condizioni, alla fine non successe il meglio?

Proprio come un ubriaco sembrò camminare il governo borbonico col redivivo Ferdinando. Si pensò di tornare indietro nel tempo e – sciascianamente, appunto! – la storia sembrò assurda come la vita.

“Dovremmo essere proprio noi” chiese Donato Tommasi a Luigi de’ Medici, “a riportare nel regno i pregiudizi che combattiamo da sempre?”

“Non del tutto” rispose Medici. “Finora i regni di Napoli e di Sicilia sono stati uniti e contemporaneamente divisi. Hanno convissuto utilmente per oltre settant’anni sotto Carlo e sotto Ferdinando. Ma, ora Napoli e la Sicilia sono un’unica patria col Regno delle Due Sicilie e Ferdinando III di Sicilia e IV di Napoli si chiama Ferdinando I.”

“Vedrete che queste due parti del regno resteranno nemiche l’una all’altra, fino al reciproco annientamento.”

“Se sarà così, ce ne renderemo conto ed agiremo di conseguenza. Per ora, il nostro dovere è favorire la riconciliazione fra le intelligenze migliori dell’una e dell’altra parte del regno. Anzi, dirò di più: anche dell’uno e dell’altro partito che ne hanno agitato la vita.”

Tommasi non sbagliava, se pensiamo alle vicende rivoluzionarie del 1820 e poi ai tanti moti che tormentarono il Regno nel breve volgere della sua vita (1815-1860). Ma, neppure Medici aveva torto, dato che sotto il suo governo, almeno stando alle carte dell’archivio storico di Militello, il regno non fu amministrato male.

Nei primi anni del Regno delle Due Sicilie si affermò un potere, se si vuole, paternalistico. Ma, dopo certe performances delle società di massa moderne, viene la nostalgia anche dei Borbone. Con loro, almeno, il governo si preoccupò di essere pure un erogatore di servizi.

Non mancò, per esempio, l’iniziativa nei lavori pubblici, a partire dal problema più sentito dalle nostre parti, quello dell’acqua. Nel giro di ventitré anni le autorità cittadine intervennero sette volte. Un’intensità, questa, buona anche ai giorni nostri. Senza contare la qualità degli interventi, nettamente superiore, dato che, senza spese faraoniche per creare incompiute e cattedrali nel deserto, furono realizzate oculate migliorìe dell’esistente.

Infatti, manco a farlo apposta, a Militello la più antica notizia al riguardo risale proprio all’anno di nascita del Regno, il 1815, quando il perito Fragalà costruì la canalizzazione dell’acqua della fonte Zizza da Piazza Maggiore a via Porta della Torre.

Seguirono a intervalli opere di manutenzione e di miglioramento: nel 1819 l’architetto Francesco Capuana effettuò un sopralluogo nella sorgiva della Zizza; nel 1821 si fecero lavori di manutenzione della linea dell’acquedotto; nel 1825 il mastro Mario Messina e gli eredi di Francesco Messina eseguirono viattazioni e ripari nella sorgiva della Zizza e tentarono la canalizzazione dell’acqua del Lembasi.

Finalmente, il 30 giugno 1831, come da ricevute date dai sindaci, fu affisso nei comuni di Scordia, Vizzini, Mineo e Caltagirone il primo avviso per appaltare i lavori nell’acquedotto di Militello.

Nello stesso anno il perito Tinnirello scriveva una relazione sui catusi realizzati e dava notizia dell’acquedotto cosiddetto della Strada Corta, costruito con tombonelli(?) di calce e cenise, ed indi coperto di balatato nero, in cui passaro le acque piovane che raccogliono varie strade interne, non solo, ma pure lo scolo dei pubblici canali di detta Comune.

Nel 1832, ancora, venne dato l’appalto per la conservazione dell’acquedotto e fontane; infine, nel 1838 il mastro Salvatore Lo Drago di Messina s’era preso l’incarico di una guida dell’acquedotto pubblico, con le annesse riparazioni.

Sul versante dell’illuminazione pubblica, resta una corrispondenza del 1819, nella quale Giovan Battista Patricolo si impegnava a costruire dei fanali a lume inglese nei pressi del palazzo comunale.

Il 7 febbraio 1820, inoltre, venne pubblicato l’avviso per procedere all’appalto per la costruzione del nuovo orologio pubblico, seguendo i criteri stabiliti nella relazione del perito mastro Domenico D’Agata di Aci Sant’Antonio. Il successivo atto per procedere alla costruzione è datato 2 agosto 1820. Il macchinario fu collocato sulla facciata della Chiesa Madre del SS. Salvatore.

Nel 1828 venne imposta la realizzazione dei camposanti fuori dall’abitato. Così, secondo una relazione del 1853 dell’amministrazione catastale, l’area destinata a cimitero misurava 698 metri quadrati.

“A questo riguardo, però” scrisse l’architetto Mancuso a Vincenzo, “va notato che a quell’epoca fra i Comuni del distretto di Caltagirone, solo Militello aveva un cimitero e che nell’intera provincia di Catania ne risultavano dotati solo nove comuni su un totale di sessantuno.”

Non mancarono neppure i lavori di rifacimento degli edifici religiosi, attorno ai quali all’epoca ruotava gran parte dell’economia e la vita sociale. Nel 1845, per esempio, i francescani procedettero alla radicale ristrutturazione del loro convento. L’architetto fu Mancuso, che adottò una soluzione che non si dimostrò felice. Anziché demolire la vecchia struttura, per costruire ex novo, egli preferì realizzare dei muri interni alla chiesa esistente, lavoro che sarebbe risultato poco solido, per il diverso assestamento dei due corpi nel terreno.

Infine, la viabilità. Proprio al contrario di quel che comunemente si crede, fu essa uno dei migliori lasciti borbonici. Per quel che ci riguarda, il più antico avviso per la costruzione della strada Scordia-Militello è datato 18 novembre 1823.

Più in generale, per i collegamenti nell’isola, il 20 aprile 1830 veniva fissato con apposito avviso il dazio di pedaggio nelle strade rotabili di Sicilia. In relazione a ciò, il 18 maggio 1830, venne annunciata l’apertura della rotabile che univa Catania con Palermo e Messina per mezzo di due lunghi tronchi di strada che incontrano la consolare, uno ad Adernò, e l’altro a Ponte Minissale sopra Diana.

Per completare l’opera, il 17 settembre 1830 dall’Intendente arrivò comunicazione ai Decurionati (le amministrazioni di allora) di quanto giovamento sieno gli alberi di ormeggio lungo le carrozzabili strade provinciali, pel comodo de’ viandanti, per la salubrità dell’aere, e pel legno che producono. Per cui, concludeva l’intendente, sono sicuro che codesto Decurionato come fervescente del pubblico bene, bisogno non ha che d’un impulso, per procurare tra gli altri ai suoi concittadini, utilità siffatte.

Nel 1832, finalmente, a Scordia furono avviate le procedure per la costruzione della strada di Militello e nel 1833 venne affisso l’avviso di gara d’appalto per la Strada delli quadri, che univa Scordia a Militello.

Per quanto concerne la conoscenza del territorio e la politica economica, il 28 settembre 1829, arrivò nei comuni siciliani una circolare con un questionario allegato. Si voleva superare il vecchio catasto meramente descrittivo, per acquisire un’archiviazione dei dati completa di mappe. Il comune di Militello, in ottemperanza, dette l’incarico della rilevazione planimetrica del territorio all’agrimensore Francesco Costanzo. Ovviamente, si trattò di un lavoro privo di scale di proporzione, ma era pur sempre un inizio.

Inoltre, già dal 1824 venne confermato dal ministro Medici l’abbattimento delle dogane interne, principio per il quale Vincenzo Natale si era battuto nel parlamento carbonaro del 1820. lo prova il libro dei dazi di Ferdinando I, per la grazia di Dio re del Regno delle Due Sicilie, di Gerusalemme, ec. (sic), infante di Spagna, Piacenza, Castro ec. ec., gran principe ereditario di Toscana ec. ec. ec., pubblicato a Napoli, il 30 novembre.

Avendo maturamente esaminati i rapporti, ed i progetti a Noi presentati dal nostro Ministro delle Finanze, e volendo rendere libero il commercio di cabotaggio, e libere le circolazioni in tutta l’estensione del nostro Regno delle due Sicilie.

Su la proposizione del nostro Consigliere Ministro di Stato, Ministro Segretario di Stato delle Finanze.

Udito il nostro ordinario Consiglio di Stato.

Abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

Confermiamo il principio da Noi stabilito con Decreto del 15 dicembre 1823, di potersi tutto estraregnare senza il pagamento di nessun dazio.

In conseguenza tutt’i lavori, le manifatture, e tutte le produzioni di qualunque natura vegetabile, animale, e minerale de’ nostri Dominj al di quà (sic), ed al di là del Faro sono dichiarati esenti nell’estraregnazione dal pagamento di ogni dazio doganale.

26

Notabilato sotto due bandiere: conservatori e liberali a Militello

La lungimiranza di don Alfio permise che, nonostante la sua dichiarata vicinanza agli ambienti rivoluzionari, la sua famiglia continuasse a godere di molte protezioni ed a ricoprire incarichi importanti, anche nel pieno della restaurazione borbonica. Lo troviamo, infatti, in una delibera del Decurionato di Militello, datata 2/3/1819, nella quale ha il ruolo di 2° eletto. Nella delibera si legge indi il Segretario del Decurionato per invito del Secondo Eletto fatta lettura dell’Ufficio del Sig. sottintendente del 6 feb. 1819 riguardante l’incarico dell’intendente di Catania di far seguire il pagamento di certe somme a causa di arretrati donativi a carico di questo Comune…

Ma, da tempo, nella città il primato era passato alla famiglia dei Majorana della Nicchiara. Nel 1833, così, veniva a ricoprire la carica di sindaco il quarantaquatrenne Salvatore Majorana Cocuzzella (che poi diventò anche deputato).

Si diceva che i suoi avi del XVII° secolo avessero avuto trascorsi di abigeato e di prepotenze. E con tali metodi essi sarebbero riusciti a strappare il titolo di barone della Nicchiara ai discendenti di Giovan Battista Russo (1560 – 1610), a cui era stato concesso per la sua dottrina nella scienza medica, celebrata dal Mongitore, dall’Amico, dal Fazio e dal Carrera.

Il sindaco ed i suoi parenti erano entrati nel gioco grosso della politica, all’ombra della monarchia borbonica, soprattutto grazie al fratello minore, don Filippo Majorana della Nicchiara.

Nato nel 1798 (morì poi nel 1864), questi, dopo la laurea in legge, aveva intrapreso la carriera di magistrato. Nel 1847 finì per occupare la carica di Consigliere alla Corte Suprema di giustizia e nel 1850 venne nominato presidente della Commissione agricoltura e pastorizia, rendendo conto della sua opera nel “Giornale di agricoltura e pastorizia”.

Era fatale, quindi, che dal 1833 a Militello prevalessero i governativi Majorana Cocuzzella della Nicchiara, appoggiati dai fedeli della chiesa del Santissimo Salvatore e da un nugolo di vassalli, soprattutto professionisti che lavoravano per il Comune, come il perito Tinnirello, che abbiamo già incontrato nei lavori per l’acquedotto.

“La nobile famiglia dei Majorana della Nicchiara di Militello” disse Tinnirello a muratori, falegnami e fabbri messi ai suoi ordini, “si è resa benemerita verso la famiglia reale in più di un’occasione. Saranno, perciò, i Majorana che avranno l’onore di ospitare, qui, nella loro tenuta di Linziti, il re Ferdinando II, nella fausta occasione del suo primo viaggio in Sicilia!”

Contro i Majorana, come c’era da aspettarsi, andò crescendo il gruppo dei liberali e carbonari, riunitosi attorno alla chiesa della Madonna della Stella. A capo ne erano le famiglie dei Reforgiato e dei Natale. Ed appunto dalla loro scuola vennero fuori, sul finire degli anni Sessanta del secolo, i nuovi padroni di Militello, come il già incontrato economista, deputato e ministro Salvatore Majorana Calatabiano e i fratelli Benedetto e Tommaso Cirmeni (uno deputato e sottosegretario alla Pubblica istruzione e l’altro notaio e sindaco).

In particolare, Salvatore Majorana Calatabiano, passò nel ricordo della gente, insieme a Vincenzo Natale, come un campione dei liberali. Il che rattrista un po’, dato che nel 1847, un anno prima di diventarne acerrimo nemico, egli dedicò il suo primo libro, Ricchezza e miseria, guarda caso, al borbonicissimo don Filippo Majorana della Nicchiara, rivendicandone persino la parentela.

“Signore” scrisse il Calatabiano, “a lei che ha in comune con me la famiglia e la Patria, e che primeggia tra’ nostri concittadini per natali e per meriti, io consegno questo mio trattato. Lo gradisca e accolga come solenne testimonio del mio rispetto e gratitudine, e come primo frutto, qualunque esso sia, dell’ingegno mio e dei miei studi. In esso io ho sudato due anni, e l’ho condotto, quasi senza avvedermene, preparandomi al concorso per la cattedra di politica economia in questa regia università degli studi: concorso dal quale, per difetto d’età, sono stato escluso. Mi continui la sua benevolenza e mi creda a Lei sempre devoto”

La vergogna di Majorana Calatabiano, però, non mi pare che consista nella dedica. A tutti i giovani intelligenti e giustificatamene ambiziosi capita di cercare la raccomandazione del potente di turno.

La sua vergogna venne quando nelle successive edizioni del trattato la dedica fu tolta.

27

Le vendite carbonare

Grazie alla protezione di Donato Tommasi, continuamente caldeggiata da Franca Faraci, Vincenzo Natale continuò a progredire nella carriera. Nel 1819, infatti, andò con Franca a Napoli, per ricevere la nomina di segretario generale d’intendenza. Purtroppo, se Tommasi lo propose per tale ufficio, non mancavano le brighe contrarie, specialmente da parte dei militellesi Majorana Cocuzzella, per cui la nomina tardava ad arrivare.

Ci furono, perciò, nuovi contatti, questa volta col ministro Alfonso Ferrero, magari per ottenere un altro tipo di nomina.

A Napoli, quindi, proprio per raggiungere il gabinetto di Ferrero, Vincenzo lasciò la massoneria ed entrò nella carboneria. Essa era un nuovo, potentissimo centro di potere, nonostante le sue dichiarate parole d’ordine rivoluzionarie. Franca condivise questa scelta e lo seguì. Perciò, nel febbraio 1820, contando sulla solidarietà tra affiliati carbonari, Vincenzo tornò a Palermo, lasciando incarico ad un avvocato di seguire la sua pratica presso il ministro.

“La spesa di un onorario è assai più sopportabile di quella del mio mantenimento colà per almeno un altro mese” scrisse al padre. “Le lungaggini oggi si cercano dai ministri per rendere più preziosa la mercanzia.”

Il passaggio di Vincenzo alla carboneria significò che a Militello non tardò a nascere un’agguerrita vendita, sotto l’impulso di don Alfio Natale e del barone Vincenzo Reforgiato. Per conseguenza, fieri nemici della setta diventarono i Majorana Cocuzzella della Nicchiara.

I primi contrasti scoppiarono il 14 maggio 1820, quando il capitano d’armi don Fidenzio Majorana Cocuzzella, altro fratello del barone don Salvatore, scrisse una comunicazione al direttore generale della polizia di Palermo, don Antonio Mastropaolo:

“In paese c’è una tranquillità apparente, perché sebbene cessate le riunioni della vendita stabilite nel convento dei PP. Cappuccini, si vedono riunioni a piccoli gruppi in luoghi disparati fuori le mura della cittadina, continuando sistematicamente nella farmacia di don Alfio Campisi nel centro della Piazza Maggiore, dove tuttora sussistono le riunioni. Ritornata la calma per ordine delle autorità, la vendita non poté acquistare che quasi cento persone, teste da forca, uomini perduti e di nessuna opinione, con dei dirigenti che sono stati sempre soggetto di generale detestazione dalla popolazione di questo comune.”

Vincenzo arrivò al 3° grado carbonaro, col nome di Nicio Genetlio (che poi usò come pseudonimo in qualche articolo pubblicato nel Giornale gioenio). Così, nel giugno del 1820, ottenne la sospirata nomina. Ora, don Alfio poteva (alla faccia dei Majorana!) indirizzare la corrispondenza a S. E. Don Vincenzo Natale segretario generale dell’Intendenza di Siracusa.

Ma, anche i Majorana erano potenti. Così, qualche giorno prima della nomina, il 31 maggio, riuscirono ad ottenere un decreto che trasferiva Vincenzo nella periferica Caltanissetta.

Sua eccellenza, allora, si difese con una lettera al ministro Ferrero:

“Il sottoscritto è da pochi giorni in carica e prega, per quelle sue buone qualità che a prima vista si possono conoscere e l’osservato buon ordine e andamento della segreteria, che egli sia serbato in Siracusa.”

Non ci fu tempo per la risposta, perché in quello stesso 1820 la carboneria, già vittoriosa in Spagna, irruppe nel Regno delle due Sicilie, impadronendosi del governo.

La composizione sociale della carboneria sfiorava il mondo emergente dei possidenti. Ma, era soprattutto fra i professionisti che venivano reclutati i quadri: ufficiali, avvocati, medici, preti, frati, letterati, professori, e così via. Oltre a questi, c’erano pure alcune donne, dette Sorelle Giardiniere, con la funzione di diffondere gli ordini, eludendo i controlli della polizia.

Come in ogni società segreta che si rispetti, non a tutti gli adepti erano note da subito le finalità ultime della setta. Alla conoscenza si arrivava per gradi.

Nel 1° grado si era soltanto apprendisti. Il nuovo cugino (così si chiamavano fra di loro) era un novizio pagano, smarritosi nel buio della foresta. La simbologia della foresta era legata a quella della morte-rinascita, poiché la carbonizzazione del legno implica l’idea della combustione e della trasformazione attraverso il fuoco. In altre parole, si trattava di una purificazione che faceva diventare il novizio (cioè, il legno) un agente della rivoluzione (cioè, il materiale per scatenare l’incendio).

Quindi, quando aderiva alla società, l’apprendista andava a cercare la luce nel Tempio della Virtù, dove con diffidenza si viene accolti, per cui, spogliato dei metalli e accompagnato nel gabinetto di riflessione, veniva interrogato sulle ragioni della sua richiesta.

In seguito, l’adepto veniva condotto a fare i tre viaggi simbolici. Era sottoposto, cioè, a prove tendenti a provarne il coraggio, per essere pronto a prestare il giuramento, con il quale si impegnava a mantenere il segreto, a soccorrere ed aiutare i Cugini in difficoltà e ad essere sempre a disposizione dell’Ordine.

A questo punto, egli poteva assumere un nuovo nome, scelto fra quelli della tradizione greco-romana, oppure fra i simboli di lotta contro la tirannide (questo, sia per confermare la morte rituale, sia per agevolare la lotta politica clandestina).

Così, si diventava parte della famiglia carbonarica, che è una sola in tutta la terra. Ciò implicava che al suo interno erano tutti fratelli, senza alcuna divisione sociale.

Nel primo grado si propagandavano idee vagamente umanitarie e si coltivavano attività filantropiche. Le cerimonie, dunque, rivelavano una derivazione dalla simbologia cattolica. Le parole sacre erano quelle religiose (fede, speranza, carità). C’era, inoltre, il culto dei Santi (addirittura, San Teobaldo era il patrono dei carbonari). La setta, perciò, poteva essere collocata nel filone culturale del cristianesimo esoterico, come quello degli Illuminati di Baviera, o quello giovanneo (dove si credeva ad una iniziazione cristiana originaria, fondata su una rivelazione segreta di Gesù, trasmessa per via orale ai discepoli e, quindi, a una catena di iniziati).

Altrettanto evidenti erano le derivazioni massoniche, che avevano una simbologia legata ai costruttori di cattedrali, per cui all’entrare di un nuovo adepto la pietra grezza deve essere sgrossata e squadrata. Si possono, inoltre, fare puntuali paralleli tra i linguaggi carbonaro e massonico: apertura dei lavori = apertura dei travagli, cugini = fratelli, pagano = profano, pezzo di fornello = pezzo di architettura…

Il 2° grado, detto pitagorico, era quello dei maestri. Da qui si cominciava a sapere. Ma, c’era l’obbligo del più assoluto riserbo, pena la morte (e probabilmente fu questa la causa della scarsa conoscenza che si ha della storia della setta). I maestri parlavano di costituzione, di indipendenza e libertà, di lotta contro il dispotismo politico.

Il rituale prendeva spunti dal grado diciottesimo della massoneria di rito scozzese di Sovrano Principe Rosa-Croce. In particolare, partendo dal sacrificio di Cristo, alla simbologia cristiana si sovrapponeva quella del ciclo di morte e rinascita vegetale: foglie, terra, ceppo, ciocco, fascina, ascia, scala di legno. Si passava, poi, alle parole di felce e ortica, piante che mescolate alla terra separano gli strati di legna, per favorire la carbonizzazione. Infine, c’è da dire che i debiti lessicali verso la massoneria vengono confermati dall’idea carbonara del gomitolo di filo, simbolo muratorio della catena d’unione, che può essere anche una catena dei diritti naturali, oppure un modo per legare il tiranno.

Il 3° grado era quello di gran maestro. Inizialmente nato come grado amministrativo, era divenuto il grado operativo del progetto finale dell’Ordine, nel quale si proclamava l’aspirazione a creare, con la restituzione all’uomo della purezza primordiale, un regime di eguaglianza sociale, nella forma politica della Repubblica. Cosa che implicava la lotta contro la superstizione religiosa e il dispotismo del principe, la spartizione delle terre e la promulgazione della legge agraria.

Qui si vede l’influenza degli Illuminati Bavaresi e di Gracchus (nome di battaglia di Francois-Noël) Babeuf, dai quali fu pure ripreso il programma del partito comunista. Nella Francia rivoluzionaria, come s’è già visto, Babeuf e Filippo Buonarroti (i due si erano conosciuti in carcere) avevano elaborato alcune teorie estremiste ed utopistiche, allora di natura rurale e precapitalistica. A loro parere, la società doveva essere costituita da piccoli coltivatori e da artigiani, il cui prodotto doveva essere messo in comune e ridistribuito con criteri egualitari.

Tale comunanza doveva essere garantita dalla dittatura di un ristretto numero di virtuosi (da dove, poi, venne l’idea della dittatura del proletariato, gestita dal Comitato centrale del partito comunista). Le parole sacre del rituale del terzo grado, quindi, erano Libertà e Uguaglianza, per cui il cittadino che amava la Patria lottava per questi valori e per la costituzione.

In ultimo, il 4° grado era quello di Grande Eletto. Questa figura presiedeva una vendita centrale, ai cui ordini c’erano venti vendite periferiche.

L’organizzazione carbonara, infatti, era molto articolata. I nuclei locali venivano chiamati baracche; gli agglomerati più grandi vendite. I rappresentanti di più vendite centrali costituivano un’alta vendita. A loro volta, i rappresentanti delle alte vendite formavano la vendita suprema.

Il giuramento dei grandi eletti era questo:

Io giuro in presenza del Gran Maestro dell’Universo e del Grande Eletto, buon cugino, di impiegare tutti i momenti della mia esistenza a far trionfare i principi di libertà, di uguaglianza e di odio alla tirannia, che sono anima di tutte le azioni segrete e pubbliche della rispettabile Carboneria. Io prometto, se non è possibile di ristabilire il regime della libertà senza combattere, di farlo fino alla morte.

Lo Statuto della Carboneria stabiliva:

Art. 1 – Tutti i Carbonari si chiamano BuoniCugini; di qualunque paese essi siano, e dovunque trovinsi, sono sempre membri dell’ordine cui appartengono, e fanno parte integrale della società, poiché la Carboneria forma una sola famiglia, essendo unico l’oggetto a cui tende.

Art. 2. – La Carboneria è un ordine che ha per oggetto la perfezione della società civile.

Art. 3. – In qualunque paese dove esistono dieci BuoniCuginiCarbonari alla meno, potrà installarsi una vendita regolare.

Art. 4. – La vendita non è altro che la riunione dei buonicuginiCarbonari.

Art. 5. – La vendita adotta un titolo distintivo, ed il suo paese assume il titolo di Ordine: tutte travagliano sotto gli auspici del glorioso S. Teobaldo, la cui festa si celebra il 1° luglio.

Art. 6. – Ogni vendita di qualunque grado avrà indispensabilmente sette dignitari, cioè Gran Maestro, primo assistente, secondo assistente, oratore, segretario, tesoriere, archivista. Possono avere degli ufficiali, che saranno in appresso nominati. I primi tre dignitari si chiamano Luci.

28

Michele Morelli e Giuseppe Sillvati alla guida dei moti del 1820

L’1 gennaio 1820, improvvisamente, la carboneria entrò in azione a Cadice, in Spagna, dove scoppiò la ribellione delle truppe, che dovevano imbarcarsi per andare a sedare le insurrezioni delle colonie americane.

Al comando dei ribelli, insieme al colonnello Quiroga, c’era il colonnello Riego. Quest’ultimo rappresentava una lampante dimostrazione dell’esistenza di una vera e propria internazionale delle sette segrete, dato che era membro della versione spagnola della carboneria: i comuneros.

La richiesta era il ripristino della Costituzione spagnola del 1812, che nel 1814 era stata abrogata dal re Ferdinando VII di Spagna. Su questa parola d’ordine, ben presto, ai rivoluzionari si unirono le truppe mandate a combatterle, per cui, il 7 marzo, il povero monarca non poté fare a meno di prendere atto della situazione.

Il 3 giugno, passeggiando con Franca nella siracusana isoletta di Ortigia, ammirando le lampare che punteggiavano il mare, Vincenzo esultava:

“Il re di Spagna ha concesso la costituzione. Adesso, tocca a noi!”

Per una volta, Franca fu più prudente di lui. “Ma, le potenze della Santa Alleanza cominciano già a consultarsi sui provvedimenti da prendere…”

Erano amanti ormai da anni. Ambedue avevano caratteri troppo irrequieti per il matrimonio. La più avventuriera era Franca. Spesso in giro per l’Italia e per l’Europa. A Torino aveva conosciuto Santorre di Santarosa ed a Napoli il generale Guglielmo Pepe, che, dalla fine del 1818, comandava la 3^ divisione militare.

“Non succederà niente” disse Vincenzo. “Non credo che la Santa Alleanza possa sottovalutare il fatto che la rivoluzione ha profonde radici nel popolo. Dovrebbe pensare, inoltre, che un intervento in Spagna potrebbe finire come ai tempi di Napoleone, con la guerrilla che distrugge il morale dei soldati. Un’invasione della Spagna, poi, è possibile soltanto attraverso la Francia ed il governo francese non mi pare propenso a favorire un’azione armata.”

“A Napoli preferiscono aspettare.”

“Io, invece, vorrei che avessero più coraggio. Se la rivoluzione divampa in tutta Europa, i reazionari non avranno abbastanza truppe per fermarla. La saggezza sta nel cogliere il momento ed agire se è il caso di agire.”

“E pure nell’avere le forze sufficienti.”

“Oh, quelle ci sono! Anche se il generale Pepe non è un carbonaro, non nasconde i suoi sentimenti liberali. Con lui le milizie di Avellino e di Foggia si sono riempite di patrioti.”

“Basterà una sola divisione a far trionfare la rivoluzione?”

“Sai bene che sono anni che la si progetta.”

“Già… con risultati ridicoli, come dopo Pompei.”

Franca aveva toccato il punto dolente della carboneria meridionale. Nel maggio del 1817, fra le rovine della città romana, si erano radunati i carbonari di Napoli e di Salerno. Con loro c’era il Supremo Magistrato della setta lucana. Si era costituito in tal modo il comitato centrale della carboneria dell’intero regno, che aveva stabilito che la rivoluzione doveva scoppiare entro quello stesso mese. Poi, si era rinviato a settembre ed a settembre si era rinviato a data da destinarsi. L’idea era stata ripresa nel 1818 dalla suprema gerarchia carbonara, l’alta vendita di Salerno, fissando l’azione per febbraio. A febbraio non era successo niente. A quel punto, persino il governo aveva smesso di preoccuparsi, allentando la repressione. Nel 1819, ancora, si ridava l’ordine di tenersi pronti, per quando non era dato saperlo. Per fortuna, nel frattempo, l’idea carbonara era penetrata profondamente nell’esercito regolare.

“Resta il dubbio se noi saremo all’altezza degli spagnoli” concluse, quindi, Franca.

Quien sabe!” ammise Vincenzo.

Gli ufficiali dell’esercito borbonico Michele Morelli e Giuseppe Silvati non delusero le aspettative. Nella notte tra l’1 ed il 2 luglio 1820, alla testa dei loro reggimenti di cavalleria, antesignani di una futura e più famosa marcia su Roma, marciarono su Napoli.

29

Luigi Minichini, arruffa-popolo e criminale

La miccia venne innescata, prima che da loro, da poche decine di carbonari di Nola. Quest’ultimi erano guidati dall’abate Luigi Minichini, una strana figura di religioso, forse così innamorato della giustizia, da trascurare il consiglio evangelico di dare a Dio quello che è di Dio. Egli, per intanto, intendeva dare a Cesare quello che è di Cesare, o meglio a Ferdinando I quello che era di Ferdinando I (col piccolo particolare che ciò che voleva dargli era la forca).

Era nato in una famiglia di agiati possidenti. Il padre avrebbe voluto farne un prete ed egli lo aveva accontentato fino al suddiaconato. Poi, però, si era tolto la tonaca, trasferendosi in Inghilterra per due anni. Tornato, aveva ripreso gli abiti religiosi, entrando in un convento di Napoli. Si era, quindi, dedicato agli studi ed aveva finito per dirigere il Collegio dei Frati Ignorantelli di San Giovanni in Galdo, nel Molise. Qui era entrato nella carboneria e subito aveva mostrato un carattere perlomeno deciso, quando aveva avvelenato, insieme a quattro complici, un poveraccio che serviva messa. Gli si voleva impedire di riferire ciò che non avrebbe dovuto neppure sapere. In quell’occasione, la setta aveva dispiegato tutta la sua potenza, corrompendo i giudici e facendolo rimettere in libertà.

Ora, alla testa di qualche facinoroso ed insieme a 127 soldati, marciava sulla strada che portava ad Avellino, città che, della carboneria, era una centro molto attivo.

“Viva, paesani, allegri!” gridavano i carbonari.

“Viva la libertà e la Costituzione!” gridavano altri carbonari.

“Il generale Pepe è con noi!” gridavano i soldati.

Attraversarono, così, diversi paesi. All’inizio furono in pochi ad unirsi al drappello. Però, a Monteforte (dodici chilometri appena da Avellino) si fecero numerosi.

“Viva la Costituzione!” vennero a gridare alcune centinaia di carbonari avellinesi, affiancandosi ai cugini di Nola.

“Viva l’esercito e la libertà!” echeggiarono alcuni nuovi reparti di soldati, ingrossando il corteo.

Ad Avellino, il tenente colonnello De Concilj, comandante in assenza di Guglielmo Pepe, era incerto. Neanche lui era carbonaro; ma, non disdegnava contatti ed amicizie con la setta. Decise, infine, di bloccare i dimostranti fuori della città ed, al contempo, mise in stato di allarme le truppe. L’effetto fu che la notizia del moto si diffuse fulmineamente in tutta la provincia.

Il 3 luglio Morelli, forzando le incertezze di De Concilj, entrava in città e, di fatto, assumeva il comando di tutti i soldati che vi erano stanziati. Ora davvero, la rivoluzione carbonara era scoppiata!

“E’ che quando cala la piena, tutti gli strunzi salgono a galla!” esclamò, fuori di sé, re Ferdinando I. Alludeva a Morelli e Silvati.

Di fronte a lui, Luigi de’ Medici non si scompose più di tanto. “Sempre a proposito di piena, c’è un altro proverbio in Sicilia che consiglierei a Vostra Maestà… Caliti juncu ca passa la china.

Il re sbuffò. “Lei e le sue complicate strategie! Avessi usato un po’ più la forca e un po’ meno quella sua benedetta politica dell’amalgama!”

“Oggi avreste contro mezzo esercito.”

Ferdinando guardò accigliato il suo ministro. Era sorprendente la calma che esibiva in quel momento. Normalmente, Medici, pur essendo una delle intelligenze politiche più acute d’Italia, non si tratteneva dall’esprimere scoraggiamenti, delusioni, amarezze. “Quindi? Debbo farmi carbonaro anch’io?”

“Ma no, Maestà! Altrimenti, che giunco sareste?”

“Non mi pare che ci siano molte alternative. O mando l’esercito, o mando il ramoscello d’ulivo.”

“Penso che sia meglio il ramoscello d’ulivo. Per ora.”

“Ma, chiedono la costituzione!”

“E voi dategliela. Se no, potrebbero finire per chiedere la vostra testa.”

“E Vienna?”

“Proprio così, maestà, Vienna! Cedete, aspettando di sapere come reagisce. Se Metternich non manda le sue truppe, voi avrete salvato il trono e diverrete un re liberale… Se le manda, potrete sempre dirgli che siete stato costretto. Guadagnate tempo, per adesso… quanto basta per capire le intenzioni dell’imperatore.”

Il re non ce la fece a seguire fino in fondo i consigli di Luigi de’ Medici. Perciò, il 9 luglio, si finse malato e passò la mano al figlio, come suo vicario (si ripteva, praticamente, la situazione del ’12, in Sicilia). Fu, quindi, Francesco, insieme ai principi reali, ad assistere dai balconi della reggia alla sfilata dei costituzionalisti che entravano a Napoli.

Il corteo procedette fra due ali di folla festante. In testa c’era il battaglione di Nola, autonominatosi battaglione sacro. A seguire, si vedevano le bande musicali ed i regimenti insorti, con a capo il generale Pepe, fiancheggiato dai colonnelli Napoletano e De Concilj. Non mancavano, ovviamente, la Vendita “Muzio Scevola” di Nola, guidata da Minichini, ed alcune migliaia di carbonari, con le loro bandiere tricolori: rosso, nero e azzurro.

“Viva il re!” gridò il popolo, alla vista della famiglia reale.

“Viva il re e la costituzione!” gridarono dal corteo.

“Viva San Gennaro!” gridò ancora il popolo, ormai preso dall’entusiasmo.

Allora, i principi nei balconi della reggia si fregiarono della coccarda carbonara. Seguì un’ovazione.

Poco dopo, il re ammalato ricevette Pepe e gli altri capi del movimento.

30

La Sicilia in fiamme

Il 20 luglio, Vincenzo era in viaggio per Palermo, ansioso di arrivare ed infastidito dai quaranta gradi all’ombra. Un vento sahariano, che pareva l’alito di Satana, entrava dai finestrini della carrozza.

E come un rovo della mia Sicilia / vive e si torce, combattendo il vento / e poi s’acquieta, senza più tormento; / così, ognuno vive la vigilia / dello svanire, senza più ritorno” recitò, guardando le distese gialle tra Enna e Caltanissetta.

“Chi l’ha scritto?” chiese Franca.

“Sono versi di un poeta che vive appartato… Garufi, di cognome… ma non ne ricordo il nome.”

“Neanch’io l’ho mai sentito nominare… Eppure, l’immagine è bella.”

“Peggio! Mi pare la metafora di ciò che sta accadendo.”

Infatti, il 14 luglio la notizia della rivoluzione napoletana era arrivata a Palermo. Il re, però, aveva giurato fedeltà alla costituzione spagnola, cioè ad una carta che lasciava integro ed unitario il Regno delle Due Sicilie, senza prevedere alcuna forma, né di federalismo, né di autonomismo. A complicare le cose, Messina, la secolare rivale della capitale, si era subito adeguata. Sotto la pressione popolare, il principe di Scaletta, governatore militare, aveva promulgato la costituzione spagnola, accettando di fatto il predominio di Napoli.

“Meglio San Gennaro che Santa Rosalia!” avevano gridato i messinesi in corteo.

Per conseguenza, a Palermo non aveva tardato a ricostituirsi il vecchio partito dei cronici e subito all’occhiello di tante giacche era comparso un nastro giallo, simbolo dell’indipendenza dell’isola.

“Vogliamo la costituzione siciliana del ‘12” avevano chiesto i cronici al luogotenente del re, l’anziano generale Naselli.

E, per converso, erano ricomparsi anche gli anticronici, questa volta a favore della costituzione spagnola.

E’ più facile far male ai siciliani che far loro bene”riprese a dire Vincenzo, citando la frase che aveva sentito dal ministro Medici, il giorno in cui Cottone prendeva il potere in Sicilia. “Messina contro Palermo, i cronici contro gli anticronici, Palermo contro Messina e Catania… Questa gente riesce a litigare con tutti, su tutto!”

Franca sorrise. “Ma, non eri tu l’ottimista sulla vittoria della rivoluzione?”

“E lo sono ancora… per quanto riguarda l’Austria. Ma, qui si rischia di perdere per la nostra mania di scannarci l’un l’altro.”

Le previsioni di Vincenzo erano giuste, purtroppo. Il 15 Naselli aveva promulgato la costituzione spagnola e posto Palermo in stato di assedio. La popolazione della città, in risposta, aveva cominciato a chiedere l’indipendenza e, per essere meglio ascoltata, aveva assaltato la casa di un mercenario irlandese al servizio dei borboni, il generale Church. Motivo? L’uomo aveva strappato il nastro giallo appuntato sulla giacca di un cittadino.

“Viva Palermo e Santa Rosalia!” aveva gridato, a quel punto, padre Gioacchino Vàglica, monaco del convento di Sant’Anna. “Sicilia indipendente e libera! A morte i forestieri!”

I popolani gli erano andati dietro, inebriati dal gusto del saccheggio, tanto che dopo aver devastato la casa di Church, erano andati a liberare i prigionieri delle carceri. Da quel momento, Palermo era caduta in mano loro ed erano cominciate le uccisioni. I primi a morire furono due uomini che non avevano fatto mancare il loro impegno nell’esperienza costituzionale del ’12, il principe di Cattolica, organizzatore della guardia civica, ed il principe di Aci, collaboratore del generale Naselli.

“Anche noi, come voi, gridiamo viva la libertà e viva la costituzione!” aveva cercato di difendersi il principe di Aci, fronteggiando la marea assassina.

“La tua libertà è quella dei messinesi, non la nostra!” gli aveva risposto un brutto ceffo, pugnalandolo.

Il principe di Cattolica, invece, non aveva avuto il tempo di dire nulla, perché spirò dopo che era già svenuto, per una randellata che lo aveva beccato proprio in mezzo alla fronte.

Il generale Naselli, vista la piega, era fuggito precipitosamente, lasciando il comando ad uno ch’era stato ministro ai tempi di Bentinck, il principe di Villafranca. La folla lo rispettava perché era uno con la nomea di essere un fedelissimo della costituzione siciliana del ’12.

“Quando non puoi dominare la folla, mettitici a capo” commentò Vincenzo.

“Il che significa?” chiese Franca.

“Se Palermo è la più forte è Palermo che può imporre la pace. Vedremo. Il principe di Villafranca è un mio amico. Del resto, anch’io ho avuto qualche merito nella stesura di quella benedetta costituzione.”

Vincenzo Natale non arrivò mai a Palermo. Fermatosi a Caltanissetta per passarvi la notte, l’indomani decise di restarvi qualche tempo, prima di continuare. Nel ’12 aveva fatto parte del partito dei cronici. Ora, però, la situazione era cambiata. Il primo impulso di schierarsi con loro andava raffreddandosi velocemente.

“Come reagirà Napoli?” si chiedeva. “Cosa sceglieranno le altre città siciliane?”

In effetti, non tardarono ad arrivare notizie di una vera e propria guerra civile in atto. Franca usciva ogni giorno a raccogliere informazioni, mentre Vincenzo, come sempre, si rendeva invisibile. Non voleva essere trascinato in una scelta avventata.

“Novità da Napoli!” gli disse lei, un giorno. “Ruggiero Settimo ha rifiutato la nomina a luogotenente generale ed invece l’ha accettata il principe di Scaletta.”

“Proprio il governatore militare di Messina! Figurati come la prenderanno i palermitani! Non capiscono che così è la guerra?”

“Penso di sì. Ma, penso pure che la guerra sia esattamente ciò che vogliono. Magari, proprio per stroncare sul nascere le velleità palermitane.”

Pochi giorni dopo, a confermare la burrasca,venne reso noto il primo atto di governo del principe di Villafranca: un proclama con cui vietava agli intendenti dei valli siciliani di aver rapporti con la giunta palermitana.

“Sembra scritto apposta per te” gli disse Franca, riferendosi alla sua carica di segretario generale dell’Intendenza.

L’osservazione era più che sensata, per cui Vincenzo decise di trattenersi a Caltanissetta, in attesa degli eventi.

Il principe di Villafranca, barone che aveva lottato al fianco di Carlo Cottone, era un personaggio abbastanza sicuro delle sue idee. Non era tipo, perciò, che potesse esitare molto, neppure davanti all’ipotesi di scatenare una guerra civile. Lo fece, infatti, con un proclama, in cui ordinò l’arresto e la deportazione a Gaeta delle deputazioni palermitane mandate a Catania ed a Messina, col compito di portare anche lì la lotta separatista.

Palermo reagì inviando in giro per l’isola le guerriglie, che erano dei reparti armati in cui abbondavano gli ex-galeotti, per convertire alla causa le città riottose (praticamente, la stragrande maggioranza).

Ci furono alcune stragi, la più grave delle quali, ad opera delle bande del principe di San Cataldo, si ebbe il 13 agosto a Caltanissetta, proprio dove si trovavano Vincenzo e Franca.

Fortunatamente il principe di San Cataldo, quando Vincenzo gli si presentò davanti, lo riconobbe.

“Caro don Vincenzo” gli disse il principe, “c’è di nuovo bisogno della sua opera di combattente della libertà siciliana.”

“La mia vita stessa testimonia quanto io l’amo” rispose Vincenzo.

Fu, quindi, scortato nella sua abitazione, con l’ordine perentorio ai guerriglieri di non disturbalo per il resto della notte. Per strada si vide la città illuminata dagli incendi delle case, mentre un’orda ubriaca impazzava dappertutto, con ruberie e stupri.

L’indomani, salutati rispettosamente dal principe di San Cataldo, Vincenzo e Franca partirono per Palermo. Trenta chilometri più avanti, pagando profumatamente il vetturino, deviarono su una strada secondaria, puntando verso i Monti Peloritani, per poi proseguire verso Messina.

“Questa è gente che finisce sulla forca” disse Vincenzo. “I cronici che conoscevo io non esistono più. Stanotte ho visto solo un’accozzaglia di banditi.”

31

Florestano Pepe in Sicilia

Sotto sotto, il più contento per la guerra civile ch’era scoppiata in Sicilia fu Ferdinando I.

“Mi arrivano informazioni di una sollevazione nell’isola” disse il re al generale Florestano Pepe, fratello di Guglielmo.

I suoi sentimenti verso la famiglia Pepe potevano definirsi di cordiale antipatia. Già gli dava ombra il comando dell’esercito che aveva dovuto affidare all’infido Guglielmo. C’era, in più, il mal di pancia provocatogli dal fatto che Florestano era uno dei quindici membri della Giunta Provvisoria di Governo, cioè di un organo che aveva i poteri del Parlamento, almeno fino alle elezioni.

Aveva, quindi, pensato che una bella missione in Sicilia, dove era facile trovare molta impopolarità e nessuna gloria, fosse una scelta ideale per toglierselo di torno.

“Da un lato c’è Palermo” riprese il sovrano, “con poche città e borghi, che vorrebbero addirittura l’indipendenza. Contro Palermo ci stanno Messina, Catania, Siracusa ed altri centri, che invece preferiscono l’unità del Regno e la costituzione spagnola. Io e mio figlio, il principe Vicario, abbiamo deciso di affidarle l’incarico di andare laggiù, a vedere cosa si può fare.”

“Ringrazio Vostra Maestà per la fiducia” disse Florestano Pepe, prendendosi qualche attimo per riflettere.

Sebbene avesse chiari i pericoli di una missione del genere, calcolò il vantaggio che sarebbe venuto al governo rivoluzionario da una pacificazione dell’isola. Assodato questo, aveva l’orgoglio di pensare di essere uno che poteva riuscire nell’impresa. Senza contare che, in caso di scherzi da Vienna, un esercito in armi poteva risalire dalla Sicilia, rafforzato da nuove adesioni.

“Cercherò di convincere i siciliani” disse, infine, “che siamo un unico regno e che tutti saremo assoggettati alle leggi di un unico, libero parlamento… quello di Napoli!”

“Con giudizio, generale, con giudizio!” aggiunse Ferdinando. “Provi soprattutto a convvincere quei sudditi del fatto che non siamo dei nemici. Bisogna guadagnare i cuori, non le mura!”

Florestano Pepe sbarcò a Milazzo il 5 settembre, protetto in mare dalla flotta napoletana e in terra da un reparto di messinesi, fra l’altro molto arrabbiati per il sequestro delle loro navi da parte dei palermitani e per l’arresto, come traditori della patria siciliana, dei relativi equipaggi.

Vincenzo Natale era lì. Finite le operazioni di sbarco, infatti, si presentò con altri delegati davanti al generale. La sua adesione (o, il passaggio?) al partito degli unitari anticronici era ormai di dominio pubblico.

“Ho sentito dire un gran bene della sua prudenza e della sua cultura storica” gli disse Pepe, dopo le presentazioni.

“Né la prudenza, né la cultura sono le virtù più utili, in momenti tanto solenni” rispose Vincenzo. “Prima di ridare la parola alla politica, servono l’audacia e le armi, per battere il baronaggio e gli egoismi municipali che ci dilaniano.”

Per fortuna, bastò l’audacia. Prima che il generale attaccasse Palermo, il principe di Villafranca gli andò incontro. I due s’intesero subito ed a Termini Imerese fu firmata la pace, stabilendo un’amnistia generale e fissando l’entrata dei napoletani nella capitale per il 25 settembre.

“Non erano esattamente queste” pensò contento Florestano Pepe, “le difficoltà che il re sperava che io incontrassi.”

Le elezioni generali vennero celebrate secondo la costituzione spagnola ed il 22 settembre 1820 si riunì la giunta preparatoria del Parlamento delle Due Sicilie. Due giorni prima, il Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie aveva comunicato:

“Giungono in questo momento due basimenti di Messina, partiti da quella città il dì 17 del corrente. Con uno di essi sono arrivati i signori D. Francesco Strano di Catania, D. Paolino Riolo di Centorbi, D. Vincenzo Natale di Militello, Deputati del Valle di Catania al Parlamento Nazionale.”

L’1 ottobre ebbe luogo la seduta inaugurale. Presidente del parlamento fu eletto Matteo Galdi, che nel discorso di insediamento, alla presenza di Ferdinando e di Francesco, suo vicario, affermò:

“La fraterna ed intima amicizia che ci unisce all’isola di Sicilia, la quale pur forma, mercé la nuova costituzione, un solo stato con noi, e ci unisce con più stretti vincoli ancora, si è accresciuta dall’arrivo dei suoi deputati che già siedono in Parlamento e ci aiutano nei nostri travagli coi loro lumi e con la loro esperienza; speriamo che giungeranno presto anche quelli dei paesi che furono agitati da passeggiero spirito di vertigine, e che di questa si estingua finanche la più lontana rimembranza.”

Quella sera, un compiaciuto Vincenzo si rivolgeva a Franca. “Fin dalla prima riunione della giunta sono stato nominato segretario.”

32

Indipendendismo ed autonomismo: l’attività parlamentare di Vincenzo Natale

L’attività parlamentare di Vincenzo, pur nel rigore di un concetto unitario del Regno, mirò a dare maggiore autonomia amministrativa alla Sicilia, creando nuovi organi istituzionali. Fu la parte non caduca della sua opera politica, quanto mai attuale ancor oggi, a distanza di quasi duecento anni.

In quest’ottica, per esempio, presentò una mozione, affinché si elegesse un consigliere di Stato in ciascun Valle dell’isola. Guidato da tale idea di fondo, quindi, partecipò alla discussione sulle modifiche da apportare alla costituzione, sostenendo che per esse bastava il voto favorevole della metà più uno dei deputati e non la maggioranza di due terzi, come altri volevano.

In un importante intervento, poi, seppe chiarire quanto per lui fosse prioritaria la lotta al baronaggio, del quale il separatismo palermitano era il frutto avvelenato. “Quale sarebbe la causa di tanta miseria, di tanta desolazione, se non è in massima parte questo mostro della feudalità? I baroni di Sicilia hanno formato fra di loro dai più remoti tempi una lega infernale. Essi, nuotando sempre nelle dovizie e nel lusso, si sono resi immuni dai pesi pubblici. I proprietari, che sono essi, non pagarono mai alcun dazio; tutte le imposte sono sempre ivi gravitate sopra generi di consumazione, sopra la bocca del povero. I baroni di Sicilia rassomigliano perfettamente ai di lei antichi tiranni, dei quali non vi erano sulla terra tiranni più atroci, più sospettosi, più intraprendenti e sottili, come porta l’acume nazionale, a trovare dei ripieghi a loro favore.”

Su questa premessa, Vincenzo sviluppò un coerente ed alternativo programma di interventi economici, basato sull’abolizione delle dogane interne. Così, si liberavano i commerci, i traffici marini e le esportazioni. Sarebbe nata da ciò una creatura che disgraziatamente non riuscì a nascere (e che attende ancora di nascere): la moderna borghesia, cosa molto più necessaria dell’indipendenza.

Ormai, le sue, come si vede, erano idee esattamente opposte a quelle degli ex amici cronici. Infatti, sempre in parlamento, egli ne demolì i furori propagandistici con la forza dei ragionamenti. “Sia libera ed esente dei diritti nei porti del Regno l’importazione e l’esportazione di qualunque genere, produzioni, manifatture provegnenti dall’una e dall’altra Sicilia di qua e di là del Faro. Che tale facoltà si eserciti con le necessarie cautele disposte dalle leggi in vigore, per evitarsene l’abuso.”

Un altro cruciale campo di intervento riguardava il perenne conflitto tra contadini e baroni. Il punto dolente era rappresentato dagli effetti che si avevano dalla quotizzazione e dall’assegnazione delle terre ecclesiastiche e demaniali ai privati, dal momento che con quella privatizzazione c’era stata pure la perdita degli “usi civici”, i quali, per quanto ridotti da numerose usurpazioni di nobili e borghesi, ancora nel Settecento valevano ad attenuare la miseria delle popolazioni rurali. Le proposte di Vincenzo, pur avendo ben presente la necessità di superare lo sfruttamento promisquo delle terre (tipico degli usi civici), necessariamente disordinato e poco redditizio, erano per realizzare quote sufficientemente grandi, che avessero le caratteristiche della moderna azienda agricola privata, con tutti gli annessi diritti: poter trasmettere in eredità, poter affittare e, magari dopo un certo numero di anni, poter vendere.

“Sono sicuro che passeranno” concluse ottimisticamente, parlandone con Franca Faraci. “Così, i massari diventeranno moderni galantuomini e, finalmente, si uscirà dal medioevo.”

Purtroppo, i contrasti tra Palermo e Napoli non erano finiti con l’accordo tra Florestano Pepe ed il principe di Villafranca. Lo si scoprì, quando a novembre i termini di quella specie di armistizio arrivarono in parlamento.

“Si vuol spezzare l’unità del Regno delle Due Sicilie” insorse bil deputato Gabriele Pepe.

“E’ vero!” confermò il deputato Matteo Imbriani.

Molti deputati volsero lo sguardo su Vincenzo, che aveva già chiesto ed ottenuto di parlare. La sua dote più apprezzata era il tono di voce sempre pacato, cosa che rendeva piacevole ascoltarlo. Fra l’altro, era noto il cordiale incontro che in Sicilia c’era stato tra lui e Florestano Pepe. Quindi, ci si aspettava un invito alla moderazione.

Ma, ci fu una sorpresa.

“Dico subito” esordì Vincenzo, “che nego la corona civica, sia alla città di Palermo, sia al generale Florestano Pepe. Con la nostra capitolazione (tale la definisco io) a Palermo, come ha già detto il deputato Gabriele Pepe, è stata spezzata l’unità del regno ed infranta la sua costituzione. Propongo, in aggiunta, che si nomini una commissione d’inchiesta che indaghi su quei fatti. Ribadisco, una volta per sempre, che la Sicilia al di là del Faro è parte della nazione, e parte non piccola, non ultima, non ignobile. Lo Statuto di tutto il Regno, quello soltanto, deve garantire i diritti individuali del cittadino e quelli di tutti gli abitanti della mia isola!”

Vincenzo tirò fuori il fazzoletto, per asciugarsi un fastidioso sudorino al collo. Guardò i colleghi. C’era un silenzio che si tagliava a fette. “Come può esserci, dunque, un proclama col quale militarmente si fa la requisizione di 300.000 ducati sopra la città di Palermo, fra un brevissimo corso di giorni? Chi in forza della Costituzione ha il diritto d’imporre contribuzioni o chiedere prestiti? Lo ha forse il potere esecutivo? No. Questo è un sacro diritto soltanto della rappresentanza nazionale!”

Fece un’altra pausa, per osservare la reazione dei colleghi. In quel momento pensò che la carboneria passava dalla congiura al governo. “Quanto poi possa essere giusta la distribuzione, voi lo ravvisate dallo stesso proclama. Tutte le botteghe, tutte le entrate delle case sono gravate smisuratamente; e forse in quella tale casa una famiglia si ricovera, che manca del pane, e che non può covrire la sua nudità per le rapine sofferte. Con tutto ciò, se non paga prontamente, è condannata a pagare due volte.”

Si asciugò di nuovo il collo. Ormai, egli dominava l’assemblea. Vide Gabriele Pepe, che gli sorrideva con amicizia. Vide tutti gli altri pendere dalle sue labbra. “Io non intendo graziare i rivoltosi di Palermo dall’obbligo delle spese di una guerra provocata. Ma, un tale esame deve conoscerlo il Parlamento, e le spese devono gravitare su de’ concitatori della insurrezione, su di coloro che la fomentarono, ed a cui giovava; e non mai su quella gran parte de’ cittadini, che animati da giusti sentimenti resisterono alla violenza de’ furibondi, si armarono, e batteronsi sintanto che, per effetto de’ loro sforzi, l’armata poté entrare nella città, ed impadronirsi de’ forti. Si indaghi, invece, su qual è lo stato generale dell’isola, si controlli che vi regni la tranquillità. Si chieda quali ricerche sono state fatte intorno alle cause ed agli autori della rivolta. Si facciano conoscere tutte le azioni di quel periodo in Sicilia, da qualunque funzionario e per qualsiasi titolo siano venute!”

Vistosi rifiutare dal parlamento l’accordo fatto con Palermo, il generale Florestano Pepe si dimise, lasciando il comando al principe di Campana, suo luogotenente. Inoltre, come aveva auspicato Vincenzo, vennero arrestati alcuni carbonari che avevano combattuto nella guerriglia palermitana, fra i quali c’era il siracusano Giuseppe Abela.

“Ne conosco l’animo nobile” commentò amaramente Vincenzo con Franca. “Mai avrei pensato da parte sua a una scelta tanto dissennata!”

“E’ stato sempre al tuo fianco” disse Franca. “Sai bene quanto ti è stato amico nei giorni in cui hai vissuto a Siracusa. Aiutalo!”

“Non posso. Perderei ogni credibilità, se lo facessi.”

Franca non ignorava le crudeltà che impone la politica. Quindi, non insistette. Però, per una volta, guardò Vincenzo con occhi non troppo adoranti.

“Alle volte” pensò, “sotto le vesti della fermezza, si cela soltanto l’egoismo.”

Il 7 novembre arrivò in Sicilia, come comandante in capo del corpo di spedizione, il generale Pietro Colletta, il quale, più che per le virtù militari, lasciò poi gran traccia di sé come storico.

“Il primo atto che pretendo da voi” disse senza tanti complimenti ai primari di Palermo, “è che giuriate fedeltà alla costituzione spagnola.”

Il 19 novembre i rivoltosi dovettero giurare e furono indette le elezioni per il parlamento nazionale a Palermo e provincia. Cominciò, così, una specie di resistenza passiva, dato che i deputati eletti si rifiutarono di andare a Napoli.

Dove, frattanto, continuava l’attività del parlamento. C’era, per esempio, da trattare la questione relativa al nome da dare al Regno.

“Col convertire” sostenne Vincenzo, a nome della maggioranza dei deputati, “l’attuale denominazione di tutto il Regno in quella di Regno dell’Italia Meridionale si confonderebbe il presente linguaggio diplomatico, e susciterebbesi la gelosia delle potenze poco disposte a nostro favore. Le parole non sono né belle né brutte, se non per quanto esprimono le cose, o buone o cattive; ma servono a denotare gli oggetti; e quando ciò comunemente non si ottiene, manca il profitto essenziale del linguaggio. Come mai si vorrebbe pretendere che i nostri contadini, ed altri idioti, che è quanto dire la gran massa della Nazione, riconoscessero i vecchi nomi de’ Bruzii, de’ Lucani, de’ Messapii, e non si meravigliassero più tosto di tali nomi ignoti, non sapendo nemmeno sospettare che potessero appartenere a loro?”

La ribellione palermitana, fra gli altri guai, aveva messo in gravi difficoltà anche i deputati siciliani leali al nuovo ordine carbonaro. Le rivelò un contrasto sul numero della rappresentanza siciliana nell’Assemblea Permanente, il cui compito era detenere il potere legislativo nel periodo tra un’elezione e l’altra del parlamento. Secondo la costituzione spagnola, le province d’oltremare (cioè, la Sicilia) avevano diritto a tre rappresentanti; ma, non mancò chi, come il deputato Matteo Imbriani voleva dargliene soltanto due.

“I siciliani” disse Imbriani, “fino a questo momento non hanno contribuito al nuovo ordine di cose, se non con danni e rovine!”

Si votò, quindi, la modifica della costituzione. Quarantadue deputati votarono per portare a due i rappresentanti della Sicilia, venticinque per lasciarli a tre. A quel punto, prese la parola Vincenzo Natale. “Voi avete modificato la costituzione, senza tener conto che per ogni sua modifica è necessario il voto dei due terzi del parlamento.”

Matteo Imbriani si levò prontamente. “Il deputato Natale ha una memoria tanto corta da aver già scordato ch’egli stesso, qualche tempo fa, ha sostenuto la necessità di poter apportare le opportune modifiche costituzionali con la semplice maggioranza assoluta e non col voto dei due terzi…”

“Non la mia memoria corta me lo ha fatto scordare” rispose Vincenzo. “Ma, il vostro egoismo napoletano, ancor più devastante del separatismo palermitano!”

Vi fu un applauso da parte dei deputati Francesco Strano e Paolino Riolo; ma, la votazione per appello nominale che seguì all’intervento confermò la scelta di due rappresentanti in tutto per la Sicilia.

Fu il generale e storico Pietro Colletta colui che seppe meglio mettere in evidenza la natura della lotta politica di Vincenzo. Altre leggi, proposte dal deputato Natale, abolirono la feudalità di Sicilia; non essendo bastati fino al 1821 gli esempi de’ più civili regni, e la pazienza de’ tempi e i costumi dei signori, e la stessa costituzione dell’anno ’12, e parecchi decreti degli anni ’16 e ’17. Quella feudalità, cessata molte volte nel nome, non mai ne’ possessi, era finalmente per le nuove leggi distrutta, le stesse che sotto i re Giuseppe e Gioacchino operarono tra noi la piena caduta del barbaro edificio.

Ed, in effetti, il filo rosso che unì le vicende del massone Alfio Natale e quelle del carbonaro Vincenzo Natale potrebbe essere individuato nell’aver favorito il passaggio da un concetto feudale della ricchezza ai nuovi valori individualistici, con tutto il conseguente dinamismo dell’imprenditoria, del commercio e delle professioni.

Nella visione politica di Vincenzo questo impegno si tradusse nell’idea di allargare il mercato, il che contrastava con qualsiasi indipendentismo. Al contempo, però, vedeva la necessità di un’autonomia gestionale, per rompere i lacci che impedivano quella che oggi si chiamerebbe un’economia liberista.

“Ho appoggiato la proposta” egli scriveva al padre, con chiara coscienza, il 6 dicembre 1820, “di istituire un supremo tribunale di giusttizia o cassazione in Sicilia. Le mie argomentazioni hanno preso forza dal fatto che il mare separa la nostra terra dalla capitale. Ho chiesto pure al Ministero delle finanze di vedere la possibilità di una diminuzione dei gravami fiscali.”

Questo, mentre si accendeva il dibattito tra lui e il deputato Carlo Poerio.

“E’ l’abolizione della feudalità” disse Vincenzo in parlamento, “il compito assegnatomi, fin da quando, più di venticinque anni fa, in una piccola città siciliana l’avvocato don Alfio Natale, mio padre, non cominciò ad attaccare i privilegi baronali, ottenendo una prima vittoria!”

“Non occorrono nuove leggi per questo” gli rispose Poerio. “Bastano il richiamo e l’esecuzione di quelle vigenti, che riguardano tutto il regno.”

“La Sicilia non è Napoli” insistette Vincenzo. “Noi non abbiamo avuto forze rivoluzionarie al governo per un tempo bastante ad incidere sugli usi e sui costumi. Ciò mi ha convinto dell’opportunità, non soltanto di una nuova legge per l’abolizione della feudalità, ma pure di una divisione dei demanii della Sicilia oltre il Faro.”

Così, il 20 gennaio 1821, Vincenzo poteva orgogliosamente scrivere al padre. “Il parlamento ha nominato una commissione per presentare al principe vicario le leggi sull’abolizione della feudalità e sul nuovo regolamento delle guardie nazionali. Con la presentazione di queste leggi, concernenti sì da vicino la prosperità nazionale, il parlamento ha voluto festeggiare nel modo più solenne il giorno natalizio del nostro re e padre della patria, che ricorreva il 12 gennaio. Io facevo parte di tale deputazione.”

Peccato che, quasi due mesi dopo, il 15 marzo, in Parlamento Vincenzo era costretto a tornare sull’argomento:

“E’ doloroso non sapere ancora i tempi di esecuzione della legge sull’abolizione della feudalità in Sicilia, mentre occorre una pronta decisione per liberare dall’antica tirannide baronale quest’isola infelice. Ma, so già che tutte le guerre private che mi sono state mosse nel passato e che mi saranno mosse nel futuro sono state causate dal mio interessamento e dalla mia opera contro la feudalità.”

33

La maledizione italiana: uno dei tanti voltafaccia del Re nella storia italiana

Il 6 gennaio 1821 il generale Pietro Colletta venne richiamato a Napoli ed il suo posto fu preso dal generale Vito Nunziante. In quegli stessi giorni il re Ferdinando I si trovava a Lubiana, dove aveva realizzato il suo ennesimo voltafaccia.

Infatti, era partito da Napoli dicendo:

“Io vado al Congresso per adempiere a quanto ho giurato.”

Una volta fuori della portata dei carbonari, però, aveva chiesto l’esatto contrario. “Le potenze della Santa Alleanza usino la forza per ristabilire l’ordine a Napoli, se non vogliono che l’ubriacatura rivoluzionaria coinvolga l’intera Europa!”

Gli sbigottiti parlamentari, perciò, il 28 gennaio si videro arrivare la comunicazione delle decisioni reali, concordate coi fedeli alleati austriaci. “Bisogna distruggere la deplorevole rivoluzione del luglio ultimo. Che i costituzionali delle Due Sicilie ascoltino la voce paterna del loro re; ma, ove questo non facessero, sarebbero le prime vittime dei mali che attireranno al loro paese.”

Quella stessa sera, persino il reazionario ministro austriaco Klemens Wenzel Lothar, principe di Metternich-Winnerburg, affidava l’inevitabile disgusto al suo diario. “Mi è capitato più volte di dover dire che l’Italia è solo un’espressione geografica. Di questo se ne convincerebbe più di me chi frequentasse Ferdinando I di Napoli ed immaginasse che popolo possa essere quello in cui governa un simile re!”

Al parlamento, nella seduta del 9 febbraio, non restò altra scelta che dichiarare il re prigioniero delle potenze della Santa Alleanza. E fu la guerra.

Ciò mise in allarme il vecchio don Alfio Natale, che il 23 febbraio scrisse a Vincenzo e Franca. “Le cattive notizie corrono con la velocità del fulmine. Si sa da tre giorni il risultato del congresso di Lubiana contrario alla giurata costituzione, e che il re ne ha fatto la partecipazione al principe reggente, e quindi riunito straordinariamente il parlamento il giorno 12. La guerra quindi mi pare inevitabile. Ho letto un avviso in stampa venuto come si dice da Messina, che invita all’armi i popoli delle Due Sicilie. Ma questo non sarebbe il maggiore dei mali, se non si avesse a temere una nuova insurrezione in quest’isola. Il fuoco dell’anarchia cova sotto le ceneri, ed un piccolo soffio lo farà divampare. Già gli amici dell’Indipendenza gioiscono, ed hanno già alzato la testa.”

Erano ritornate, insomma, a parti rovesciate, le divisioni tra cronici indipendentisti e anticronici unitari, le stesse che già avevano fatto fallire il governo costituzionale siciliano del 1812. Lo sbocco inevitabile fu quello di sempre: la sconfitta di tutti. E manco oggi la politica siciliana pare che cangi stile (direbbe Leopardi).

In pochissimo tempo la situazione si fece disperata. Don Alfio, in una lettera del 27 febbraio ai figli (Sebastiano aveva raggiunto Vincenzo a Napoli), non nascose il suo pessimismo al riguardo. ”Sono qui arrivate molte stampe eccitanti il patriottismo per il sostegno della Costituzione. Si sa qualche cosa degli avvenimenti dello Stato Romano, e se l’Alta Italia ne imitasse l’esempio, come ne corre voce, sarebbe una gran lezione alla Terra, perché i Potentati rispettino i dritti de’ Popoli. Io però dubito molto che i poveri Italiani possano alzare un dito, atteso lo stuolo d’armati che li circonda. Attendo con ansietà vostre notizie.”

Gli austriaci, così, arrivarono in mezzo ad una ridda di voci, di si dice e di ipotesi. Con loro, com’era prevedibile, aumentò il caos. A don Alfio, in una ulteriore lettera del 5 marzo, non restò che prenderne atto con Vincenzo e Sebastiano. “Le notizie che partecipate si erano già divulgate per via di molte stampe, che rapidamente si succedono da un giorno all’altro. Anzi argomento che molte di queste non si verificano, giacché voi non ne fate altro cenno, come sarebbe la sollevazione della Prussia e del Piemonte e Genovesato, per avere la Costituzione; il prossimo arrivo di 30.000 fucili, e di un corpo di milizie spagnuole, e che gli Austriaci marciano di mala voglia contro Napoli. Il tutto dunque si riduce, secondo si deduce dalle vostre lettere, allo Stato Romano, che ha proclamato la Costituzione di Spagna e ha formato quattro campi per raccogliere truppe e ingrossare l’esercito. Ma, come questo esercito, che non può essere molto numeroso, né ben organizzato e disciplinato, potrà resistere al colossale e agguerrito esercito austriaco che già sta per scacciarlo, senza un pronto e potente soccorso che lo sostenga? Io spero è vero nell’energia e nell’entusiasmo dei nostri, ma molto più temo la potenza dei coalizzati. Prevedo al tempo stesso che in quest’Isola dovrà risorgere la non ben estinta anarchia.”

Finalmente, il 25 marzo, le truppe austriache entrarono a Napoli, mettendo fine alla seconda esperienza parlamentare di Vincenzo Natale.

Soltanto le trentacinque vendite carbonare di Messina, agli ordini del generale Giuseppe Rossaroll, pensarono di resistere. Purtroppo, ogni buona intenzione durò lo spazio di un mattino, poiché all’avvicinarsi delle armi della reazione vittoriosa, il Rossaroll si ritrovò solo.

Non gli restò, quindi, che fuggire in Spagna (morì nove anni dopo, combattendo per la libertà della Grecia, come George Gordon Byron e Santorre di Santarosa).

34

L’attraversata del deserto” della carboneria: l’amicizia con la famiglia Gemmellaro

A differenza di quel che aveva fatto lui con l’amico siracusano Giuseppe Abela, la rete delle amicizie carbonare e massoniche non abbandonò Vincenzo. Egli, così, poté evitare gli effetti della reazione e del terrore che seguirono la caduta del governo costituzionale.

“E’ arrivato l’ordine” scriveva, il 17 maggio 1821, il sollecito Giuseppe Gemmellaro, per tranquillizzare don Alfio. “Esso dice: mettete in libertà i deputati o altre persone che con essi furono arrestati e tralasciate ogni altra perquisizione per quelli che non si presentarono.”

Vincenzo, manco a dirlo, era proprio fra quelli che non si presentarono. Neppure, però, era tipo da fidarsi di un ordine dato da un mancatore di parola come Ferdinando.

In quegli stessi giorni, fra l’altro, si ebbe un’ulteriore conferma di quanto le promesse del re fossero scritte sull’acqua, proprio al riguardo delle speranze palermitane di ottenere l’indipendenza della Sicilia.

Seppur con la consueta cautela, infatti, Vincenzo, tornatosene in Sicilia quasi clandestinamente, tentò di continuare nel suo impegno politico, avvicinandosi al partito dei cronici indipendentisti.

Il tramite furono i catanesi Gemmellaro.

“Mi rallegro con voi” scriveva Mario Gemmellaro a don Alfio, il 24 maggio, “per la finita tempesta e per il vedervi in famiglia il vostro figliuolo. La Sicilia, come è nei nostri voti, sarà indipendente da Napoli ed avrà ministri siciliani.”

Il giorno dopo Vincenzo era a Catania, pronto a riprendere la sua battaglia politica. Risultò, però, un’esperienza che finì prima di cominciare, dato che arrivò subito un deludente decreto reale.

“Per la Sicilia” vergò sulle pagine del diario, “vi sarà in Palermo un luogotenente con tre direttori, che formano il suo consiglio, uno dell’interno e dell’ecclesiastico, l’altro delle finanze ed il terzo di grazia e giustizia. Vi sarà anche a Napoli un ministro di Stato referendario per gli affari di Sicilia. Di più una Consulta di Stato residente in Palermo composta di 18 membri, siccome un’altra Consulta in Napoli di 30. Ma unico Consiglio di Stato che sarà in Napoli non minore di 6 individui, il quale dovrà tutto definire sotto la presidenza del Re, o di S. A. il Duca. Sicché, tutto sarà regolato come per lo passato, e la indipendenza domandata e sperata da Palermo è svanita come un sogno.”

In quelle parole era evidente la consapevolezza che, per la seconda volta, approdava nel nulla tutto l’impegno profuso in parlamento. Decisamente, la machiavelliana fortuna non era dalla sua parte.

Per tutto il restante 1821, Vincenzo se ne stette semiclandestino a Catania. Le notizie che gli giungevano dai vari cugini sparsi per il regno non erano per nulla tranquillizzanti. Seppe, per esempio, che a Palermo erano arrivati 7.000 austriaci, fra i quali c’erano 360 usseri a cavallo. Seppe di capitani d’armi e di consiglieri d’intendenza trasferiti. Seppe pure che il sindaco Ninfo era stato sospeso.

“Se non è repressione, questa qui…” disse a Franca.

“Per ora, non vi è altro, se non provvedimenti amministrativi” lo tranquillizzò lei. “Né vi sono novità sul tuo conto.”

Purtroppo, le novità arrivarono l’indomani, 19 agosto. Da Napoli, gli scrisse un amico.

“Sono state chieste informazioni su di me” riferì a Franca, finito di leggere la lettera.

“Da parte della polizia?” chiese lei.

“Peggio! Da parte del Ministero degli affari di Sicilia. In particolare, si vuol sapere se faccio parte di qualche setta e se ho mai manifestato sentimenti troppo liberali.”

“Ed i nostri amici?”

“Non ci hanno abbandonato. L’indagine ha avuto un esito negativo.”

“Quindi, tutto andrà bene, no?”

“Può darsi di sì. Ma, queste cose, se si sa come cominciano… E’ meglio restare appartati, per un po’… Partirò, affinché in tutto ciò che mi riguarda resti il silenzio.”

“E dove andrai?”

“A Palermo, dove mi indicheranno i Gemmellaro.”

“Proprio in mezzo agli austriaci!”

“E’ l’ultimo posto in cui verrebbero a cercarmi.”

Tornò a Catania nell’agosto del 1822, calmatesi le acque. Pensò, a quel punto, di riprendere la sua originaria professione di avvocato. A convincerlo era stato, soprattutto, il rapido aggravarsi della tisi che consumava il fratello Sebastiano. Come si sa, oltre al padre, egli era il parente più caro, l’unico che potesse stargli al pari per intelligenza.

Sebastiano morì a novembre, purtroppo dopo che Vincenzo era dovuto partire in fretta e furia per Roma, inseguito da un ordine di arresto. Accanto al giovane, negli ultimi giorni, oltre ad un invecchiato don Alfio, era rimasta Franca

“Non so perché desiderare la vita” scrisse, allora, Vincenzo, saputa la ferale notizia.

“Devi vivere perché è un nostro dovere vivere” gli rispose Franca, “se abbiamo un compito importante da svolgere. Devi vivere perché con la tua intelligenza pacata sai indicare la giusta azione governativa, per tramutare in realtà il sogno di una Sicilia libera dal servaggio feudale. Ti si perdona ogni egoismo, ogni tentennamento e persino qualche cinico abbandono, se si pensa a questa tua meravigliosa dote. Devi vivere perché io ti ho sempre amato, senza chiedere in cambio nulla, se non il privilegio di ascoltarti. Devi vivere perché tuo fratello che moriva, nelle lunghe ore in cui gli stavo vicina, non altra preoccupazione aveva, se non quella che tu potessi continuare a combattere. Devi vivere, se non vuoi che io muoia e che con me muoiano tuo padre ed i tanti che ti amano.”

Non potendo stargli lontana, a dicembre Franca raggiunse Vincenzo a Roma.

Per alcuni anni, la coppia visse prevalentemente in via Margutta, un quartiere popolare, subito dietro piazza Navona. Era un appartamentino affittato a nome di Mario Gemmellaro. Lo stesso, fra l’altro, si prese l’incarico di tenere i contatti tra l’esule e don Alfio. Un servo dei Gemmellaro fu mandato apposta a Militello.

“Indirizzate le vostre lettere a don Ferdinando Aragona” disse al padre in ansia. “E’ il nome dietro il quale si nasconde sua eccellenza don Vincenzo.”

In seguito, non mancarono i tentativi di trovare decorosa sistemazione anche in altre città italiane. Per questo, nel settembre dello stesso 1823, Vincenzo si recò a Livorno.

“Sono uscito dal bel lazzaretto di San Marco” scrisse al padre, “dove ho terminato una contumacia di quattro giorni. Sono stato in mare undici giorni, senza pigliare terra che cinque volte, nonostante il continuo vento contrario di maestro. Livorno è una città grande abbastanza, per i suoi borghi, ma poi assai più pulita e allegra. La gente vi è piena di brio, e per lo più vaga, e sembra il loro accento assai piacevole e armonioso.”

Qualche giorno dopo, Vincenzo andò a Firenze, alla notizia del passaggio del re, che si recava al Congresso di Verona. Il sovrano gli concesse udienza, grazie alla raccomandazione di elementi carbonari presenti a corte.

“L’occasione mi è grata” gli disse Vincenzo, “per potervi rappresentare di persona la mia totale devozione alla patria, che spero vogliate permettermi di tornare a servire.”

Il re lo guardò fino a fargli abbassare gli occhi. “Sono i miei funzionari di polizia che mi sconsigliano di accontentarvi. E la loro lealtà nei confronti della nostra persona non ci pare un modo di servire la patria meno dignitoso del vostro.”

“Maestà, io non so neppure il delitto di cui mi si accusa.”

“Siete troppo esperto di politica, per non saperne le sottigliezze, che non sempre sono esprimibili con accuse circostanziate.”

“Non intendo più occuparmi di politica, se questo è stato il mio torto. Vorrei soltanto dedicarmi ai miei studi.”

“Ottimo proponimento, don Vincenzo. Nel nostro regno sono sempre benvenuti i cuori amanti del sapere. Vi consiglio di perseverare, quindi. Vedremo, decideremo. Nel frattempo, fateci arrivare buone novità, con le vostre fatiche letterarie.”

Tornato a Roma, Vincenzo mandò una supplica al re ed inoltrò un’istanza di grazia al ministro Luigi de’ Medici. Sperava che la loro antica amicizia gli riuscisse d’aiuto. Né si scordò di Donato Tommasi.

Questa volta, però, le sue non sempre furono relazioni limpide. Non arrivò a fare l’informatore, sia chiaro. Aveva bastante intelligenza per capire che quella strada non dà grandi benefici e ti lascia esposto al ricatto. Ma, nella supplica al re si leggevano oscuri riferimenti a certi odi che si era attirato in Sicilia per una legge da lui sostenuta. Per il destinatario fu facile mettere nome e cognome, a quegli odi. “Appena io in aprile 1821 da Napoli recommi in Sicilia, mi si volle arrestare senza sapersene veruna ragione, e se ne diede l’incarico all’Intendente di Catania, al quale ugualmente senza sapersene ragione fu dopo un mese sospeso un tal ordine. Perciò mi è stata negata un’annualità circa di soldo, come Segretario Generale della Intendenza prima di Siracusa, e poi di Caltanissetta; anzi, invece di soddisfarmi questi pagamenti arretrati, fui obbligato con la forza a restituire tre mesate di già pagate de’ servigi resi. Così mi vedo in mezzo a tante violenze arrivare sin dall’agosto 1822 di vedermi allontanato dalla famiglia e dalla patria.”

Passarono il 1823, il 1824 e si arrivò al 20 agosto 1825. Soltanto in quella data arrivò a Vincenzo la notizia che poteva tornare in Sicilia. C’era stato un gesto di clemenza del nuovo re, Francesco I. Ovviamente, il primo a cui comunicò la sospirata decisione reale fu don Alfio. “Sua Maestà si è benignata di abilitare al ritorno 65 di coloro che stanno fuori; fra i quali io e don Emanuele Rossi. In appresso è persuasione generale che rientreranno tutti.”

A dire il vero, per lui l’esilio non era poi stato così terribile. Anche a Roma, infatti, aveva potuto contare su una rete di amicizie pesanti. Aveva fatto qualche giro nei corridoi dei ministeri e qualche visita negli uffici giusti.

Era stato coronato dal successo, perciò, il suo impegno per ottenere un prescritto pontificio, che permettesse alla sorella Cristina, ammalata, di dimorare fuori dal chiostro.

“Credo che potrà valere per tutta la vita” le scrisse cinicamente, dopo l’esito favorevole.

Arrivò a Messina, via mare, a settembre. Lì chiese che gli venisse mandata una lettiga, per continuare il viaggio via terra.

Quasi quattro mesi dopo, il 25 gennaio 1826, morì suo padre.

Un biografo del nostro Vincenzo Natale definirebbe periodo borghese gli anni che seguirono il suo ritorno dall’esilio, almeno fino al 1837. Egli li passò a Catania, anche se per la cura degli interessi familiari, per tre/quattro mesi l’anno, abitava a Militello.

Il suo interesse, ora, prevalentemente fu quello di portare a termine i suoi studi. Nella sua biblioteca, così, arrivarono volumi di raro pregio, come due in folio, edizione di Francoforte 1620, in OfficinaDanielis ac Davidis Aubriorum etc., un Plutarchi Chaeronensis quae extat omnia graec., un Iustinus: Trogi Pompeii, Historiarum Philippicarum epitoma, Parisiis apud Jacobum du Puys.

Si infittirono, inoltre, i rapporti con intellettuali e scrittori siciliani, prediligendo i colti rappresentanti della famiglia Gemmellaro.

Il più assiduo nello scrivergli, da Nicolosi, era Mario. “Ho appena ricevuto un magnifico Plutarco e mi chiedo se per caso non lo vorrebbe mandato. So bene la sua passione per quel vecchio. Il volume sta ben legato in pergamena biancae ben condizionata, la carta è di quella oscura.”

E ancora, qualche decina di giorni dopo. “Ho avuto qui un giovine Inglese molto erudito, egli ha riconosciuto il vero sito della rinomata Eraclea, e vi ha riconosciuto le orme di un teatro che non trova menzionato. Io lo dico a te, se mai l’hai trovato menzionato da qualche antico scribente.”

Non gli mancò neppure (perché quelli non mancano mai) qualche problema con la polizia. Se ne lamentò (inutilmente, come sempre) con le autorità. “La sera del 17 di questo corrente ottobre 1833 si vide apparire nella casa paterna il Capitan d’arme Zuccaro, arrivato all’istante da Catania, e costui interrogò l’esponente e D. Felice Natale suo fratello, chiedendo se la casa che abitavano era quella di D. Alfio Natale loro padre, già morto da otto anni innanzi; chiese poi di essere condotto nella incantina dell’olio, dove sul momento fu introdotto insieme col Giudice e Cancelliere del Circondario coi testimoni e con la sua gente d’arme. Ivi, osservate tutte le giare e l’intero locale, come osservarono nel passaggio la dispensa del vino, se ne partirono. Venne in seguito a notizia del ricorrente che la visita del Capitan d’arme era diretta a sorprendere non si sa quali carte segrete di setta.”

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Vincenzo Natale ed i libri dei “Discorsi” sulla Storia siciliana, capolavori della letteratura identitaria ottocentesca

In questo clima, nel 1834 cominciò a pubblicare i suoi saggi storici sul “Giornale del Gabinetto letterario dell’Accademia Gioenia”, diretto dal professor Salvatore Barbagallo Pittà. Ne divenne subito la firma più prestigiosa, come sottolineò proprio il Pittà, inviandogli una copia del periodico. “Eccovi un fascicolo del nostro giornale, che ha meritato, forse per la prima volta, il gradimento del pubblico attese le dotte riflessioni di Lei.”

Il primo pezzo pubblicato da Vincenzo si intitolò Riflessioni su d’un giornale per lo stato presente della Sicilia, il secondo Della prosperità della Sicilia all’epoca greca e delle cause che la produssero. In ambedue i concetti di letteratura, storia e politica finivano per fondersi.

“Studiando le cose nostre” spiegò al Barbagallo Pittà, “non avremo il rossore di apprender noi stessi da dotti stranieri. Importerà poi, oltreché sapere, scrivere bene; ma a scrivere bene una sola è la strada, ed è il sapere stesso; Scribendi recte sapere est principium et fons. Onde fece bene quel valentuomo di Francia, che, interrogato su come ben si potesse scrivere in francese, rispose: leggete Cicerone. E poi noi diremo ancora: Vos exemplaria graeca Nocturna versate manu, versate diurna.”

Così, finalmente si concretizzavano a 53 anni gli entusiasmi giovanili. Le escursioni militellesi con suo padre e don Giuseppe Tineo finivano di essere una mera curiosità da eruditi, per essere inserite in una adeguatamente grandiosa cornice storica.

Un giorno arrivò fino a Catalfaro, cercando le tracce di tombe sicane.

Fra le rovine del castello arabo vide un albero di fichi. I frutti più belli stavano su rami irraggiungibili da terra.

“Pare la versione siciliana della poesia di Saffo” pensò. “Come la mela che rosseggia / alta, sul ramo più alto… / Se la scordarono i raccoglitori? / No, non poterono arrivarci. Vediamo se è proprio così.”

Prese ad arrampicarsi. Aveva appena afferrato il primo frutto, quando con un sinistro crac il ramo su cui poggiava un piede cedette.

Si ritrovò per terra, con un fico in mano ed un piede rotto.

“Per quanto gli piacevano, penso che Tineo, i fichi, se li sarebbe mangiati anche in queste condizioni” si disse, dopo qualche iniziale imprecazione. “A che serve rinunciare al piacere che ti trovi in mano, per un dispiacere che hai nel piede?”

Sbucciò il fico e lo mangiò. Poi, tra pene e guai, saltellando con un piede, andò verso la strada.

Mezz’ora dopo, lo raccolse un contadino, che lo caricò sul mulo e lo portò a casa.

“Dunque voi” gli scrisse scherzosamente Mario Gemmellaro, saputa la notizia, “avete l’ardire di cader stramazzone senza permissione nostra? E vi dimenticaste che tal privativa è stata nostra, specialmente andando a caccia. Non vi rischiate altra volta, se non volete la nostra indignazione, e intanto diteci con verità come siete stato e come vi trovate oggi.”

Era ancora in convalescenza, quando, il 2 febbraio 1835, Barbagallo Pittà gli scrisse. “Volendo io dar opera ad un giornale che si avvicinasse, per quanto è possibile, alla cima del perfetto, so bene che, abbandonato alla pochezza mia, esso non riuscirebbe a buon fine. Perciò prego lei, che distinguesi fra’ sommi siciliani sapienti, a volermi esser cortese d’aiuto nella compilazione.”

Nacque, così, il giornale “Lo Stesicoro”, editore e proprietario Barbagallo Pittà. Nei numeri di aprile e maggio Vincenzo pubblicò una lunga ed articolata recensione sulla Somma della Soria di Sicilia di Nicolò Palmieri. A giugno il Discorso primo intorno alla vita ed agli scritti di Pietro Carrera e ad altre letterarie notizie di uomini insigni di Militello nella Valle di Noto. Ad agosto vi fu un nuovo intervento sulla Somma del Palmieri. A novembre, firmando col suo pseudonimo carbonaro di Nicio Genetlio, pubblicò Avvertimento alle riflessioni di Paolo Vagliasindi di Randazzo (“Giornale di scienze, lettere ed arti per la Sicilia”, maggio 1835) sull’appendice pubblicata in Catania dal Cav. F. P. C. intorno al primo periodo della storia letteraria greco-sicula. Dal dicembre 1835 al marzo 1836 venne fuori il Secondo discorso intorno al Carrera.

Nel 1837 i primi due discorsi sul Carrera, con l’aggiunta di un terzo, costituirono un piccolo gioiello letterario, Discorsi sui letterati ed altri uomini insigni di Militello, pubblicato presso la tipografia Del Vecchio di Napoli.

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Gli scritti rivoluzionari di Salvatore Barbagallo Pittà ed il colera del 1837

A proposito delle rivolte siciliane del 1837, nate dalle dicerie sull’esistenza di agenti del governo che spargevano il colera, in quello stesso anno a Milano lo scrittore Alessandro Manzoni revisionava il romanzo I promessi sposi. Le notizie che gli arrivavano da Palermo, da Siracusa, da Catania lo resero, s’è possibile, ancora più scettico sull’affidabilità del detto vox populi, vox Dei. Pensò, al contrario, che il popolo sa essere un gran bestia ed aveva in mente quei fatti contemporanei, scrivendo la famosa scena di Renzo che bussa al portone di don Ferrante, nella Milano del Seicento.

Renzo afferrò ancora il martello, e, così appoggiato alla porta, andava stringendolo e storcendolo, l’alzava per picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso. In quest’agitazione, si voltò per vedere se mai vi fosse d’intorno qualche vicino, da cui potesse forse aver qualche informazione più precisa, qualche indizio, qualche lume. Ma la prima, l’unica persona che vide, fu un’altra donna, distante forse un venti passi; la quale, con un viso ch’esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, con cert’occhi stravolti che volevano insieme guardar lui, e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma rattenendo anche il respiro, alzando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinzose e ripiegate a guisa d’artigli, come se cercasse d’acchiappar qualcosa, si vedeva che voleva cercar gente, in modo che qualcheduno non se ne accorgesse. Quando s’incontrarono a guardarsi, colei, fattasi ancora più brutta, si riscosse come persona sorpresa.

Che diamine…?” cominciava Renzo, alzando anche lui le mani verso la donna; ma questa, perduta la speranza di poterlo cogliere all’improvviso, lasciò scappare il grido che aveva rattenuto fin allora:

L’untore! dagli! dagli! dagli all’untore!

Qui si può soltanto aggiungere che da noi la caccia all’untore fu ancora più inquietante, dato che venne da gente che combatteva per abbattere l’ignoranza ed il pregiudizio.

La tensione durava dal 1836, quando a Napoli era spuntato il colera. Ma, i moti veri e propri si ebbero quando il contagio giunse in Sicilia. Il primo scoppiò il 12 luglio 1837, a Messina, cuore del traffici commerciali del regno. Il popolo assalì l’ufficio sanitario del porto, calpestando le insegne borboniche, perché un piroscafo con a bordo truppe borboniche non aveva rispettato la quarantena.

Quando si manifestò a Palermo, il colera era nel punto più alto della sua virulenza. Arrivarono a morire in un solo giorno circa 1.800 persone. In quell’occasione, fra gli altri, scomparvero anche due scrittori molto amici di Vincenzo, lo storico Nicolò Palmieri ed il letterato Domenico Scinà.

In tale tragica congiuntura, anche molte persone di buona cultura cominciarono a condividere con le donnette (o a fingere di condividere, il che è peggio) la convinzione che il colera fosse sparso ad arte dal re, per diminuire le bocche da sfamare e per punire i siciliani indipendentisti.

La situazione precipitò a Siracusa, dove scoppiò una violentissima rivolta. Un francese, un poveraccio di nome Giuseppe Schwentzer, che vendeva intrugli contro il malocchio, venne accusato di essere un untore. Sol per questo una turba di invasati, fra gli applausi generali, uccise lui, la moglie e, per non sbagliare, anche dei funzionari statali.

Subito dopo, venne formato un Comitato di salute pubblica, che assunse i pieni poteri. Uno dei capi era l’avvocato Mario Adorno, politico amatissimo dalla folla. Su quali basi, lo si capisce da una frase del proclama che scrisse: il veleno che aveva fatto stragi a Napoli e a Palermo ha trovato la tomba nella patria di Archimede. In altre parole, uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, ucciso dalla soldataglia ignorante, avrebbe dovuto essere contento di quei morti ammazzati!

Catania non si fece attendere. E, naturalmente, seppe aggiungere del suo alla bella logica dei siracusani.

“La molla di un siffatto timore gigante ed universale ha eccitato il popolo!” esclamò, infatti, Gaetano Mazzaglia, davanti agli amici pronti all’insurrezione. “Ed i liberali, quand’anche non credessero all’avvelenamento, di tale credenza debbono avvalersi.”

“Il cholera morbus” continuò il professor Salvatore Barbagallo Pittà, l’amico di Vincenzo, “altro non è se non il risultato di polveri e liquidi venefici, agenti nelle sostanze cibarie, nei potabili e sin anche per la via degli organi respiratorii, infettando l’aria di micidiale fetore.”

Su una spiegazione scientifica del genere, quel giorno stesso elaborarono una piattaforma politica, dove, insieme all’indipendenza da Napoli, si chiese la decadenza dei Borbone ed il ripristono della Costituzione del ’12. Indi è abbattuta la statua del re Francesco I avanti l’Università, ed è giurata nel Duomo e sottoscritta l’indipendenza siciliana il 1° agosto, da chi? Da quello stesso Intendente, dal Senato, dai magistrati, non esclusi i procuratori generali e regi, e da tutti gli impiegati amministrativi e giudiziari, da quel marchese presidente della Giunta e da questa.

Al comando del movimento fu messa una Giunta di pubblica sicurezza, che poi divenne Giunta di governo, di 21 membri, uno dei quali era Vincenzo Natale. Egli si trovò, così, deputato e rivoluzionario per la terza volta. C’era, però, il piccolo particolare che si trovava in una posizione politica esattamente opposta di quella della seconda, anche se un po’ coincidente con quella della prima.

Per sua fortuna, nei giorni della rivoluzione Vincenzo si trovava a Militello. C’era andato proprio per sfuggire al colera ed ora non sapeva se aveva fatto la scelta giusta, come scriveva a don Paolo Finocchiaro. “Sull’invito che mi fate di tornare a Catania, a godere maggiore sicurezza, posso dirvi che per ora stiamo in posizione eguale.”

Più di tutti, come al solito, teneva i contatti con lui Mario Gemmellaro, che ogni volta non mancava di dare un quadro del clima catanese. “Caro D. Vincenzo, si vales bene est: nos quidem valemus, Oggi ho avuto un Inglese con la sua moglie, venuto in Catania dall’altro giorno, sopra un legno proprio, e perché console generale di Tripoli stimò proprio salutar la Città con 21 colpi di cannone, al quale corrispose la Città con altrettanti. Li cittadini che sentirono tanto opinarono che la barca era sospetta di peste, e che voleva entrar con la forza, così videsi in un momento tutta la marina piena di popolaccio, che poco dopo restò da minchione.”

Nettamente contraria al trasferimento di Vincenzo a Catania era, invece, la sorella Maddalena. “Caro mio fratello, questa mattina ho inteso che voi siete stato fatto deputato di Catania, io non voglio che l’accettiate perché non si sa come finirà quest’affare; perciò scusatevi, o con dirci che state poco bene in salute, o per affare urgente di casa, o per qualche altro motivo che a voi non mancherà come scusarvi; basta che non l’accettiate.”

Quest’ultimo era il consiglio più sensato, perché quando il 5 agosto, mandati dal re a stroncare le rivolte siciliane, sbarcarono a Capo Mulini i soldati del marchese Del Carretto ci fu un gran cambiare di casacche, tanto che il 7 i borbonici entravano a Catania in mezzo agli evviva!, intendente e membri del senato in testa. Salvatore Barbagallo Pittà, Gaetano Mazzaglia, Giuseppe Caudullo Guerrera, Giacinto Gulli Pennetti, Giambattista Pensabene, Giuseppe Caudullo Amore, Angelo Sgroi e Sebastiano Sciuto furono fucilati nella piazza della Statua, oggi denominata piazza dei Martiri.

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La famiglia Vecchio e Donna Dorotea Majorana Cocuzzella: i fatti di Scordia

In verità, Vincenzo alla fine si era risolto ad andare a Catania, anche se non ci arrivò mai. Partitosi da Militello con Franca, infatti, volle sostare per la notte a Scordia, ospite del ventitreenne carbonaro Antonino Vecchio.

Anche in questa città da tempo era in corso una sorda lotta per il potere, in cui erano coinvolte le famiglie dei De Cristofaro e dei Vecchio – come ha raccontato lo storico scordiense Umberto Amore -. Per ironia della sorte, la madre dell’amico Antonino Vecchio era donna Dorotea Majorana Cocuzzella della Nicchiara, sorella del barone Salvatore, l’acerrimo avversario di Vincenzo.

Quando, già col buio, Vincenzo e Franca scesero dal calesse, ebbero l’impressione che i soli esseri viventi del circondario fossero le zanzare che infestavano il vicino lago di Lentini.

“Per colmo di misura, l’annata è andata male” disse Antonino Vecchio, accogliendoli.

“Pare che l’intera isola sia in subbuglio” gli rispose Vincenzo. “La gente che nel ’20 è stata tanto tiepida, ora insorgerebbe contro il re. Durante la festa di Santa Rosalia, a Palermo ci sono stati più di cento morti. A Catania, il mio amico Barbagallo Pittà ha scritto in un proclama che il colera, oltre che asiatico, è borbonico e si è messo a capo dei rivoltosi. A Siracusa gli animi sono gli stessi…”

“E’ venuto il momento di agire anche a Scordia!” concluse Vecchio.

Proprio all’indomani dell’arrivo di Vincenzo, a Scordia successe un finimondo tale da impedirgli di continuare il suo viaggio per Catania.

Nella piazza davanti alla chiesa di Sant’Antonio un tipo che tutti chiamavano Sancatarinaru, perché vendeva bustine contro il malocchio, si bisticciò con una popolana sul prezzo della merce. Ad un certo punto, esasperata, la donna aprì e sparse per terra la polvere bianca della bustina che teneva in mano.

“Ecco chi ci porta il colera!” gridò, additandolo.

Si formò subito un assembramento di facce minacciose.

“Volevo solo che mi si pagasse il giusto” si difese Sancatarinaru, con un filo di voce.

“No, tu spargi il colera e poi rubi ai morti!” disse uno, pronto a tirar fuori il coltello.

“Ed ora il tuo giusto te lo do sulle corna!” rincalzò un altro.

Partì, non si sa da dove, il primo colpo di bastone, che lo centrò in fronte. Il poveraccio stramazzò a terra.

“Eccoti un altro ducato e portalo al re!” fece un giovanottone, dandogli un calcio.

Quando le botte furono tante e tali da ucciderlo, lo legarono alla coda di un mulo e lo trascinarono per le vie di Scordia. Tornati sul piano del convento di Sant’Antonio, Salvatore Mazzone, campiere di don Antonino Vecchio, detto pure Arruffapopolo, usò i gradini della chiesa come pulpito. “Sono i ricchi che fanno spargere il colera. Ci vogliono morti, per non dividere nulla!”

Applaudirono tutti. Gridando A morte! A morte!, corsero alle carceri e liberarono i detenuti. Dopo, andarono a saccheggiare i magazzini dei De Cristofaro, degli Attard, dei Paoli, dei Modica e di tuttti gli altri benestanti. Infine entrarono nelle case, dove cominciarono ad appiccare il fuoco.

Nel pomeriggio ai rivoltosi si unì Antonino Vecchio e si videro confluire tutti i carbonari locali nella piazza di San Rocco. Vincenzo Natale era con loro. Questa volta, venne usato come pulpito il basamento del monumento.

“San Rocco ci proteggerà!” disse Vecchio. “Ma, ora dobbiamo fare come a Catania ed a Siracusa. Bisogna organizzare un nostro esercito e difenderci dai soldati che fra poco arriveranno. Viva la Sicilia libera!”

Poco più tardi, Antonino Vecchio stava nell’atrio del suo palazzo e registrava i nomi di quelli che volevano combattere nell’esercito rivoluzionario.

“Stamattina ho mandato Nunzio a vedere che succede a Catania” gli disse Vincenzo, che gli sedeva accanto.

Antonino posò la penna e si accese un sigaro. “Ha fatto bene: è un tipo lesto… di testa, di parola e di mani!”

Nessuno meglio di lui poteva dirlo, da quando Nunzio cercava di non pagar dazio per una certa coltellata col morto, scappatagli a Caltagirone e si era messo sotto la sua protezione. “E’ il capo dei miei campieri da un anno e da un anno vivo tranquillo.”

“Gli ho detto di non risparmiare sui cavalli, per farlo ritornare in serata.”

“E tornerà, stia certo.”

Nunzio, infatti, spuntò a notte fonda, sudatissimo e con appiccicata addasso un bel po’ di polvere della piana di Catania.

“E’ arrivato Del Carretto” disse subito.

“E’ finita!” sospirò Vincenzo.

“Soprattutto se si pensa che il re gli ha dato l’autorità dell’alter ego” aggiunse il campiere.

“Perciò, siamo morti” disse Antonino. “Ormai, ci resta solo la difesa ad oltranza.”

“A Catania non c’è stato neppure l’inizio di una difesa, a quanto pare!” osservò Vincenzo.

“E quindi?” chiese Antonino.

“Coi soldati di Del Carretto in vista vedo improbabile che a Scordia si compia ciò che a Catania non è neppure cominciato…”

“E quindi?” insistette il giovane.

Vincenzo si grattò il mento, come sempre, quando gli capitava di riflettere.

“Bisogna trattare” disse.

Il marchese Francesco Saverio Del Carretto era reputato il ministro più duro del regno. Del resto, i fatti che infiammavano la Sicilia orientale erano tali, da non lasciare spazio alle pazienze della diplomazia. Naturaliter, quindi, il re gli aveva dato i pieni poteri dell’alter ego, col compito di stroncarli sul nascere.

Dopo alcuni giorni di feroce repressione attuata, prima a Catania e poi a Siracusa, ora veniva a Scordia con un battaglione di 200 uomini. Consigliata da Vincenzo, la baronessa Dorotea Majorana decise di andargli incontro. Ella non aveva i sentimenti eversivi del figlio. Le idee della sua famiglia di origine ne facevano una lealista nei confronti dei borboni. Anzi, aveva conosciuto personalmente (ed apprezzato) Ferdinando II nei giorni in cui questi era stato ospite nella sua tenuta di Linziti. Ma, era pur sempre una madre e per amore di Antonino andava a chiedere clemenza.

“Riuscirò a farmi ricevere dal marchese” disse la baronessa a Vincenzo, appena la carrozza prese la strada sterrata che portava a Lentini, dove stavano acquartierati i borbonici. “A costo di darmi fuoco davanti al suo alloggiamento.”

“Non ce ne sarà bisogno. E’ troppo gentiluomo per rifiutarsi di ascoltare una signora. Eppoi, ho già mandato Nunzio a portare una mia missiva al suo aiutante di campo.”

Dorotea stette pochissimo a rifletterci sopra. “Non so se la sua è stata una scelta felice. Ma, forse non c’era altra soluzione… forse. Se, però, la rete delle sue amicizie funzionerà per farmi parlare con Del Carretto, voglio che al momento del colloquio io sia da sola.”

“Non so se…”

“No, don Vincenzo! Vede, ora non si tratta più di politica. Ora è una madre che lottta per il figlio. Sono sicura che i miei argomenti saranno più efficaci!”

Tutto, infatti, funzionò alla perfezione. Del Carretto, in fondo, era un galantuomo. Più che ai ragionamenti, era sensibile ai sentimenti. Quelli della famiglia, innanzitutto.

“Mi ricorderò di meno della metà dei delitti in cui è implicato suo figlio” disse a Dorotea. “Un esempio lo devo dare, ma prometto salva la vita, a lui ed ai cittadini di Scordia, se si sottometteranno.”

“Resterò io come ostaggio, marchese” disse Dorotea, “a garanzia del nostro patto.”

“Scherzate, signora?… Io non sono un carbonaro… Io non temo gli agguati… perché non li penso neppure!”

Fece un galante baciamano a Dorotea e, guardandola negli occhi, per la prima volta le sorrise. “Ah, baronessa! Se le capitasse d’incontrare don Vincenzo Natale, ditegli che non merito il disprezzo che dice di provare per me. Non vedo l’ora di tornare a leggere i suoi scritti. Ma, non quelli che parlano di politica.”

Quando, a notte fonda, Vincenzo e Dorotea rientrarono a Scordia, la famiglia dei Vecchio, accompagnata dai campieri, andò di strada in strada, a convincere tutti a non resistere al marchese Del Carretto.

L’indomani i borbonici si acquartierarono nello spiazzale del convento. Antonino Vecchio si presentò sottomesso, riuscendo a cavarsela con una condanna ad appena otto mesi di carcere. Altrettanto lievi furono le condanne degli altri ribelli. Del povero Sancatirinaru, linciato per l’isteria di una donnetta, nessuno si ricordò più.

Tornata la notte, Vincenzo e Franca ripartirono per Militello. Fu un viaggio terribile, per i forti disturbi che la donna cominciò ad accusare.

“Ha il colera!” capì Vincenzo.

Nella carrozza, illuminata dalla luna piena, vide il volto di Franca madido di sudore, vide i suoi vestiti indossati troppe volte, vide le sue mascelle che l’età aveva appesantito, vide agli angoli degli occhi un convergere di sottili rughe.

Sentì di amarla come non l’aveva amata prima e se la tenne stretta al cuore, baciandola ripetutamente, incurante d’ogni pericolo di contagio. Non pianse. Si erano amati senza che nessuno dei due avesse mai pianto.

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Giuseppe Regaldi e la letteratura carbonara siciliana

Dopo i moti, con monotona ripetitività, vennero le repressioni poliziesche. Coi primi di settembre, perciò, Vincenzo andò a nascondersi nella borgata periferica di Zia Lisa, poco lontano da Catania.

Anche la rete carbonara entrò subito in azione e si fecero arrivare al re Ferdinando II le suppliche dei ricercati dalla polizia. Per Vincenzo, il tramite era la solita famiglia Gemmellaro, nonostante anch’essa fosse compromessa nei fatti di Catania.

“Ho ricevuto” scrisse Carlo Gemmellaro, il 19 settembre, “un secondo avviso di starmi in Catania, pronto a qualunque ordine di partire per Napoli, e ho firmato un verbale della polizia in cui si dichiara che sono presente. L’Intendente è stato redarguito, cred’io, dal maresciallo Del Carretto, per avere permesso che li 14 individui della sedicente giunta non si fermassero in Catania, e quindi ha dovuto sollecitare nuovamente li suddetti. Il legno che dovrà portarli sarà uno dei vapori, per quanto si dice, e sabato arriverà, e ognuno sarà avvertito d’imbarcarsi senza perdita di tempo. Intanto, sino a ieri sera, non erano presenti in Catania che sette individui, senza contare voi; degli altri sette non si sapeva nulla, ma Valdisavoja era ancora in Nicolosi e Carcaci in Catania. E voi come farete? Venite in Catania? Chi può consigliarvi a una risoluzione in questi tempi? Sebbene io fossi dell’avviso che tanto vaglia essere in Catania quanto alla Zialisa e in tutti i contorni della città, pure non vorrei persuadervi ad entrare. Ma temo che dovrete farlo per forza quando si tratterà di partire, perché senza dubbio vi sarà qualche rassegna, qualche consegna, passaporto e che so io. In ogni altro tempo sarebbe stata una divertita: finalmente saremo 14 persone conoscenti ed amiche dirette per la bella Napoli; ma durante il colera!”

In occasioni del genere, il migliore alleato dei persecutori è il bisogno di soldi dei perseguitati. Ecco perché, in una missiva successiva, Carlo Gemmellaro gli insinuò l’idea del rientro. “Trovo difficoltà a trovare il denaro per la vostra cambiale. Che consigliarvi per vostra stazione? Non potrei che replicarvi quanto vi avevo detto. A poco a poco venite a prendere l’aria, come si dice, Dove adesso abitate non credo che siate tanto in sicuro. Del resto conducetevi come il vostro cuore vi detta.”

La situazione parve più grave verso il 20 novembre. More solito, dai Gemmellaro (questa volta da Caterina, moglie di Mario) arrivò una lettera. La poveretta, evidentemente, aveva poca confidenza con l’ortografia e la morfologia italiana. Ma, di certo il suo carattere non difettava, per quel che concerne la generosità. “Signor D. Vincenzo Natale, il cancileri di la pulizia è venuto a dire di trovarsi pronti, ma non ha detto quando si deve partire; perciò V. S. credo che divi viniri in mancabilmenti a presentarsi.”

Donna Caterina non sapeva che già Vincenzo aveva fatto tesoro del messaggio mandatogli dal marchese Del Carretto, per mezzo di Dorotea Majorana. Egli aveva, quindi, preso i giusti contatti. Ora cercava il modo di tranquillizzare sua maestà il re Ferdinando II sul fatto che i suoi progetti futuri erano di carattere soltanto letterario. Il tramite era il cugino napoletano Francesco Marcenò ed a costui il nostro protagonista si rivolgeva, fiducioso del successo, con una lettera datata 23 novembre. “Potete sollecitare una risoluzione del governo, che chiuda ogni strascico delle tristi vicende dell’agosto scorso, tanto più che l’alto Comm.° Delcarretto si ricordò in Messina delle mie istanze a voce ed in iscritto, fattegli da Catania e manifestò la certezza di non essere io mai intervenuto e mi permise che avessi soggiornato in patria benché sinora tacitamente mi veniva impedito.”

Bisognò attendere il 1839 per avere una pubblicazione di Vincenzo. Purtroppo, fu l’elogio funebre dell’amico Mario Gemmellaro. Quello stesso anno, però, apparve pure il primo nucleo del suo capolavoro, da cui attese inutilmente la consacrazione di una cattedra all’Università di Catania, l’Introduzione ai Discorsi sulla storia antica della Sicilia.

Con quest’opera rientrarono dalla finestra le antiche diffidenze politiche nei suoi confronti. Le difficoltà, questa volta, vennero da un osso ben più duro dello stesso Del Carretto: la censura.

“Le belle fatiche dei saggi moderni” scrisse Vincenzo a Franca Reforgiato, moglie del fratello Felice, “in Sicilia arrivano ben tardi e a stento, e talora non mai. Chiusi come siamo dal mare e dalla politica, manchiamo qui, di aiuti; anzi delle più ordinarie agevolazioni agli studi. A questo si aggiunge la censura, se, come mi ha scritto Carlo Gemmellaro, pare che il revisore di Catania trovi due fortissime difficoltà sul mio manoscritto. La prima difficoltà sta nel fatto che, dalle nazioni che seguirono l’idolatria, non vengono eccentuati gli ebrei, popolo di Dio. La seconda, la più difficile da superare, consiste nel principio di tutto il mio discorso, cioè nell’avere sostenuto che la prima causa delle antiche credenze religiose è il timore della morte. Mi si chiede di rimediare, aggiungendo apposite note. Ma, è come dire che a Catania uno scrittore non ha il libero arbitrio! Eppoi, non c’è parte del mio manoscritto che non si appoggi sull’autorità di qualche padre della Chiesa. Io spiego come nacque la religione dei primitivi. Che c’entra la vera religione? Che logica c’è nel pretendere che la falsa religione avesse lo stesso principio della vera? Sarebbe come dire che la verità scaturisce dalla stessa fonte della menzogna. Proporrò di chiarire il concetto in una breve introduzione. Se il censore si accontenterà, bene. Altrimenti, non è obbligatorio stampare il libro a Catania.”

Ormai, nei mesi che passava a Militello i suoi dialoghi erano prevalentemente con la cognata. Trovava la sua conversazione non banale nel gusto, anche se un po’ scarsa di letture. Ne ebbe prova, quando il tarlo distrusse il vecchio studio di don Alfio ed insieme scelsero il nuovo arredamento.

“Ti consiglio certi straordinari mobili che ci vengono dalla Francia di Luigi Filippo. So che anche Carlo Alberto ne ha ordinato per la reggia di Racconigi” disse Franca.

“Se vuoi sapere come la penso io” brontolò Vincenzo, “credo che il buon gusto sia finito con Napoleone. Di quei manufatti, amo i richiami alle antichità etrusche, greche, romane, orientali. L’ornamentazione egizia, per esempio, rinverdita dal grande Piranesi, produce risultati grandiosi.”

“Non essere il solito orso” rise Franca, “qualche linea curva barocca, qualche allungamento gotico, dà grazia e piacevolezza all’ambiente.”

Data la forte personalità di ambedue, si arrivò a una soluzione di mezzo. Le vetrine dei libri, pur squadrate e senza dorature, secondo i dettami dello stile siciliano, ai lati erano abbellite da paraste con grossi intagli a spirali e da busti decorativi sulle cimase. Di contro, ad alleggerire tanta pesantezza lungo le pareti, c’era il tavolo di stile napoletano, in piuma di mogano rosso, con fregio e protomi di legno scolpito e dorato.

Col passare del tempo, poi, più di ogni altra cosa, Vincenzo finì per apprezzare l’aria interessata di Franca Reforgiato nell’ascoltarlo. Il che, fra l’altro, la rendeva ben diversa di quello zotico gigante del fratello Felice.

Un po’ meno, per la verità, gli piacevano certi entusiasmi mazziniani a cui lei si lasciava andare. Ma, glieli perdonava, perché venivano dal fatto che la cognata faceva di tutto per assomigliare alla perduta Franca Faraci. Per anni, ella l’aveva ammirarata come soltanto i provinciali sanno ammirare. Adesso, romanticamente, pensava di averne ereditato il ruolo di musa ispiratrice.

Erano, quindi, diventati amanti quasi con la naturalezza con cui si svolge una sequenza logica. Cosa ben diversa in paese, dove c’era soltanto un gran sussurrare ed un intrecciarsi di sorrisi, quando passava don Felice Natale.

Nel 1840 per Vincenzo, ai fastidi della censura, tornarono ad aggiungersi quelli della polizia. Probabilmente, alla base c’erano gli abbozzi di due opere di natura velatamente politica, che avevano finito per circolare più del desiderato, Frammenti di un’opera sul regime costituzionale in Sicilia e (chiedendo scusa per lui, dato il titolo lunghissimo) Discussione sulla scienza degli antichi legislatori e di Caronda, a differenza dei moderni – della influenza delle leggi e dei governi – della politica di Aristotile – di Androne catanese inventore della mimica – dell’epoca di Belle Arti in Sicilia; e ciò in rapporto alla storia della letteratura.

Arrivò, infatti, a Militello un giudice palermitano, che lo chiamò, per dirgli che aveva ordine dall’Intendente di sorvegliarlo. Secondo la descrizione che poi ne fece a Carlo Gemmellaro, egli era un giovine a 27 anni, di poca esperienza e di minor giudizio, e altrettanto impetuoso,

“Fate il vostro dovere” gli disse Vincenzo.

“Vi si addebita che voi spargete in luoghi pubblici delle massime contro lo Stato.”

“Falso di falso, poiché per mio antico sistema non mi trovo mai in luoghi pubblici, né in Catania, né in Militello, dove non vi sonno neppure caffè di conversazione, e tanto meno compagnie.”

“Bisogna intanto che, per effetto di questa sorveglianza, non vi allontaniate da Militello senza permesso, che non vi troviate in nessuna compagnia, e che siate la sera di buon’ora in casa.”

“A sessant’anni quasi, io non dovrò vedere le mie campagne e curare i miei interessi? E dovrò stare in confino? La mia canizie richiede quiete, e vi ho diritto, per la mia vita da tanti anni a quiete conformata. Nel ’37 io non volli accostarmi a Catania, benché l’occasione era opportuna ed avevo un gran campo per operare. Sarebbe da ridere se io, in questi tempi di stretta vigilanza, voglia fare qui ciò che non volli fare a Catania. Mi mancherebbe ogni elemento con questa povera gente di campagna.”

Ad esser sinceri, il giovane giudice palermitano non sbagliava nel diffidare di Vincenzo. Egli, infatti, continuava a mantenere stretti contatti con gli ambienti delle sette sgrete.

Nel 1843, per esempio, Vincenzo conobbe il poeta, saggista ed agitatore politico ligure Giuseppe Regaldi, che poi fu molto amico di Giosue Carducci ed insegnò nelle università di Cagliari e di Bologna. Questi viaggiava moltissimo, in Italia e all’estero, non senza approfittarne per fare propaganda carbonara.

Il Regaldi era già venuto ad Acireale nel novembre 1842, ospite di Leonardo Vigo. Da costui aveva appreso la storia di donna Aldonza Santapau, innoccente sposa medievale, uccisa dal marito geloso, il barone Antonio Piero Barresi. Vivamente colpito nella fantasia, lo scrittore voleva visitare i luoghi della tragedia. A questo fine, Vigo aveva indirizzato una lettera a Vincenzo, che però in quel periodo si trovava a Catania.

Dispiaciuto di non poter far da guida di persona, egli, in risposta, aveva proposto alcuni suoi amici pronti a sostituirlo. “Essi indicheranno molti avanzi e vaste ruine del castello dei cessati Signori, e precisamente della cisterna e della porta segreta, donde sortì il cadavere, ed ancora s’intitola della misera donna Aldonza. Il sito della sua occulta tomba tuttora si addita, e non può il riguardante non fremere alla vista di tanti atroci oggetti.”

In effetti, la visita aveva entusiasmato il ligure e ne era restata traccia nei suoi scritti. “Vidi Militello, ma non ebbi il piacere di conoscere di persona l’illustre Natale, che trovasi a Catania. Vi passai fausti giorni e trovai la cronaca desiderata e le tradizioni che forse daranno vita a qualche pagina durevole. Lessi diversi fascicoli stampati dal Natale e rimasi ammirato del senno, della erudizione e dell’eloquenza con cui scrive quel valoroso. Quanto scrisse di Militello è una vera gemma per le memorie Siciliane. Non così mi inchino a lodare i primi discorsi d’un’Istoria di Sicilia, che va pubblicando, i quali mostrano essere l’autore ornato di potente intelletto, ma non giungono a persuadere i lettori. Egli intende rinnovare l’istoria dei primi popoli, nelle epoche più remote, distruggendo le autorità dei Greci scrittori, annullando ogni notizia storica, che si può derivare dallo squarciato velo della favola. Poiché avrà dato crollo alle colonne, su cui è poggiata la verità storica dei vetustissimi popoli, quale altra testimonianza ci addurrà degna di fede? Egli, confidando liberarsi da una vana credulità, getterà i suoi lettori nella lotta dei pirronisti.”

Regaldi, insomma, pur nell’intento critico, era andato a cogliere la sostanza innovativa dell’opera di Vincenzo. Mettendo a confronto gli scritti degli antichi e i ritrovamenti archeologici, egli proponeva un modello scientifico di ricostruzione del passato. Si superavano in questo modo le frasi fatte ed i concetti acquisiti una volta per tutte. La testimonianza delle pietre stava alla storia, come la verifica sperimentale stava alla scienza.

Fra interrogatori di polizia e riunioni segrete, finalmente vide la luce a Napoli (tipografia Del Vecchio) buona parte dei Discorsi sull’antica storia di Sicilia.

Del resto, Vincenzo aveva ben presenti le implicazioni politiche del suo lavoro. Senza avere le pretese di eguagliare la ricchezza del romanzo manzoniano, esso si collocava fra i grandi libri, che in Europa facevano coincidere la storia con le identità nazionali.

Ne mostrò una chiara coscienza egli per primo, in una lettera all’amico Francesco Marcenò. “A me non conviene precipitare l’opera per un’aura passeggera; né io in questa mia età posso accontentarmi di una semplice erudizione che riguardasse gli affari antichi, senza tenere un occhio sopra l’utilità dei tempi correnti. Laonde vedrete trattata la storia greca, che ne è capace, con altre mire, che dei soli prischi tempi. Basta questo solo pensiero per farsi conoscere che io non devo affrettarmi, per tutti i riguardi tenendo presente la nota massima: nisi utile est quod facimus, stulta est gloria.”

Non mancarono, perciò, i consensi, a partire da quello del fedele Carlo Gemmellaro, per continuare col professor Herman dell’Università di Gottinga e col professor Mortellaro.

Questi, in particolare, il 27 gennaio 1841 protestava col dottor Felice Laganà. “Io non so come mi abbiate fatto il torto che io ignorassi i lavori letterari del Chiarissimo Natale.”

Don Felice Laganà era un medico di grandi studi, da poco entrato nella cerchia dei carbonari militellesi. Con lui, a formare la vendita locale, c’erano l’avvocato Salvatore Majorana Calatabiano, gli esponenti delle famiglie Reforgiato e Cirmeni e moltissimi professionisti. Vincenzo, ovviamente, ne era il Gran Maestro. La setta s’ingrossava in fretta perché, alla lotta contro la famiglia borbonica dei Majorana Cocuzzella, si erano aggiunte le battaglie per la riapertura della chiesa di Santa Maria della Stella.

I Discorsi sugli uomini insigni di Militello, erano stati, in tal senso, una specie di manifesto politico del partito mariano. Ora, in un contesto più ampio, Vincenzo riproponeva il concetto con i Discorsi sull’antica storia di Sicilia. In ambedue, la letteratura era il manifestarsi del patriottismo, in perfetta corrispondenza col sentire romantico.

Negli stessi anni un’identica concezione animava il lavoro di Michele Amari, che dopo aver pubblicato nel 1841 Un periodo delle storie siciliane del secolo XIII, in cui erano chiari i paralleli tra i vespri siciliani e la lotta ai Borbone, si recò in Francia per iniziare la monumentale Storia dei musulmanni di Sicilia.

Forse, perciò, si farà giustizia del genio di Vincenzo quand’egli verrà posto accanto a Michele Amari, del quale, d’altro canto, era estimatore. Lo palesò in una lettera all’arabista Martorana, pur non lesinando le lodi agli studi del Gregorio intorno allo stesso argomento. Scrivendola, gli tornò la nostalgia per la giovanile passeggiata col padre e con Giuseppe Tineo. “Desiderava io sin dalla prima gioventù il periodo Saracenico della storia nostra, e più me ne accese la collezione delle Memorie Arabiche dell’Isola per lo studio del sommo nostro Gregorio. E che ultimamente ha saputo ampliare e mettere in ordine per quanto era possibile nel difetto dei manoscritti originali. Di questo bel dono resto io dunque obbligatissimo al mio signor Presidente, siccome quello che io non avevo lasciato di leggere, ma di volo e per poco tempo, secondo mi fu permesso; talmenteché potrò ora a mio comodo profittarne. E se mai lo studioso Amari, come fa sperare, giungerà a darci la Biblioteca nostra Arabica, anzi mi dicono di avere anco ritrovato dei nostri poeti Arabi, tanto più darà risalto all’ardire di questa prima di lei opera, che prevenne tali ricerche.”

Del resto, la connessione tra la scrittura dei fatti storici e l’impegno politico era chiara anche a Michele Amari. In condizioni simili a quelle del Gregorio per l’assoluta mancanza dell’arabico infino ad età matura, e del resto molto diverse, io esule e povero, ma raccomandato a’ dotti da una persecuzione politica, e capitato in un gran centro di studi ed in mezzo ad una ricchissima collezione di codici arabi, io ripigliava il lavoro della “Rer. Arab.” allo scorcio del 1842. L’ho proseguito finora con interruzioni non brevi, cagionate dalle nostre pubbliche vicende; e spero di continuarlo finché io viva.

Così, il 30 luglio 1844, Vincenzo, portato a termine il primo volume dei suoi Discorsi, si presentò all’Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere di Parigi. “Se la Storia greca rimarca il periodo glorioso della Sicilia, per trattarsi debitamente era necessario stabilire ciò che trovarono i Greci in Sicilia; e ciò che lasciarono nella loro patria. Su questo divisamento mi è sembrato indispensabile il dover discutere il periodo dei Barbari: cioè l’epoca anteriore ai Greci, che è il soggetto di questo 1° volume. Dopo darò altri due volumi del periodo greco, sulle tracce volute dall’Accademia: cioè coordinando insieme tutti i passi dei Classici, onde la fede delle notizie resti a loro e niente a me.”

Oggi molto dell’opera di Vincenzo si trova conservata ad Acireale. Lì, nel 1914, andò a studiarlalo storico Giuseppe Majorana. Una mattina di luglio mi recavo ad Acireale, nella biblioteca dell’Accademia Zelantea (alla quale erano stati venduti gli inediti e l’epistolario del Natale), al fin di rintracciare i manoscritti inediti di Vincenzo Natale; e quivi l’ospitale accoglienza del signor Raciti bibliotecario mi die’ modo di sodisfar tutta la mia sete di sapere e vedere.

Disgraziatamente, non resta molto altro. Qualche informazione ci viene da una paginetta di Vincenzo Raciti Romeo, bibliotecario dell’Accademia Zelantea. Riguardo poi ai manoscritti del Natale, posso riferire, che dietro accuratissimo esame, son giunto al risultato di distinguere tra le scritture del II volume dell’Antica Storia della Sicilia le copie originali destinate alla pubblicazione, e quelle che erano semplicemente le prime bozze corrette e postillate dallo stesso Scrittore.

I manoscritti che dovevano completare la storia della Sicilia antica sono i seguenti:

  1. Discorso I (incompleto, carte 16) – sull’origine dei greci e con quali popoli essi crebbero e si moltiplicarono, principalmente Lelegi,Curati, Traci, Pelasgi ed altri;
  2. discorso II (completo, carte 25) – origine della lingua greca e dei suoi rapporti alla Pelasgica ed altre lingue Italiche; e più ancora alla Latina, così dei greci dialetti, non che del greco alfabeto – bassa epoca della scrittura presso i greci – le cause quindi che sollevarono lo spirito greco sopra gli altri popoli dell’antichità;
  3. discorso III (completo, carte 17) – stato della Grecia al tempo che per Sicilia partirono le greche colonie e modi di trattare la storia antica, si degli scrittori graci, che dei moderni;
  4. discorso IV (incompleto, carte 19) – venuta dei Greci in Sicilia ed origini delle città loro, in ordine alla cronologia ed ai dialetti;
  5. discorso V (incompleto, carte 7) – governo primiero dei greci arrivati nell’isola e delle loro colonie.

39

1848, anno dei portenti”: il manifesto di Francesco Bagnasco

Nel 1848 il comitato centrale della rivoluzione non era ancora scomparso, pur dopo tanti moti falliti. Anzi, si potrebbe dire che la sua azione andava maturando, concentrandosi nei tentativi di rovesciare il sistema borbonico. Persino Palermo e Messina avevano superato l’antica rivalità, tanto che nel 1842, nei festeggiamenti per il ritrovamento delle reliquie di San Placido, la città dello Stretto aveva accolto fraternamente la delegazione palermitana.

Allora, come nella rivoluzione del ’20, ricominciò il gioco delle date fissate per l’insurrezione.

“Dopo una visita del marchese Livio Zambeccari” comunicò, infatti, Francesco Crispi nella riunione dell’alta vendita di Catania, alla quale era presente Vincenzo. “Si è deciso che Messina insorgerà il 21 agosto 1843.”

Alla fine della riunione, quando rimasero soli, Vincenzo si rivolse a Crispi.

“Spero che questa sera non abbia comunicato la data anche alla polizia” gli disse.

“Alla polizia, certamente no. Anche perché il 21 non succederà nulla. Si vuole che con questo annuncio qualche canarino, se c’è, canti e venga allo scoperto.”

“Voi mazziniani sarete sempre un mistero per me.”

“Per me, invece, voi carbonari all’antica non lo siete affatto… e neppure per il Borbone, visti i risultati. Tutto sommato, la pensate ancora come Caramanico: ottima testa, ma lontano dai sentimenti del popolo!”

“Anche quando il popolo ama i tiranni? Contro la repubblica partenopea c’era il popolo a combattere col cardinale Ruffo.”

“Questo perché il popolo diffida degli amici portati dagli eserciti stranieri. Non vi hanno convinto al riguardo i ragionamenti di Vincenzo Cuoco?”

“No. La carboneria nel ’20 ci ha provato, a parlare al popolo, ed ha fallito lo stesso.”

“L’errore era pensare che le parole libertà e costituzione possano avere un senso, se la gente muore di fame. Diamogli, invece, la speranza di uscire dalla miseria. O, almeno, sollecitiamone l’orgoglio…”

“Già! Me lo dice anche il mio giovane amico Salvatore Majorana Calatabiano…”

Ebbe, poi, uno dei suoi rari sorrisi, guardando Crispi. “Voi dovreste conoscerlo. O, sbaglio?”

“Ne conosco bene l’intelligenza e la sagacia politica. Gli ho parlato, qualche tempo fa. Mi accennava a una certa querelle parrocchiale a Militello…”

“Come no?! Lì c’è una vera e propria guerra per la riapertura della parrocchia di Santa Maria della Stella.”

“Gli ho consigliato di trarne profitto… dalla parte dei mariani, si capisce. Gli orgogli campanilistici sanno far miracoli rivoluzionari.”

“E dovremmo combattere il Borbone con gli orgogli campanilistici?”

“Ogni città ha un suo motivo per combattere il tiranno. Dobbiamo coglierlo e farlo nostro. Il programma di Mazzini è tutto qui. Abbiamo il compito di essere l’avanguardia che comincia il combattimento, per dare al popolo l’occasione di seguirlo. Perciò, probabilmente l’insurrezione non scoppierà esattamente il 21 agosto. Scoppierà quando avremo creato le giuste aspettative.”

“Ho paura che il suo Mazzini combinerà qualche disastro.”

“O ci farà passare alla storia. Dipende da noi.”

Come Crispi aveva previsto, la polizia borbonica si fece subito viva, per reprimere ogni intenzione ribelle.

La rivoluzione, di conseguenza, venne rimandata all’ottobre 1843 e poi al marzo 1844. Furono arrestati alcuni liberali, come Agostino Plutino di Reggio Calabria e l’agitatore e finto fotografo siciliano Giacomo Antonini. A Cosenza morirono fucilati i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera.

Nel 1847, dunque, si era ancora al semplice gesto di gettare nella carrozza di Ferdinando II, in visita nell’isola, una copia della Protesta del popolo delle Due Sicilie di Luigi Settembrini (con il concorso del siciliano Giovanni Raffaele).

Il 14 aprile di quello stesso anno, con il linguaggio brioso ed allusivo dell’amico Carlo Gemmellaro, anche Vincenzo Natale veniva mobilitato dalla vendita carbonara di Catania. “Che mai è avvenuto quest’anno al sig. D. Vincenzo Natale? Passò l’inverno, e in fine la primavera, e non si tratta di sentire ch’egli voglia risolversi a rivedere il suo appartamento, da dove sono venute alla luce tante belle produzioni! Assicurarsi almeno se i topi hanno risparmiato i candelieri di stagno!”

Alla fine, il comitato centrale rivoluzionario di Napoli stabilì che nel settembre 1847 insorgessero Messina e Reggio. Andò male per il mancato coordinamento dei tempi. La rivolta divampò prima a Messina e, quando i borbonici erano già riusciti a soffocarla, fu la volta di Reggio Calabria.

Per risposta, Ferdinando ordinò lo stato d’assedio. Ma, fortunatamente, i tempi erano mutati. I piemontesi Cesare Balbo e Camillo Benso conte di Cavour apparvero sulla scena della storia italiana, rivolgendogli un’esortazione alla clemenza.

Apparentemente, il Borbone tenne duro; ma presto licenziò i ministri reazionari Del Carretto e Santangelo e fece uscire dal carcere alcuni liberali.

Non gli servì molto. La sera del 27 novembre 1847, al Teatro Carolino di Palermo festeggiarono l’insediamento della Consulta per il governo dello Stato pontificio, voluta dal papa liberale Pio IX (che non restò tale).

“Viva Pio IX! Viva la Lega italiana!” si gridò.

Le manifestazioni continuarono il 28 ed il 30 novembre nella piazza della Cattedrale, nonostante la polizia li avesse proibite.

A dicembre fu diffusa la Lettera di Malta di Francesco Ferrara, dove venivano stabiliti i due punti-chiave del programma rivoluzionario: indipendenza da Napoli e federazione italiana.

In Sicilia la tensione divenne autentica rivoluzione nel 1848, dando avvio a quello che passò alla storia come l’anno dei portenti.

L’annuncio spuntò il 9 gennaio, con un proclama dello scultore Francesco Bagnasco (a cui Natale e la sua cerchia militellese erano vicini dal 1818, quando il padre dell’artista palermitano, Girolamo, aveva scolpito la statua del SS. Salvatore).

Siciliani!

Il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni. Ferdinando tutto ha sprezzato; e noi, popolo nato libero, ridotto fra catene nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i leggittimi diritti?

Alle armi, figli della Sicilia! La forza di tutti è onnipotente: l’unirsi dei popoli è la caduta dei re.

Il giorno 12 gennaio 1848 segnerà l’epopea gloriosa della universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quei siciliani armati che si presenteranno a sostegno della causa comune, a stabilire le riforme e le istituzioni conformi al progresso del secolo, volute dall’Europa, dall’Italia,, da Pio.

Unione, ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le autorità, e che il furto si dichiari tradimento alla causa della patria, e come tale sia punito.

Chi sarà mancante di mezzi sarà provveduto.

Con giusti principi, il Cielo seconderà la giustissima impresa.

Siciliani, alle armi!

Quella stessa mattina apparve un altro proclama dal titolo Ultimo avvertimento al tiranno. Il giorno dopo ne spuntò un terzo. Finalmente, il 12 i palermitani si riversarono nelle strade e uno di essi, Vincenzo Buscemi, sparò la prima fucilata.

“E’ fatta, cittadini! Cacciamo il tiranno! Sicilia libera e indipendente!”

Nel frattempo, in diversi punti della città l’abate Vito Ragona, il sacerdote Luigi Venuti, Giuseppe La Masa e Paolo Paternostro incitavano alla rivolta. Si improvvisò la prima bandiera tricolore e si distribuirono le coccarde preparate nella notte dalla sarta Santa Astorina. La Masa redasse un altro proclama, si costituì il comitato rivoluzionario e si diede il via agli scontri.

Alla fine della giornata i ribelli piansero un caduto in rua Formaggi, Pietro Omodei. I borbonici, invece, contarono dieci morti, di cui non ritennero necessario tramandare i nomi.

Il maresciallo Vial ed il generale De Maio, comandanti delle truppe regie, di fronte ad un simile precipitare degli eventi, non seppero far altro che ordinare alle truppe di rientrare nei loro alloggiamenti, aspettando che la buriana passasse.

Il giorno seguente, però, a dispetto della stagione, fu ancor più caldo. Durante gli scontri, per di più, Vial e De Maio constatarono che i soldati non avevano alcuna voglia di impegnarsi troppo. Per loro fortuna, arrivarono in soccorso da Napoli 5.000 uomini a bordo di otto vascelli da guerra, al comando del maresciallo De Sauget e del fratello del re, il conte d’Aquila.

Si prese a bombardare Palermo. Ma, la città non si arrese.

Al conte d’Aquila non restò che tornare a Napoli, per fare rapporto e ricevere ulteriori ordini. A complicare le cose, per di più, nell’esercito borbonico c’erano alcune diserzioni.

Ferdinando II tentò di correre ai ripari concedendo l’autonomia alla Sicilia. Mossa inutile, visto che i buoi ormai erano scappati dalla stalla.

I siciliani, questa volta uniti e determinati a vincere, il 4 febbraio finirono di liberare l’isola dai napoletani, regalando a Giuseppe Mazzini uno dei pochi sorrisi della sua vita. Siciliani, voi siete grandi! Voi avete, in pochi giorni fatto molto di più per l’Italia, patria nostra comune, che non tutti noi con due anni di agitazione, di concitamento generoso nel fine, ma incerto e diplomatizzante nei modi…

“Giusta il cartello di sfida a giorno fisso mandato alla monarchia borbonica” scrisse sul finire di marzo Francesco Bagnasco a Vincenzo, “Palermo è la generale meta patriottica. Venga pure lei, che questa Sicilia novella ha bisogno del vigore del suo pensiero e della prudenza del suo carattere.”

40

Giornalismo e attività parlamentare di Vincenzo Natale

Questa volta Vincenzo non esitò ed il 10 aprile era a Palermo.

“Eccomi arrivato” scrisse in un biglietto che mandò a Bagnasco. “Mi trovo qui come sbalzato dalla generale tempesta.”

“Ho letto e ammirato l’Osservatore. Dal vecchio giornalista non si poteva sperare altrimenti. Seguite che lo potete, e lo sapete. Servite chi ne ha positivo bisogno.”

Queste parole, il 24 maggio 1848, le scriveva da Catania un ammirato Ettore Fanoj. E non era il solo. A giugno, a Vincenzo arrivavano (un po’ perplessi, per ciò che concerne la puntualità) gli incoraggiamenti di Rosario Abbate, sempre da Catania. “Del vostro giornale ho fatto tre Associati, ma mi stranizza come non ne spedite più. Specificatemi il motivo per discaricarmi con gli associati.”

In effetti, la carriera giornalistica di Vincenzo, dopo i primi due numeri, venne resa difficile dagli impegni politici, dato che, il 25 marzo, si riuniva il parlamento siciliano. Due giorni dopo, il 27, veniva conferita a Ruggiero Settimo la reggenza della Sicilia, con tutte le prerogative regali nei limiti della Costituzione siciliana del 1812. Ai ministeri andavano alcune alcune conoscenze di Natale: Michele Amari alle finanze, Gaetano Pisano alla giustizia ed al culto, Pietro Lanza di Scordia all’istruzione e ai lavori pubblici.

Nella seduta parlamentare del 25, inoltre, su segnalazione del deputato di Catania Gabriele Carnazza, venne chiesta la nullità dell’elezione del deputato di Aci S. Antonio perché la commissione elettorale di quel comune aveva impedito che prendessero parte al voto gli elettori di Aci Catena, che su ragioni appoggiate da un atto del Parlamento del 1814 il Comitato generale aveva ammesso alle elezioni.

Molti anni più avanti, Gabriele Carnazza si ritrovò avvocato difensore dell’eterno nemico di Vincenzo, il barone Salvatore Majorana Cocuzzella, al processo in cui questi era accusato dell’omicidio del liberale militellese Francesco Laganà Campisi. Ma, in quei giorni rivoluzionari le cose stavano diversamente, se proprio il barone, eletto deputato nel collegio di Militello, votò in modo favorevole al suo concittadino.

Col suo intervento, infatti, Carnazza mirava a recuperare un seggio, per farlo assegnare a Vincenzo:

“Bisogna operare” disse ai colleghi, “a beneficio di un uomo dal glorioso passato di parlamentare, la cui dottrina ed il cui equilibrio daranno ulteriore prestigio a questa istituzione.”

La faccenda non richiese tempi lunghissimi (ma, neppure brevissimi), dato che nel pomeriggio del 28 giugno Carnazza poté appartarsi con Vincenzo, nel corridoio davanti all’aula parlamentare. “Nella seduta del 6 giugno si è fatta la seconda lettura della legge che faculta il comune di Aci Catena di continuare a godere del diritto di rappresentanza nel nostro Parlamento. Il voto favorevole è stato all’unanimità. Oggi, finalmente, è arrivato l’indirizzo di Aci Catena, dove si ringrazia la camera e si dichiara di aver scelto lei a rappresentare la città.”

“Avrei preferito essere il rappresentante di Militello. Ci sono vittorie, caro Carnazza, che non convivono bene. I Majorana sono sulla mia strada da troppi anni, per non pensare che la mia vittoria sarà vera soltanto con la loro definitiva sconfitta.”

“Il fatto che mi allarma è che li dica lei, tali truci proponimenti. Lei, don Vincenzo, ha la bella nomea di non sbilanciarsi mai.”

“Infatti! Il mio non è un proponimento. E’ un programma politico, almeno per Militello. Il professore Salvatore Majorana Calatabiano subisce le più atroci persecuzioni per la colpa di essermi amico. E troppi altri giovani gemono inascoltati sotto il peso di una tirannia più che decennale.”

Vincenzo venne ammesso nel Parlamento il 5 luglio e si distinse subito per una certa premura nel voler dare avvio alle riforme.

Il 31 luglio, per esempio, si votò lo scioglimento delle corporazioni dei gesuiti e dei liguorini. Ma, mentre parte della camera (Majorana Cocuzzella compreso) si mostrava restìa ad una loro espulsione dall’isola, Vincenzo intervenne appassionatamente per far votare l’immediata espulsione di tutti.

Il 6 settembre Vincenzo ripropose il suo vecchio progetto sulla istituzione di un Giurì, ossia dei giudici di fatto, in tutte le materie criminali, per i delitti politici e per quelli commessi a mezzo stampa. Era una piccola rivoluzione liberale in 37 articoli, poiché toglieva dalle mani di una chiusa corporazione, troppo spesso asservita ai potenti, il potere giudiziario, proprio dove era più facile l’esercizio della persecuzione.

“Il cittadino” disse, “non riposa sulla inviolabilità dei suoi diritti, se non quando è persuaso che la giustizia penale non potrà servire all’altrui vendetta, o favore, o ambizione: e questa persuasione può essere soltanto ispirata dalla istituzione dei giurati, i quali sono sottratti ad ogni influenza superiore, sono scevri da ogni spirito di corpo ed animati sempre dall’interesse comune a tutti i cittadini, cioè di protezione all’innoccente e di punizione ai malvagi.”

Vinse anche questa battaglia, dato che ottenne la costituzione di una commisione ad hoc, della quale ovviamente fu eletto membro.

Il nostro parlamentare, però, non ebbe il tempo di battersi per altre riforme di carattere generale. Molte battaglie, infatti, furono combattute anche per far approvare un aumento del dazio sul vino, da tarì uno a tarì quattro, da versare al comune di Aci Catena, fino a tutto il 1849. Per questo il consiglio civico comunale gli mandò una lettera di ringraziamento.

Ebbe, inoltre, occasione di aiutare la vedova del tenente colonello don Carmine Lanzarotti, la triste vicenda del quale fu narrata dal deputato di Siracusa, Moscuzza. “Il 3 settembre scorso il popolo di Siracusa, saputo che il nemico era alle porte di Messina, istigato dai rancori di alcuni, credette che il Lazzarotti stesse per tradire, se già non l’aveva fatto. La situazione si volse in tragedia quando l’innoccente venne ucciso, per essersi rifiutato di far parte del Comitato di difesa. Si istruisca, quindi, e tosto, il processo, ma non si leda l’onore del popolo siracusano. Io credo che, se l’ottimo cittadino signor Lazzarotti fosse stato più accorto, quel fatto atroce non si sarebbe al certo avverato.”

“Non si può mai giustificare il linciaggio”disse il deputato Vigo Calanna di Acireale. “Soltanto se gli assassini saranno processati, il popolo di Siracusa serberà intatto il suo onore,”

“Al momento, però” disse Vincenzo, “il nostro primo compito è quello di rendere giustizia ad una vedova. Il processo, poi, eventualmente chiarirà i lati bui di questa dolorosa storia. Ora propongo una pensione vedovile di dieci onze mensili a favore della signora donna Maria Lanzarotti, con l’obbligo di contribuire per tre onze al mese al mantenumento della sorella dello sfortunato tenente colonnello.”

Si votò, a quel punto, sulla proposta di Vincenzo, che venne approvata. E di quell’esito, la sera stessa, il militellese deputato di Aci Catena dava comunicazione all’amico Gaspare Gambino di Catania. “Lei mi comunicò che il Lanzarotti non volle mai servire il governo borbonico e viveva della sua professione di ingegnere e che il 1842 gli fu di assoluta rovina. So che nella rivoluzione ebbe da M. Stabile missione in Messina, quindi fu mandato a Siracusa. Egli, perciò, fu vittima della più cruda malvagità che seppe eccitare il furore del popolo. Il suo parente capitano d’arme, D. Giocchino Gambino, procurò di salvarlo, e in effetti lo avea salvato, mettendolo in carcere, ma col tradimento lo fecero sortire quasi subito, tanto che il Gambino si portò a chiamare la forza ed il resto fu conseguenza. Oggi ho potuto soltanto porre il riparo che si poteva alla tragedia determinata dall’irragionevolezza della folla. Sono gli ordinati atti di governo e non i sommovimenti popolari a far progredire la storia.”

I rapporti epistolari tra Vincenzo e Gaspare Gambino erano nati dal compito che questi si era assunto di comunicargli il clima politico catanese di quei mesi. Per esempio, l’11 settembre (data terribile per la città di New York, 153 anni dopo) questi gli pennellava un quadro che tendeva al nero. “Saprà certamente lo stato delle cose in Messina. Qui tutto il popolo è in armi, anche i ragazzi corrono avanti con piccole picche, l’entusiasmo è incredibile. L’evento di Messina, lungi di portare scoraggiamento, ha portato una maggiore straordinaria energia; tutti, al suono della campana della cattedrale che suona a stormo, corrono all’armi, chi con fucili, chi con lunghe micidialissime picche. Le strade sono barricate; molte pietre sono buttate in tutte le larghe e lunghe nostre strade. La causa di tutto ciò è stata la vista di tre vapori con due fregate napoletane che si vedono in questo mare, ma fino a questo momento che son le ore 24 non si sono avvicinati, tuttoché siano fin da questa mattina a vista. Ma le squadre sono venute dai paesi di questi contorni.”

Esattamente due mesi dopo, l’11 novembre, Gambino si rifaceva vivo. “Ieri fu sontuosa e magnifica la solita processione dell’Immacolata. La guardia nazionale e tutta la truppa di linea in gran tenuta marciavano dietro la bara con un contegno militare veramente ammirabile.”

Il 12 aprile 1849, però, anche a Catania era tutto finito. Ruggero Settimo ne dava il triste annuncio col solito proclama. Siciliani! La città di Catania è caduta dopo fiera lotta, una parte delle milizie sosteneva l’accanito combattimento, mentre l’altra marciava a soccorrerla; sventuratamente non giunse a tempo! L’onore delle armi è salvo, il Popolo di Catania ha versato il suo tributo di sangue, il nostro esercito si ricompone, e minaccia nuove offese! Dalle ore 13 del Venerdì Santo sino all’alba del sabato, la città fu teatro di reciproche stragi; la feroce soldatesca incrudelì contro le donne, i vecchi, i fanciulli, portando a piene mani la morte e lo incendio, violò chiese e monasteri. Cristo vendicherà le profanazioni commesse nel giorno del suo martirio in nome del superstizioso tiranno. Noi non parliamo più all’inesorabile Europa; parliamo a noi stessi; desideriamo soltanto che il nemico venga qui a combatterci corpo a corpo ad un fatale duello. Palermo o Ferdinando di Borbone dovranno scomparire dall’Universo!”

Il 17 aprile 1849, infine, il Parlamento siciliano decretò la sua proroga al 1° agosto; ma. non si poté più riunire.

Il deputato Vincenzo Natale, per la quarta ed ultima volta si ritrovò disoccupato.

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Salvatore Majorana Calatabiano, astro nascente della massoneria

Defunta la ventata rivoluzionaria del ‘48, a Vincenzo Natale non restò altro che ritirarsi nei suoi studi, come scrisse al marchese Pensabene. “Ritornato da Palermo in agosto ’49, non mi rimasi in Catania ove soglio dimorare gran parte dell’anno, ma venni in famiglia a Militello per starmi quasi in parte in tempi burrascosi.”

A Militello Vincenzo trovò una Franca Reforgiato diversa da quella che aveva lasciato. La lotta ai Majorana Cocuzzella ed il gusto di primeggiare in paese erano diventati i suoi soli interessi. Chiusesi le possibilità politiche, quindi, voleva che il cognato si rifacesse con la carriera accademica.

“Dovranno tener conto dei tuoi studi sulla storia antica” ella gli disse. “Chiedi protezione direttamente al re. C’è stata una brutta aria a Militello in questi mesi, Se qualcuno non li ferma, i Majorana Cocuzzella non ci lasceranno vivi.”

“Sono passati sessant’anni e questa guerra non finisce ancora. Mio padre rinunciò a trasferirsi a Palermo, per lottare contro quei demoni!”

In quel 1848, dalla setta militellese della carboneria emerse la personalità di Salvatore Majorana Calatabiano, colui che, come si è già detto, si pose come il naturale erede di Vincenzo Natale.

Nato nel 1825, egli si era distinto per gli intensi e brillanti studi di economia, prima di diventare un attivista della rivoluzione liberale, collaborando a periodici d’area (in particolare all’”Unione italiana”).

Fu, perciò, nella logica delle cose il suo aspro conflitto col partito del barone Salvatore Majorana Cocuzzella della Nicchiara, di cui era parente ed a cui nel passato si era rivolto per ottenere protezione nella carriera universitaria. Tali contrasti furono ricostruiti da lui stesso in una dichiarazione di vent’uno anni dopo, fatta al giudice istruttore di Militello, nella qualità di testimone dell’omicidio del figliastro Francesco Laganà.

Nato a Militello, da giovanissimo feci proposito di non restarvi anche perché ero addolorato dalla depressione in che Militello era tenuto dalla famiglia Majorana Cocuzzella che mai risparmiò mezzo per signoreggiarlo.

E pure non ebbi mai a lamentare un grave e diretto contrasto con quella famiglia. Se non che nel mese di giugno 1848 si veniva ad aprire un Circolo Nazionale per incitamento di quello di Catania, e malgrado io ne avessi invitato l’attuale barone a prendervi parte, essendo un’istituzione giovevolissima per l’educazione morale e politica del popolo; quella famiglia si scatenò con tale e tanta violenza contro tutti, e segnatamente contro me, che più volte taluno di loro, e più il fu Giovanni Majorana alla testa di bravi e d’armati a spese del Comune, scorazzò, più spesso e più accanitamente che nei precedenti mesi del 1848 non avesse fatto, per le piazze e strade della città, e sotto le case particolari, offendendo in mille guise i più rispettabili e pacifici cittadini. Ad uno di quegli insulti ed alle minacce relative è dovuta la malattia e quindi la morte del medico don Felice Laganà, giusto nel settembre 1848.

Una sera dell’agosto 1848, presso alle ore due, sono stato aggredito insieme al fu avv. Vincenzo Vecchio dai sicari di casa Cocuzzella, il fu loro cuoco Salvatore il Palermitano, e l’attuale Rosario Alimo Circello.

I sicari avevano armi da fuoco e bianche, io e il mio compagno eravamo nella via della piazza presso al Monastero S. Benedetto: sopravvenne gente e mi lasciarono; e pure continuarono le ingiurie e minacce fino alla piazza contro il povero Vecchio.

Altra volta nel 1848 nella famacia Tinnirello il Giovanni Majorana con bravi venne a fare invettive e minacce d’arresti, e quasi per un’ora tenne sequestrati me e alcuni amici che eravamo colà.

Alquanto pronunciato, precisamente nei miei scritti del 1848/9, contro la signoria borbonica, fui consigliato, al di lei ritorno in Sicilia, di non allontanarmi da Militello, dove pure mi teneva debito d’onore di non abbandonare la famiglia del mio povero defunto Laganà. Nel 1850 divenni sposo della sua vedova e padre dell’unico suo figliuolo allora di meno di cinque anni.

Lo sbocco naturale dei contrasti tra Majorana Calatabiano e Majorana Cocuzzella, come spesso accade in Sicilia, furono le zuffe giudiziarie per gestire un patrimonio, questa volta quello del giovanissimo Francesco Laganà Campisi.

Il bubbone scoppiò nel 1858, quando Majorana Calatabiano restò a sua volta vedovo.

Con l’appoggio del Consiglio di famiglia (evidentemente non del tutto convinto della linearità dei comportamenti di quel padre acquisito), venne nominato tutore del dodicenne Francesco il fratello del barone Majorana Cocuzzella.

Majorana Calatabiano, però, riuscì a fare annullare la decisione dal tribunale, restando di fatto tutore e amministratore del patrimonio del ragazzo. Per mettere a posto le carte, poi, fece in modo che l’incombenza passasse all’avvocato Domenico Giarracca, amico suo ed intimo parente della defunta moglie.

L’odio, quindi, si fece inestinguibile.

Perciò, canditatosi a Regalbuto, a Paternò ed ad Acireale, Majorana Calatabiano, venne accanitamente contrastato dal barone, pur essendosi trasferito da tempo a Catania. In più, quando riuscì a farsi eleggere deputato a Castroreale, per ben due volte subì ricorsi, tesi a fare annullare le elezioni.

Ma, probabilmente, l’attacco più subdolo (o la difesa più risentita?) dei Majorana Cocuzzella fu il rendere pubbliche un paio di biografie molto laudative dei personaggi illustri della loro famiglia, scritte proprio da Majorana Calatabiano. Con ciò diventavano davvero improbabili le sue vanterie di liberale anti-borbonico di sempre, il che, col carattere ombroso ed orgoglioso che si ritrovava, era peggio di una coltellata.

42

Tramonto militellese

L’ultima battaglia di Vincenzo iniziò il 14 febbraio 1850, con una lettera del rettore dell’Università di Catania Carlo Gemmellaro.

“Il buon Abate Ferrara” scriveva il vecchio amico e sodale di lotte carbonare, “è morto di apoplessia il giorno 11 corrente. Non potreste domandar voi la cattedra di lingua e archeologia greca a merito, dopo quanto avete fatto e dato alla luce? Capisco che il non aver bisogno, né di emolumenti, né di posti onorifici, vi fa guardare con indifferenza una cattedra nell’Università di Catania; ma noi, che la vorremmo onorata da un vostro pari, diamo molta importanza alla cosa.”

Prudente come sempre, anche questa volta egli si prese alcuni giorni per riflettere sulla proposta.

D’altro canto, la sua vita si era ormai incanalata su ritmi piuttosto tranquilli. I soli contatti sociali erano gli amici della farmacia Campisi, punto d’incontro dei liberali locali. In quel luogo, attorno alla sua figura, si era formato un vero e proprio partito. L’odio principale era per il regime borbonico e per lo strapotere dei Majorana Cocuzzella; ma, a queste scelte politiche si intrecciava la lotta campanilistica per la riapertura della parrocchia di Santa Maria della Stella.

E fu, appunto, proprio nella farmacia Campisi che, quella sera stessa, Vincenzo parlò con Salvatore Majorana Calatabiano.

“Vivo tranquillo, ormai” gli disse, dopo avergli espresso le sue reticenze ad accettare l’offerta di Gemmellaro. “Senza sperare più nulla dalla vita, senza pretendere di cambiare il mondo con la politica e senza sognare di diventare celebre con gli studi. Anche se, le dico la verità, in queste condizioni davvero Vita mors est.

“A Militello soprattutto!” completò Majorano Calatabiano.

“Mah! Per evadere da questo villaggio di cafoni, credo che in fondo bastino i libri… Le loro pagine sono come un sinedrio di vaghe ragazze, specialmente alla mia età! I libri, amico mio, ci stancano soltanto quando poi non si trova nessuno con cui discuterne. Questa sera, per fortuna c’è lei. Ma, domani? Eh, domani sarà difficile trovare uno che le assomigli!”

“Accetti la cattedra, dunque. I pochi lettori di libri che abitano a Catania sentono la sua mancanza.”

Quattro giorni dopo arrivò un’altra lettera di Gemmellaro. “Doveva giungervi una mia, che vi scrissi due giorni dopo avvenuta la morte del povero Ferrara, nella quale vi esponeva il vivo desiderio di veder onorata la vacante cattedra dal solo che può dignitosamente sostenerla. Vi torno ora ad esprimere lo stesso desiderio, lusingandomi che non sarebbe da rigettarsi una dimora in Catania nel tempo dell’inverno e primavera. I titoli per domandare a merito una cattedra sono le opere pubblicate, ed in questo non vedo chi possa vantarne di merito e peso uguale a’ Discorsi.”

Questa volta Natale non soltanto rispose, ma cominciò a darsi da fare, interessando tutte le amicizie altolocate.

Per intanto, inviò una domanda per ricoprire l’incarico di professore e istoriografo, posto anch’esso ricoperto dal defunto abate Ferrara, seguendo il consiglio del solito Gemmellaro. “Anche in questo i Discorsi dovrebbero far figura.”

Poi, scrisse all’abate Di Lorenzo Carlino, che ne parlò al presidente della pubblica istruzione e giudice della Monarchia, monsignor Planeta. Cercò, inoltre la protezione del marchese Forcella e scrisse a La Lumia ed al Gallo. Da tutti ricevettte ringraziamenti ed assicurazioni.

Il 27 aprile, però, giunse a Catania una disposizione per mettere a concorso la cattedra, escludendo di fatto l’ipotesi di assegnarla a merito, cioè a Natale, anche perché si chiedeva l’età di 28 anni.

Allora, proprio su consiglio di Vincenzo, si presentò per tale incarico (solo concorrente) il giovane Celidonio Errante. E qui si vide chiaramente la malafede del governo, poiché il posto venne soppresso, per mancanza di fondi.

Il primo a rendersene conto, ovviamente, fu Vincenzo, che ne scrisse al Gallo. “Quasicché le opere del Gregorio non fossero state il frutto dello studio storico; ed inutilmente le cattedre d’istoria si fossero istituite dapertutto nella dotta Europa, o almeno che una remunerazione ad un provetto negli studii non fosse un incoraggiamento agli studii stessi, ed un maggiore stimolo alla gioventù.”

Evidentemente, qualche ministro finì per fare lo stesso ragionamento ed il governo ricreò il posto, dandolo, però, a Ferdinando Malvica.

Sul concorso per la cattedra di lingua, letteratura ed archeologia greca le difficoltà furono ancora maggiori. Si presentò soltanto il sacerdote Salvatore Bruno, chiedendo, fra l’altro, dispensa per l’età.

Si ritenne di poter soltanto nominarlo interino, senza renderlo titolare, anche perché il Gran Cancelliere dell’Università di Catania, interrogato dall’arcivescovo di Damiata, presidente della pubblica istruzione e dell’educazione, riteneva che non saprebbe augurarsi scelta migliore del signor Natale.

Anche questa volta, quindi, le cose andarono per le lunghe. Tutti, a parole, erano d’accordo sulla nomina; ma, la nomina tardava ad arrivare. L’arcano gli fu svelato da una lettera di Di Lorenzo dell’11 aprile 1851. “Tutti gli informi sono riusciti favorevoli, meno però quelli di codesto Intendente e del Vescovo diocesano, li quali, sebbene non hanno caricato troppo contro di voi, hanno però posto delle nugole sulla vostra condotta morale solamente, e da queste dubbie informazioni deriva la remora della elezione alla cattedra.”

“Hanno voluto elevare nugola sulla mia reputazione” gli rispose Natale. “L’han fatto quei due soli che non hanno di me cognizione, ma solo per rapporti di malevoli che non possono mai mancare a chi sta in figura.”

Ecco, spuntavano finalmente i malevoli, che nella testa di Vincenzo avevano un cognome preciso: Majorana Cocuzzella. Essi non avevano esitato ad usare i pettegolezzi che circolavano in paese sui suoi rapporti con la cognata Franca Reforgiato.

Poteva mai estinguersi l’odio reciproco?

Sul finire del settembre 1851, probabilmente per lo stato tensione, procuratogli dalla travagliata vicenda della sua cattedra universitaria, Vincenzo ebbe un primo ictus. a settant’anni precisi.

Da scrittore di razza, ancora convalescente, fece lui stesso un’efficace descrizione della malattia in una lettera all’amico Carlo Gemmellaro. “Amatissimo mio signor D. Carlo, avrei desiderato scrivervi da un pezzo, e consultarvi intorno alla mia salute. Ma non ho potuto farlo sinora, poiché un attacco alla testa negli ultimi dì di settembre, seguito da una transfusione di bile, mi turbò le funzioni intellettuali, e, se deesi stare al medico assistente, minacciava una congestione di sangue al cerebro. Sicché immediatamente fu dato soccorso con un largo salasso al braccio, e quindi con un assalto di sanguette al di dietro delle orecchie per la sera, né si cessò la mattina di numeroso uso di sanguisughe all’ano e nei dintorni; in somma dalla sera sino al giorno appresso io stava tra morsure e sangue, e per giunta si aperse un vessicante ora all’uno, ed ora all’altro braccio, che di allora con poco intervallo si va continuando sin oggi. A dire il vero io soffersi in principio un’aberrazione di pronunzia e quasi d’idee, con un sopore che mi piaceva, lasciandomi tranquillo, ma faceami tutte avvertire le operazioni, e mie e degli altri, di cui pigliava conto nello stesso parossismo, sicché mi rimane un dubbio, se l’assalto alla testa fu per effetto di bile, che poi l’indomani si manifestò, oppure per altra causa al cerebro. Ecco dunque l’enigma che vorrei sciolto dal mio Edipo che siete Voi; né senza ragione, giacché vorrei per la guarigione qualche metodo aiutato dall’arte sanitaria, oltre a quella prescrizione rigorosa di sobrietà, che io ho imposto a me stesso, e credo il migliore sussidio della natura. Cibi leggierissimi, zuppe di brodo di galletti, o capretti, pochissimo lesso di queste tenere carni, e poco pesce di mare. Non vino, non droga alcuna stimolante, e sino lo stesso caffè temperato col latte per l’abitudine inveterata della mattina, e non più. In breve non si poteva pretendere di più, malgrado tanto debilitamento, né posso dire che me ne sono trovato male. Divieto intanto di leggere, di scrivere, e di ogni applicazione di spirito. Per più giorni ubbidii, e non penava, ma finalmente ho ricordato a me stesso ed al medico che in ogni duolo di capo per l’avanti io provava alleviamento fisico ed allegria di animo pigliando in mano il Decamerone, o leggendo l’Orlando dell’Ariosto, due scrittori miracolosi in natura a far bene, lungi che capaci di produrre male.”

La dieta, però, poté aiutarlo ben poco, se l’anno successivo, di nuovo all’opera per ottenere la sua cattedra, cominciarono a tornare le amarezze. La cognata Franca, soprattutto, lo incoraggiava ad insistere, nonostante l’aperta ostilità del governo. Gli diceva che quegli impegni gli avrebbero ridato il gusto alla lotta e, quindi, la voglia di vivere. Purtroppo, trascurava un piccolo particolare: forse, erano proprio le cocenti delusioni la prima cosa da evitare.

Nella Settimana Santa del 1854, così, tornò a sentirsi male, pur senza avere febbre. Il malessere durò per tutto aprile, maggio e parte di giugno. A dicembre, tanto per non farsi mancare niente, nel circondario di Militello scoppiò il colera.

Vincenzo, nelle poche righe di una lettera al Martorana ne descrisse gli effetti sociali, mostrando le sue migliori capacità di analisi. “Il colera, che discioglie la società, e fa evadere i cittadini nelle campagne non sicure, il propagarsi del morbo di città in città per contatto, la non curanza delle nazioni a impedirne la marcia, la guerra fra Inglesi e Francesi e nell’intera Europa, che sacrifica gli uomini al commercio ossia al danaro, e non bada neppure al colera e alla peste, la politica non più ondeggiante fra i principii della morale e della giustizia, ma dominata dalla filosofia dell’economia politica!”

L’ictus che lo colpì il 27 gennaio 1855 questa volta si rivelò mortale. Dopo alcuni giorni di paralisi, con l’impedimento della deglutizione e la chiusura della mente, come fu scritto nel certificato di morte, a ore 22, è morto nella casa di sua abitazione D. Vincenzo Natale di anni 73 dottore in legge del fu D. Alfio e di Tinnirello D.a Paola.

43

Gli eredi di Vincenzo Natale

Qualche mese dopo la morte del Natale (il 4, 5 e 6 maggio 1855), Salvatore Majorana Calatabiano riorganizzava il partito mariano militellese. L’occasione furono i festeggiamenti che seguirono la proclamazione da parte di Pio IX del dogma dell’Immacolata Concezione, avvenuta a Roma l’8 dicembre 1854.

“Al primo giorno del triduo” raccontò il prete don Rosario Guzzone, che a quel partito apparteneva, pur senza compromettersi di fronte ai Borbone, “il simulacro della Vergine fu elevato da una branca di sacerdoti secolari dalla Chiesa de’ PP. Conventuali e recato alla chiesa maggiore, procedendo in seguito lo stendardo dell’Immacolata Maria che alla mano del Padre Guardiano sventolava, seguito dalle Confraternite, dalle comunità religiose, dal clero secolare, dal corpo della comunità della Madrice.”

Furono tre giorni di luminarie, di mortaretti e di spettacoli, prologo di avvenimenti più impegnativi, che dovevano portare alla riapertura della Chiesa di Santa Maria della Stella.

L’erede universale di Vincenzo, per la delizia dei pettegoli paesani, fu la cognata donna Franca Reforgiato. Ma, per tutti ormai risultava chiaro che l’erede politico era Salvatore Majorana Calatabiano, che, fra l’altro, acquistò i libri del defunto.

L’affare si concluse con una regolare scrittura, redatta in Militello, il 28 novembre 1856.

Tra noi sottoscritti D.a Franca Reforgiato e D. Salvatore Majorana Calatabiano domiciliati in Militello si è convenuto: io D.a Franca vendo a detto Majorana accettante, tutti i libri indicati in un catalogo scritto in massima parte di carattere di D. Vincenzo Reforgiato, che interviene anche nella presente scrittura, consistente in numero trentatrè pagine scritte, sottoscritte in fine ed in margine dallo stesso D. Vincenzo, e dal predetto Majorana, e appartenenti tai libri secondo la diversa denominazione estimati per onze centosettantuno.

A differenza di Vincenzo, Majorana Calatabiano non aveva aristocraticismi illuministi. Era cosciente che una forza politica moderna, più che sulle idee, poggia sulla coesione del gruppo. Per questo, organizzò i suoi amici mariani come un partito, i cui leader carismatici, oltre a lui, erano il baronello Vincenzo Reforgiato (nipote del compagno di lotta di don Alfio Natale), i fratelli Cirmeni e (dalla seconda metà degli anni Sessanta del secolo) il giovanissimo figlio del medico don Felice Laganà, Francesco Laganà Campisi. Ben presto, questi si fecero conoscere come gruppo dei cavallacci, o dei comici.

Composto in prevalenza da giovani, erano uniti da un legame di natura goliardica, oltre che politica. Fino all’Unità, infatti, essi si distinsero soprattutto per certi scherzi memorabili, come quando provocarono una vera e propria inondazione nella casa di due poveri venditori di acciughe. Spesso e volentieri, inoltre, praticarono la rivoluzione anticipando il concetto di esproprio proletario dei moderni contestatori, cioè facendo man bassa nei vigneti e nei porcili non ben guardati.

L’ascesa politica di Salvatore Majorana Calatabiano cominciò nel 1850, dopo la laurea in giurisprudenza a Catania. Se il caldo interessamento di Vincenzo Natale, gli fu insufficiente per ottenere la cattedra di Economia all’Università di Catania, ebbe in compenso affidato un insegnamento privato di scienze sociali, esercitando al contempo l’avvocatura.

Il salto di qualità, però, lo fece nel 1860, con la nomina a delegato della Dittatura garibaldina a Militello. Da qui, passò alla carica di ispettore provinciale ed a quella di provveditore agli studi.

Nel 1865, poi, vinse il concorso a professore di economia politica nell’ateneo di Messina, ufficio da cui si dimise per l’elezione alla Camera nel 1866. Restò deputato ininterrottamente fino al 1879.

Nel marzo 1876 venne, finalmente, chiamato nel governo della Sinistra di Agostino Depretis, come ministro dell’Agricoltura, dell’industria e del commerico, incarico che resse fino al dicembre 1877, quando il ministero fu soppresso. Lo stesso ministero fu ricostituito nel 1878 ed affidato da Depretis nuovamente al Majorana, che lo resse fino al 1879. Quello stesso anno venne, infine, nominato senatore.

La carriera politica politica non gli impedì di mantenere un prestigio intellettuale di livello nazionale. Perciò, nel settembre 1874, insieme ad un gruppo di uomini della Destra (Peruzzi, Ricasoli, Cambray-Digny, Bastogi, Busacca, Torrigiani) e della Sinistra (Ferrara, Magliani, Mancini), fondò a Firenze la Società “Adamo Smith”, che si proponeva di promuovere, sviluppare, propagare e difendere la dottrina delle libertà economiche, quali furono intese dal suo precipuo fondatore, Adamo Smith, poi svolte ed applicate dagli economisti e da’ governi che l’hanno adottata. Come organo ufficialedell’Ente, fu fondato il settimanale ”L’Economista”, al quale, ovviamente, egli collaborò.

Morì a Roma nel 1897, capostipite di una dinastia di uomini illustri, fra i quali spiccarono i figli Angelo (che fu ministro di Giolitti) e Giuseppe (che fu deputato e rettore dell’Università di Catania) ed il nipote Ettore (il geniale scienziato misteriosamente scomparso negli anni ’30 del Novecento).

Salvatore Majorana Calatabiano, in ogni caso, lasciò alcuni appunti, primo nucleo di una biografia che non scrisse, col titolo provvisorio di Cenni sulla vita del Natale.

Il figlio di Salvatore, Giuseppe, poi, pubblicò a Catania nel 1919, per i tipi delle Officine Arti Grafiche dell’Editore Cav. Vincenzo Giannotta, un più articolato saggio, Vincenzo Natale e i suoi tempi.

In seguito, nel 1878, su iniziativa del presidente di Corte d’appello a riposo Salvatore Calatabiano, del quale Salvatore Majorana Calatabiano era zio, si pensò di intitolarea Vincenzo Natale una società di civile conversazione.

In quell’occasione, Majorana Calatabiano mandò per iscritto la sua autorizzazione all’iniziativa, aggiungendo una scheda biografica mirabile nella sua sintesi.

Niente di male la progettata intitolazione.

Natale fu segretario del Parlamento Siciliano dal 1812 al 1814, membro di quello convocato in Napoli al 1820-1 e ne fu anche segretario (della Camera). Era stato segretario generale dell’Intendenza di Siracusa al 1818 quando il governo borbonico mostravasi inchinevole a transazioni coi liberali. Fu mandato in esilio alla reazione del 1821, e visse lunghi anni a Roma. Reduce attese alla compilazione di libri e scritture storico-letterarie. Autore della vita degli uomini illustri ed insigni di Militello (edizione di Catania e credo pure di Napoli). Dell’antica storia di Sicilia (discorsi) edizione di Napoli (1845); lasciò manoscritte la storia greco-sicola e un’opera di politica venduta negli originali all’Accademia degli Zelanti di Acireale, e forse qualche neo-grecista si sarà valso di quelle scritture, rubandone i concetti. Fu insigne letterato e soprattutto nell’italiano e nel greco.

Al 1837 fu perseguitato dal Borbone, e corse il pericolo di venire ingiustamente implicato in un processo, al 1848 sedette deputato del Parlamento siciliano inviato non da Militello, ma da Aci San Filippo e da altri comunelli nelle elezioni suppletive. A Palermo pubblicava il giornale “L’Osservatore”.

Io penso che sia stato il più insigne e reputato liberale di Militello, e, dopo il Carrera, il primo letterato. Quale storico non regge il confronto alcuno.

Vi abbr. ecc. Aff. Salvatore Majorana Calatabiano.

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Luigi Capuana, testimone di un omicidio politicamente utile

Di che pasta fosse fatto il giovane Francesco Laganà Campisi, lo si vide chiaramente in quella scura mattina del gennaio 1869, con l’acqua che lacrimava sui vetri della chiesa di San Nicolò.

Si celebravano i funerali di Nicolò Portuso, uno dei suoi migliori amici, membro prestigioso del partito dei cavallacci, ucciso da una mano che, se restava nascosta, non poteva certamente dirsi sconosciuta. E la vendetta non avrebbe tardato. Era bene annunciarlo.

– Sulla tua bara prendiamo il solenne impegno di vendicarci! – aveva gridato Francesco, dimenticando il luogo dove si trovava.

I tempi stringevano, quindi. Il sangue sgorgato dalle ferite di Portuso chiamava altro sangue. Eppoi, la lotta tra mariani liberali (dei quali i cavallacci erano espressione) e i nicolesi filo-borbonici era precipitata nella violenza già l’anno prima, durante le elezioni amministrative.

Per questo, poco tempo dopo, nella casina che Giuseppe Calatabiano possedeva in contrada Madonna del Franco, alla presenza del loro capo riconosciuto, il deputato Salvatore Majorana Calatabiano, i carbonari avevano fatto giuramento:

– Morte al prepotente ed ai suoi ricottari!

Il prepotente, ovviamente, era la colonna del partito dei nicolesi, il vecchio barone Salvatore Majorana Cocuzzella.

Così, anche se molti pensavano che Nicolò Portuso fosse stato ammazzato dal padre di un bambino ucciso dai cavallacci (perché involontario testimone di uno dei loro tanti delitti), Francesco Laganà Campisi indirizzò subito (e neppure tanto velatamente) l’odio dei compagni contro il barone, trasformando il funerale in una manifestazione politica.

Nei giorni seguenti, poi, egli proseguì nella campagna di guerra, pubblicando, in collaborazione col baronello Vincenzo Reforgiato e col signor Antonino Caruso Pico, il libello intitolato Dopo l’intrigo il delitto.

L’opera non difettava di chiarezza nel denunciare i suoi intenti, potendovisi leggere:

“La mala erba deve sradicarsi sino alle radici.”

Oppure:

“Il tempo delle prepotenze è finito e ad ogni parola si darà una stilettata!”

Di certo, una tale… come dire?… vivacità nella partecipazione alla vita pubblica finiva per comportare fastidi non lievi nella vita privata. Ci fu qualcuno che nei suoi confronti applicò una delle più vigliacche (e, purtroppo, ancor oggi più diffuse) pratiche di ritorsione, deviando il corso delle acque che irrigavano il suo giardino di Passaneto. Ma, com’egli stesso amava dire, non era il tipo da stare con le mani alla cintola e le acque, d’amore o di forza, finirono per riprendere il corso di prima.

In verità, quello che succedeva a Militello era, in un certo senso, fisiologico in quei tempi di gran cambiamenti. Uomini nuovi premevano per assurgere al ruolo di protagonisti del potere politico e in politica la forma è sostanza e le parole finiscono per travolgere i fatti.

Se sono nuove, le parole, magari non serviranno per affermare nuove verità, ma saranno indispensabili per portare al governo nuovi uomini. Così, il gruppo dei cavallacci, detti pure comici, tutti baldi giovanotti della buona borghesia, si candidava ad essere il ricambio, l’alternativa all’ultratrentennale signoria del vecchio barone Majorana Cocuzzella.

Bisogna dire pure, però, che il legame di questi allegri giovanotti era un fatto pre-politico. Fino all’Unità essi si erano distinti soltanto per certe ribalderie memorabili. Nella casa di due poveri venditori di acciughe, per esempio, avevano provocato una vera e propria inondazione e spesso e volentieri avevano fatto man bassa nei vigneti e nei porcili non ben guardati.

Nel 1868, però, i liberali avevano vinto le elezioni amministrative e poi, in quello stesso anno, cioè nel 1869, vinsero le politiche, riuscendo nelle prime a far elegere consigliere comunale il baronello Reforgiato e nelle seconde consigliere provinciale Salvatore Majorana Calatabiano (quasi omonimo, ma nemico acerrimo del barone Salvatore Majorana Cocuzzella), sposato in seconde nozze con la madre del Laganà.

La verve dei comici, ormai, aveva abbandonato gli ozi pre-unitari e s’era evoluta in strumento di pressione politica, producendo articoli di giornali, biografie, libelli e proteste contro il Cocuzzella e la sua famiglia.

L’idea fissa di Francesco Laganà Campisi, insomma, divenne il voler arrivare alla definitiva sconfitta, anzi alla totale scomparsa dalla scena pubblica, del barone. In questo, c’era il desiderio di vendicare suo padre, morto d’infarto nel 1848, dopo un assalto dei bravi di casa Majorana Cocuzzella.

Il giorno decisivo fu l’otto settembre del 1869, festa della Madonna della Stella.
Già da molti giorni, in verità, si pensava che qualcosa di grosso dovesse succedere. Presidente del Comitato Festeggiamenti era il baronello Reforgiato e, a parere della fazione del barone Majorana Cocuzzella, la conseguenza prevedibile era qualche tiro da liberale birbone, irrispettoso d’ogni ordine e tradizione.
Per di più, al Cocuzzella bruciavano ancora le due sconfitte elettorali consecutive e, quindi, egli pretendeva che fosse ripristinata l’antica usanza dell’inchino (che, tra parentesi, egli stesso aveva abolito precedentemente, quand’era sindaco e padrone di Militello).
L’inchino, per chi non lo sapesse, consisteva in una particolare fermata della processione con la statua della Madonna sotto il balcone del barone, seguita da un vero e proprio inchino, aspettando l’offerta.

Per questo, di mattina presto, Rosario Alimo Circello, uno dei bravi del barone, parlando a San Rocco per farsi sentire da San Pasquale, aveva detto in pubblica piazza:

– Qui, se non si dà soddisfazione al barone, finisce davvero male!

Ed il cocchiere D’Agata, un altro della stessa risma, era passato e ripassato per via Botteghelle a capo di un folto gruppo di campieri.

Uno, allora, gli aveva chiesto:

– Ohè, compare! A che servono tanti uomini?

– A dare i ceri alla Madonna – aveva risposto D’Agata.

I cavallacci non potevano tenersela, un simile provocazione. Anzi, se mai avevano avuto intenzione di acconsentire alle richieste del barone, il dispiegamento dei bravi fu un irresistibile invito alla rissa.

– Le torce faremo trovare a quel vecchio rancoroso! Altro che ceri! – si dissero, quando si riunirono nella farmacia Tinnirello, ch’era il serale covo carbonaro.

Tutti d’accordo, perciò, tutti pronti, gruppo contro gruppo, alla bastonatura e all’accoltellamento, i liberali fecero un poco devoto assembramento attorno alla bara della Madonna, che nel tragitto tra la chiesa e la casa del barone procedette in un silenzio carico di elettricità, dove gli opposti partitanti si guardavano in cagnesco e, al posto dei rosari, formulavano minacce a fior di labbra.

Ecco il balcone del barone, ecco il barone impettito che aspettava. Le nocche delle sue mani strette all’inferriata si erano fatte bianche. Ben più esangue era il viso, agitato da un lieve fremito delle labbra. I bravi si disposero ad entrare in azione. Altrettanto fecero i cavallacci.

Così, quando la Santa arrivò sotto i ghirigori barocchi del fatale balcone, ci fu come un grido liberatorio.

I bravi cercarono di trattenere la bara, affinché avvenisse il preteso inchino, non disdegnando l’eloquenza degli schiaffoni e dei calci.

Il neo-eletto consigliere comunale, baronello Vincenzo Reforgiato, che stava alla testa della processione, si prese un pugno in un occhio e per lui la luce del giorno si fece scura e piena di stelle. Il suo lamento non rimase inascoltato. Accorsero gli amici dalle retrovie ed il parapiglia divenne vasto e compatto.

Vinsero gli impertinenti cavallacci, perché, pur tra urla e spintoni che tolsero ogni ieraticità alla Divina Immagine, la processione tirò dritto.

Il barone, perciò, non soltanto non ebbe l’inchino, ma fu pure fatto oggetto di sghignazzate, pernacchie e fischi. Ed ovviamente la sua reazione non si fece attendere.

Egli si torse e si morse le mani, pestò i piedi ed alzò i pugni verso gli sberleffanti:

– Ci rivedremo! – gridò rauco al loro indirizzo. – Non dubitate, manica di delinquenti!

Il chiasso di un applauso sfottente fu la risposta a quelle parole e subito dopo ripresero i fischi e le pernacchie.

Majorana Cocuzzella, allora, visto che la sua ira finiva soltanto per ingrandire l’umiliazione, senza dire altro, rientrò nel chiuso delle sue stanze.

E’ facile immaginare la fulmineità con la quale il paese si riempì della notizia dello scacco che era stato dato al potente barone. I contadini non erano certo abituati a vederlo come perdente. Sfottuto, poi!

Fino a quel momento, sul barone, girava solo il solito raccontino del potente ingravida-lavandaie (ne ho ritrovato uno quasi uguale sul Re Vittorio Emanuele II a Racconigi, provincia di Cuneo).

Toc! Toc! bussava il barone.

“Cu è?” chiedeva la donna.

“Rapa, stiddicchia, ca sugnu u baruni…”

Per disgrazia, Stiddicchia era il nome più diffuso di Militello.

Quella mattina, perciò, crollava un mito che pareva eterno come la miseria. Poteva mai darsi pace, il barone?

Infatti, egli non riusciva a star fermo. Passava da una stanza all’altra e grugniva truculenti propositi di vendetta.

– Taglierò i cosiddetti, taglierò… a quei carbonari del ca…!

E qui si fermava, perché pensava che poteva sentirlo la figlia, che era nella stanza accanto.

– Ah, a cosa mi portano, i maledetti! A dar scandalo a casa mia!

Andò avanti così fino alle quattro del pomeriggio, quando tornò ad affacciarsi al balcone.

Se ne pentì subito, poiché vide i suoi nemici, tutti schierati davanti alla farmacia Tinnirello, che cominciarono a ridergli in faccia. Anzi, appena si accorsero di lui, fingendo di discutere fra di loro, riepilogarono ogni particolare della sua sconfitta. Naturalmente, a dirigere l’orchestra c’era Francesco Laganà Campisi.

Quindi, non gli restò altro che rientrare con ira rinnovata.

Alle diciotto capì che, se non usciva ad affrontare i cavallacci, rischiava di scoppiare.

– Vado a vedere la corsa dei cavalli – disse alla moglie.

C’era presente il sacerdote Di Maiuta, da anni fidato compagno delle sue passeggiate e confessore delle sue scappatelle, che cercò di sconsigliarlo.

– Vossignoria non dovrebbe uscire – gli disse. – Tolga l’occasione, a quella gente!

– E che? Non sono più libero di vedermi una corsa di cavalli? – rispose il barone, con un tono che non ammetteva repliche.

Il poveretto sospirò rassegnato e si dispose ad accompagnarlo.

– Vengo con voi – disse.

– Se vi fa piacere – rispose il barone.

Inoltre, per strada si unirono a lui don Fidenzio Cocuzzella, suo nipote, il cocchiere D’Agata, il fattore Ballarò, il contabile Valerio, mastro Turrisi, mastro Janni, mastro Faragone, mastro Pensavalle e tutto un seguito di camerieri e campieri.

Con tale codazzo arrivò al Casino dei Civili. Laganà Campisi era lì con i suoi amici euforici e baldanzosi per la vittoria. Tra questi, c’era l’avvocato Greco, che, fingendo di non averlo visto, ricominciò il concerto dei fischi.

– Senti un po’, porco villanzone! – disse allora il barone, battendogli il bastone sulle spalle.

Fu un gesto fatale, poiché Giuseppe Greco, fratello dell’avvocato e di professione fabbro ferraio, gli assestò sulla testa un colpo di legno tale da farlo cadere a terra tramortito. Subito si levò un grido:

– Hanno ammazzato il barone Majorana!

Il cocchiere D’Agata tirò fuori la pistola e sparò dei colpi in aria, per farsi largo e recare soccorso al padrone. Accorse pure il prete don Giuseppe Compagnimo. Purtroppo, però, egli era un noto amico dei cavallacci, per cui il suo gesto fu male interpretato da mastro Janni, che, per non sbagliare, gli assestò una coltellata.

– Sono morto! – squittì il prete e si lasciò andare per terra, piangendo.

Nel frattempo, qualcuno riuscì a sollevare il corpo del barone bastonato. La sua testa calva era coperta di sangue e non dava il minimo segno di vita.

– A casa Marino, presto! – suggerì qualcun altro.

Così, alla men peggio, il poveretto venne portato via e davanti al Casino dei Civili restarono soltanto i duellanti. Se i bravi del barone facevano lampeggiare i coltelli, i cavallacci si difendevano egregiamente impugnando bastoni e sedie.

Nella mischia c’era mastro Turrisi, uno che aveva molti motivi di gratitudine verso il barone ed un motivo di antipatia per Francesco Laganà Campisi … un motivo grave, essendo un marito all’antica, di quelli che non perdonano chi gli adorna la casa, come disse Santuzza a compare Alfio.

Insieme a lui, c’era mastro Janni, che altri non era che il padre del bambino ucciso da Nicolò Portuso, da pochi giorni venuto a porsi sotto la protezione del barone.

I due, perciò, non persero molto tempo. Sferrando colpi all’impazzata, riuscirono a farsi largo, fino ad arrivare davanti al giovane. Gli altri cavallacci, intanto, in evidente inferiorità numerica e d’armi, arretravano.

Laganà Campisi no. Era coraggioso. Od incosciente.

Poteva scampare la morte. Ma non lo fece.

– Ora non mi scappi più! – gli disse Turrisi, quando lo vide stretto in un angolo.

– Non scappo, non scappo – rispose Laganà Campisi. Anche tua moglie sa bene che non scappo!

Fu la sua ultima battuta.

Nell’autopsia riscontrarono nel suo corpo ben sei coltellate in punti che andavano dalla mammella all’addome, più varie escorazioni, rotture e ferite secondarie.

Non morì invano, però, perché il suo patrigno, Salvatore Majorana Calatabiano, riuscì a far scordare i veri motivi dell’assassinio, per cui il barone Salvatore Majorana Cocuzzella venne moralmente linciato ed incriminato come mandante.

Il processo, è vero, si chiuse senza una condanna. Ma, la carriera politica del barone fu distrutta per sempre. Il che era ciò che contava davvero. In tal modo, infatti, il Calatabiano potè diventare l’unico detentore del potere a Militello e, successivamente, salire fino al grado di ministro del Regno d’Italia.

D’altra parte, a che servono i martiri?

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